Una Storia d’amore d’altri tempi
Mi chiamo Maria Cecilia Biagi e ho deciso di ripercorrere la storia della mia famiglia. Di rimettere insieme i racconti di mia mamma e della nonna che purtroppo non ho potuto conoscere
Pochi atti di nascita e un muro di confine divideva i miei nonni materni.
La nonna, Giulia Mengoni, era stata registrata col numero 1606 nel volume dei nati del Comune di Prato; il nonno, Vincenzo Maggini, col numero 1619: nati nello stesso giorno di Santo Stefano del 1884.
Come se non bastasse, le loro case erano anche confinanti, nella zona di Filettole (Prato).
Hanno trascorso l’infanzia insieme e so che il nonno le aveva giurato che l’avrebbe sposata da grande. Certe volte tra bambini si dicono le cose un po’ per gioco, ma loro due invece l’hanno fatto davvero. So che è stato un amore un po’ contrastato da parte della famiglia Maggini perché consideravano la nonna Giulia una “fabbrichina”, una lavoratrice in fabbrica, e quindi non in grado di apportare un aiuto nel lavoro dei campi.
Nonostante ciò, nel 1915 si sposano. Hanno prima due bambine che però muoiono perché il nonno aveva contratto la malaria nel suo trasferimento in Maremma per lavorare come carbonaio. Successivamente hanno altre due bambine a cui danno gli stessi nomi di quelle prematuramente scomparse: Lina, la più grande, e Loretta Dina Maria la minore, che altri non è se non la mia mamma.
Prima della nascita di Loretta tutto filava liscio o almeno come in tutte le famiglie: fra alti e bassi. Dopo il parto però la nonna Giulia si ammala; mi si raccontava che le era stato riscontrato un “doppio vizio mitralico e aortico”. Oggi si direbbe che era affetta da stenosi. Consultando il registro degli infermi nel fondo Ospedale Misericordia e Dolce dell’Archivio di Stato di Prato ho potuto avere conferma di quella che era la sua diagnosi nel 1928.
Passano tre lunghi anni segnati da fame e sofferenze: la nonna è malata e non è in grado di accudire le sue bambine che quindi vengono affidate alle cure degli zii. Il nonno, il loro padre, è preoccupato nel vedere la moglie sempre più sofferente e nel non sapere mai dove siano le bambine, soprattutto la più piccola.
Aveva dovuto affrontare anche il baliatico recandosi a Vaiano, una località della Val di Bisenzio (Prato), in pieno inverno con quel fagottino che reclamava latte a più non posso.
Nonostante tutte le cure e le premure, in una gelida sera di Dicembre, più esattamente il sei del 1928, detto anche l’anno della tormenta, Giulia lo lascia solo con il suo dolore e con due bambine piccole: Lina di sei anni e Loretta di tre. Posso solo immaginare la disperazione di quest’uomo.
Non di poco conto fu anche l’impegno economico che dovette sostenere: donne di servizio, sparizione di corredo, gioielli e quant’altro di commestibile si trovava in casa.
Le medicine al tempo erano tutte a pagamento e il nonno aveva il conto aperto con il Dr. Giuseppe Bottari, titolare della farmacia di Piazza Duomo.
In tutto questo una signora, dama di carità moglie dell’allora direttore generale del Fabbricone, la signora Cardelli, gli propone il lavoro di guardia giurata notturna. Un lavoro di responsabilità, con tanto di porto d’armi ma che garantiva loro il sostentamento. Nel frattempo i fratelli e le cognate gli proponevano le soluzioni più disparate per sistemare le bambine, tra cui quelle di mandarle in qualche istituto, ma lui al pensiero di doversene distaccare optò per un secondo matrimonio, forse più per dar loro una figura femminile che per altro.
La “matrigna”, ma non voglio chiamarla così ma bensì la nonna Rosina è stata una donna amorevole che ha accolto le bambine, Lina e Loretta, come se fossero sue e a quell’epoca trovare un marito con un lavoro stabile e che ti permetteva di non gravare più sulla famiglia d’origine non era cosa da poco.
Vincenzo continuò comunque a prendersi cura delle sue figlie, e tra un impegno e l’altro coltivava la sua grande passione: quella per il giardinaggio e il pezzettino di terra che curava con più amore era la tomba della sua amata Giulia.
Io ho vissuto la sofferenza che ha contraddistinto la vita di Loretta, mia madre: quella mancanza che l’ha accompagnata in tutti i suoi giorni. Non posso fare a meno di ricordare che in punto di morte aveva un gran sorriso e che di sicuro era rivolto al pensiero della sua mamma.
Questo breve scritto lo dedico a lei.
Un suggerimento a chi leggerà queste poche righe: raccontate sempre le storie delle famiglie, tramandatele, perché sono il nostro tessuto, la trama su cui noi poi mettiamo i fili. Per me è stato molto bello ripercorrere a ritroso la storia della mia famiglia; è stato come ricomporre un puzzle, far riaffiorare alla memoria tanti ricordi che credevo sopiti.