Ad accompagnarci in questo viaggio nel tempo è la voce del giornalista Claudio della Seta che racconta le immagini e le storie delle persone riprese realizzate dal prozio Salvatore Di Segni dal 1928 al 1936.
Un doppio punto di vista, sia personale che professionale, che pone l’accento sull’importanza che questi film hanno.
Questo montaggio ha inoltre la capacità di restituirci uno dei momenti più drammatici della Storia del nostro Paese attraverso la combinazione di memorie visive private e di memorie orali.
Nei film girati da Salvatore Di Segni compaiono diversi protagonisti della vita sociale ed economica dell’epoca. Tra questi, troviamo l’eclettica figura di Giorgio Ascarelli.
Nato a Napoli nel 1894, Ascarelli fu imprenditore, mecenate, collezionista d’arte e dirigente sportivo. Incrementò la florida azienda tessile paterna espandendone le attività fino in Lombardia con la costituzione della Manifattura Villadosia di Busto Arsizio.
La profonda passione di Ascarelli per lo sport lo spinse nel 1926 a creare l’A.C. Napoli (poi Associazione Calcio Napoli). Fu il primo presidente della squadra e nel 1929 fece costruire a proprie spese lo Stadio Vesuvio, progettato da Amedeo D’Albora a Rione Luzzatti, vicino alla Stazione Centrale.
Giorgio Ascarelli muore nel 1930 a soli 36 anni, pochi giorni dopo l’inaugurazione dello stadio. L’impianto sportivo fu a lui intitolato fino 1934, quando il regime fascista decise di mutarne la denominazione in Stadio Partenopeo.
Alcuni film del fondo Di Segni documentano la trasformazione della città di Milano di cui l’architetto Piero Portaluppi fu protagonista.
Il 1° ottobre 1926 è bandito il concorso per il Piano Regolatore della città di Milano.
Dei 25 progetti che partecipano, il primo classificato è “Ciò per amor” di Piero Portaluppi e Marco Semenza. Nel progetto vincitore sono contenute più soluzioni per la sistemazione della piazza del Duomo e gli edifici circostanti.
Diversi di questi lavori sono realizzati dalla società di Leone Sonnino, consuocero di Salvatore Di Segni.
In particolare, Sonnino affida a Portaluppi il disegno dell’edificio con il grande arco su corso Venezia.
Tra i film del Fondo Di Segni trovano spazio anche immagini lontane dalla dimensione familiare.
In questo caso, un evento tanto eccezionale quanto catastrofico come l’eruzione dell’Etna diventa parte del racconto per immagini che Salvatore Di Segni realizza nel novembre del 1928.
Tra il 2 e il 7 dello stesso mese infatti si apre una frattura sotto il cratere centrale del vulcano.
La colata lavica che ne deriva si riversa sui paesi sottostanti, investendo un tratto della ferrovia Circumetnea e arrivando fino al paese di Mascali, distruggendolo in pochi giorni.
Il racconto riguarda una figura di famiglia: Giacomo Schirone, uno dei due fratelli del nonno paterno, dunque zio di mio padre, che si chiamava come lui. Nato nel 1900 (ma i documenti indicano la data del 21 gennaio 1901) fu sempre socialista; perseguitato dal fascismo, esule in Francia, combattente in Spagna, antifascista nel dopoguerra e fino alla fine. Come filosofia di vita, fu anticlericale e razionalista.
Non è stato facile rimettere a posto tutti i tasselli di una vita pienamente vissuta in modo attivo e partecipe degli eventi azionali e internazionali, dagli anni giovanili fino alla fine. Tanti i dettagli d’archivio, gli appunti personali, i manoscritti, le tracce della sua ricca attività politica e culturale che, insieme, restituiscono corpo e voce a Giacomo, dignitosa figura di sarto barese, fine e accurato. Internazionalista per le idealità di tutta la vita, compagno di Nenni, combattente in Spagna (unico barese – documentato – che abbia partecipato alla Guerra Civile), punto di riferimento dei giovani di Bari, Milano, Marsiglia.
Cultore di eleganza anche da partigiano.
È una ricerca che vuol superare l’esposizione di una biografia affettiva per diventare memoria collettiva e far luce su una vicenda personale e fittamente intrecciata con la Storia del Novecento. Un esempio di vita, coerente e avventurosa.
Nonostante lo scarso livello di scolarità, Giacomo coltiva una curiosità intellettuale dapprima verso il pensiero socialista, fino a scelte politiche che misero più volte a repentaglio la sua vita e l’incolumità di chi gli era accanto. Da qui la decisione di partire (era la notte di ferragosto del 1923) clandestino, verso la Francia. Da Marsiglia poi la sua militanza lo porta alla scelta del combattente in Spagna, nelle Brigate Internazionali di Carlo Rosselli, al fianco di Nenni e Di Vittorio.
Aderisce alla nascita del Partito d’Azione; sempre in prima linea, lo troviamo sia al 1° Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale che nella ricostituzione della Camera del Lavoro (entrambi svoltisi a Bari nel gennaio 1944).
È presente nel tragico corteo del 28 luglio del ‘43 a Bari (strage di via Niccolò dell’Arca); massone per affinità con il pensiero razionale e di fratellanza; anticlericale fino alla fine: attraverso Giacomo veniamo a conoscere anche la vita degli esuli, nonché il pensiero di un grande razionalista spagnolo, Francisco Ferrer, che Giacomo poi divulgherà nella vita culturale barese del dopoguerra.
La sua vicenda, politica e umana, viene raccontata anche attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, compresi giornalisti che ne tracciarono un appassionato profilo all’indomani della scomparsa (16 settembre 1980).
Alla morte di mio padre Amedeo Ferrari, all’età di 95 anni, da un cassetto è venuta fuori una foto dove lui era circondato da figli, nipoti e pronipoti e d’un tratto ho realizzato che con la sua scomparsa nessuno avrebbe più raccontato le vecchie storie di famiglia che sarebbero state presto dimenticate. Ho cercato di raccogliere informazioni sulla storia della famiglia, originaria di un piccolo paese dell’Abruzzo montano di nome Borrello e ora sparsa in varie città italiane, e di metterle per iscritto per poterle tramandare ai figli e ai nipoti.
Il materiale documentale e fotografico disponibile era veramente scarso e le prime difficoltà si sono subito palesate nel costruire un albero genealogico attendibile: i dati erano discordanti tra loro a seconda della fonte orale di provenienza, inoltre molte caselle dell’albero restavano vuote.
È a questo punto che mi sono imbattuto nel Portale Antenati e, utilizzando i vari registri, i singoli certificati di nascita, matrimonio e morte, quasi tutti i dati mancanti al mio albero genealogico sono diventati chiari e soprattutto disponibili. Da ogni singolo nominativo è stato possibile risalire ai genitori, al coniuge, ai figli e così via per tutto il periodo dell’800.
Senza la consultazione del Portale Antenati non avrei mai saputo che il mio bisnonno Emidio Mariani in realtà si chiamava Emilio Albino Mariani e grazie a questa precisazione è stato possibile consultare i relativi certificati e notare che egli si era sposato tre volte dopo essere rimasto vedovo.
A differenza di mio nonno Vincenzo Ferrari, emigrato in America e deceduto nel crollo di una miniera di ferro in Pennsylvania, del mio bisnonno materno Alfonso Evangelista non ero riuscito a trovare traccia tra gli emigranti pur essendo certo che egli avesse trascorso molti anni in Argentina.
Dal Portale Antenati ho appreso che il nome esatto era Giuseppe Alfonso Evangelista e nella lista dei Passeggeri, che si imbarcarono da Napoli per Buenos Aires, il suo nominativo si trovava alla lettera G come Giuseppe Alfonso Evangelista. Se non avessi saputo, tramite il Portale Antenati, del secondo nome non l’avrei mai trovato.
Per far conoscere le storie più significative della famiglia narro la vicenda dello zio Arturo, di indole mite, il quale compì un singolare viaggio della speranza. Nel 1938, a 19 anni, fu chiamato al servizio di leva in qualità di fabbro per ferrare i muli del reparto artiglieria.
All’epoca la leva durava 24 mesi, ma allo scadere del secondo anno, nell’estate del 1940, l’Italia entrò in guerra e Arturo fu inviato a combattere in Jugoslavia, per circa tre anni. Il 10 settembre 1943, dopo l’armistizio di Cassibile, venne catturato dai soldati tedeschi e deportato in Germania al campo di concentramento di Buchenwald nel settore Stalag 5, non distante da Berlino.
Finalmente nel 1945 l’Armata Rossa arrivò anche a Buchenwald e i Sovietici liberarono tutti i prigionieri trasferendoli in Polonia e dopo altri sei mesi arrivarono a Innsbruck dove furono definitivamente liberati.
Arturo con l’ennesimo treno percorse la linea ferroviaria che corre lungo la costa adriatica e finalmente trovò un passaggio su una vecchia Balilla lungo la strada della valle del fiume Sangro attraverso una distruzione che non aveva mai pensato potesse raggiungere quelle contrade tanto isolate. I ponti sul fiume erano stati distrutti e l’auto dovette avanzare lungo la sterrata che si arrampicava sui monti ma alla fine anche questa risultò interrotta a circa sette chilometri da Borrello.
Era tardo pomeriggio, Arturo sperava che la sua famiglia fosse stata risparmiata e a passo svelto, quasi di corsa si avviò verso il paese, era l’imbrunire quando raggiunse la località chiamata Piano del Verde, rallentò l’andatura e trasse un respiro di sollievo, i campi dei suoi familiari erano stati seminati: alcuni di loro erano ancora in vita e tra poco li avrebbe riabbracciati. Una follia durata sette anni.
Il padre di Anna Maria, Agostino Scotto di Marco, detto il “Comandante”, capitano di corvetta presso la marina militare, come si evince dalle pubblicazioni rintracciate sul portale Antenati dell’Archivio di Stato di Brindisi, era la terza volta nella sua carriera che aveva come destinazione Brindisi. Aveva conosciuto parecchia gente del posto e gli era fraterno amico il figlio del Notaio Foscarini che, in ogni suo ritorno, lo cercava subito per trascorrere le ore libere dal servizio con lui mettendolo a giorno delle ultime novità: matrimoni, nascite, morti. Aveva un bel fisico asciutto ed era sempre vestito in maniera impeccabile sia in divisa che in borghese. Era un giovane Capitano di Corvetta molto ricercato dalle signore specialmente per il gioco del bridge al Circolo della Marina, tanto che, spesse volte, la sera doveva rifare la barba, che era nerissima e folta, per essere perfetto al tavolo da gioco.
Una sera dei primi mesi del ’33, i due amici passeggiavano per il lungomare Regina Margherita di Brindisi quando il Comandante notò due signore che procedevano in senso opposto e si meravigliò, data la serata gelida e ventosa, del loro procedere lento dovuto probabilmente all’andatura della signora anziana. Era questa una persona che dimostrava una settantina d’anni; con un lungo vestito nero che sfiorava il selciato, calzava sulla fronte un cappello sempre nero di velluto. Il Comandante notò lo sfavillio di due brillanti alle orecchie mentre, nell’insieme, la figura della signora era piuttosto dimessa. Non altrettanto quella della giovane figlia che apparve subito di una bellezza folgorante. Vestiva un cappotto di sartoria bordò e affondava il viso nel collo di astrakan per ripararsi dal vento.
La signora anziana era la signora Eleonora vedova del Dottore Barnaba, la ragazza l’ultima figlia della signora che molto colpì il Comandante tanto che chiese al Foscarini di informarsi perché forse potrebbe andare bene per lui. Nell’ultima destinazione precedente, a Messina, “aveva cercato moglie” e quasi concluso con una signorina di buona famiglia di quella città. Poi non se ne era fatto più niente ma Agostino, valutando la sua età, era entrato nell’ordine di idee di “mettere su famiglia”. Ora perché non a Brindisi? Conosceva, era conosciuto e stimato, quindi si poteva tentare.
Un mesetto dopo quella sera ventosa, di pomeriggio, ci fu la richiesta formale “per essere ricevuto, insieme al suo amico Foscarini, in casa Barnaba e chiedere in sposa la figlia Maria.” La signora Eleonora si riservò un pò di tempo per pensarci e, intanto, scrisse una lunga lettera, e non la solita cartolina postale settimanale, allo zio Angiolino, suo fratello prete, Cameriere Segreto di Sua Santità, per chiedere informazioni sul Comandante Agostino Scotto di Marco.
Seguì il fidanzamento e solo qualche stralcio qua e là è stato trovato per ricostruire quei mesi di vita di Maria e Agostino che pure dovettero essere ricchi di emozioni. Certamente, la giovane Maria fu affascinata dalle imprese del comandante, giri del mondo, imbarchi e scuole di Guerra anche fuori del Mediterraneo, campagne idrografiche e poi la grande guerra del 15–18 combattuta giovanissimo, la rovinosa caduta con il “Caproni” nel cielo di Restinco con relativa frattura della colonna vertebrale e degenza ospedaliera di un anno nell’Hotel Internazionale di Brindisi adibito ad ospedale per i casi più gravi.
A proposito di quel periodo, la madre di Anna Maria, Maria Barnaba, le raccontava un aneddoto capitato il quell’estate del ’33 in cui scoprì che Agostino aveva quasi quarant’anni e pensò che quasi quindici anni di differenza fra un uomo e una donna non erano importanti rispetto alla possibilità di vivere finalmente una vita libera di città in città lungo la penisola! Così iniziarono i preparativi per il matrimonio nella tarda estate del ’33 .
Le sarte di Bologna prepararono il corredo personale e l’abito da sposa. Il corredo da casa fu rinfrescato e ammirato da Elvira, la sorella di Agostino, che portò un costume tradizionale da procidana che la sposa Maria avrebbe indossato alla prima festa dei Misteri nell’isola in coincidenza con la Settimana Santa. Nel filo dei ricordi in un piccolo album di fotografie che porta la dicitura “Matrimonio di Agostino e Maria” rigorosamente in bianco e nero, posavano i genitori di Anna Maria in quel lontano 28 Dicembre 1933. Lo sposo, in grande uniforme, con sciarpa, sciabola e cordelline, sfoggiava le numerose medaglie accumulate nella carriera. Spiccava la medaglia di bronzo, la Croce di guerra, quella dell’Ordine Mauriziano e tante altre che erediterà il suo figlio maggiore. Era bello il papà di Anna Maria!
Maria era la classica sposa degli anni trenta: quante ragazze sfoggiarono una cuffietta di fiori d’arancio in quegli anni, quanti abiti morbidi nella scollatura e nella silhouette, aveva visto Anna Maria nelle foto d’epoca. Splendido il fascio di rose bianche che Maria reggeva in mano. Il fotografo aveva posizionato, inoltre, una corbeille fiorita ai suoi piedi vicino ad una delle sedie del salotto buono. C’era la sua futura cuginetta Elena che reggeva la nuvola di velo da sposa. Anna Maria ricordava bene questa mite cugina che aveva seguito le orme della zia Elvira che adorava. Era molto riservata Elena e quel nome lo porterà la sorellina di Anna Maria che si spegnerà neonata nel ’38.
Anche nella foto scattata all’Hotel Internazionale è presente la piccola damigella davanti alla zia, dopo la cerimonia: è tanto simile alla sua zietta che ne sembra la figlia! Sfilano in questa foto a partire dalla sinistra della foto il giovane Foscarini, il marito di una cugina di sua madre e famiglia con i due figli piccoli che Anna Maria ricorda già vecchi. Le tre amiche care, una cugina di Mesagne, la zia Elvira, la cugina Elena, la nonna Eleonora, gli sposi, la signora Maria Merolla, le cugine Palmina e Fausta d’Erchia di Monopoli, l’Arciprete zio Florindo, il dottor Merolla. I coniugi Merolla, erano grandi amici della famiglia dello sposo, dai quali passavano l’intera estate a Procida per “passare le acque ischitane”. Napoletani veraci, pare conducessero una vita molto brillante nella loro città. La signora, appare qui in foto, carica di gioielli; porta appuntate sull’abito di velluto ben due spille e diventerà molto amica di Maria che sentirà come una seconda mamma.
Dall’album dei ricordi, spunta quella della “Puparella“: è Anna Maria Scotto di Marco, la loro figlia e soprattutto mia madre.
Queste foto sono nitide, raccontano di vita, di avvenimenti, di persone che sono passate mentre le suppellettili, gli oggetti, mobili sopravvivono. Di loro rimane solo il ricordo, ma per quanto ancora?
Un attimo rispetto all’eternità, rispetto a questi quattro miliardi e mezzo di anni, da quando quel Sole continua a sorgere perfettamente ad Est nell’Equinozio di Autunno, un attimo del “Tempo dell’Uomo.”
Periodo Pratese tra la prima metà del 1500 alla prima metà del 1700
I libri dei battesimi cinquecenteschi di S. Pietro a Iolo fanno supporre che il ceppo primigenio dei Bettazzi, fosse collocato nella località Casale da cui si espanse nel territorio delimitato in rosso. Nelle prime generazioni, i nomi ricorrenti erano Bartolomeo e Bernardo in due linee separate, ma ambedue convergenti a Casale. Il mio capostipite è Bartolomeo Bettazzi nato intorno al 1530. Il figlio Alessandro, che ebbe Domenico lo troviamo a Vergaio . Antonio figlio di Domenico si trasferì a Montemurlo e sposò Maria Cirri, Il loro figlio Bartolomeo sopravvisse alla epidemia di peste del 1620. Giovanni, figlio di Bartolomeo sposa Margareta Filippi di S. Giusto Piazzanese. La famiglia nel 1683 è presente a Galciana e dal 1700 a S. Maria in Capezzana. Giovanni probabilmente non era contadino avendo affittato “una casa con villa” come riportato dallo stato delle anime del 1698. Intorno al 1700 i Bettazzi del contado furono ammessi alla cittadinanza Pratese e quindi potevano aspirare a cariche pubbliche. Luigi, figlio di Giovanni si trasferì, intorno al 1720 in S. Giusto in Piazzanese. Pellegrino di Luigi, forse al seguito di qualche nobile, si trasferì a Siena tra il 1740 ed il 1760.
Periodo senese dalla prima metà del 1700 al 1850
Pellegrino è il primo Bettazzi che sicuramente è vissuto in Siena dal 1764 come attesta la registrazione del battesimo della figlia M. Francesca. Lo stesso documento riporta la cittadinanza Pratese di Pellegrino permettendomi di risalire al periodo pratese. Pellegrino aveva un congiunto, probabilmente coetaneo, di nome Bernardo che rinchiuse Teresa, figlia naturale, nel convento della Madonna in Siena facendole prendere i voti religiosi. Nel 1767 la professione dichiarata di Pellegrino era servitore e cuoco ma successivamente diventa carajolo (fabbricante di carri). La moglie, Giovanna Masi è indicata come incannatrice di seta e filatrice a rocca. La prima residenza senese fu nella pieve di S. Giovanni Battista, successivamente in S. Martino. Nel 1790 scoppia la Rivoluzione Francese ed in seguito le guerre napoleoniche. In questo periodo la famiglia doveva aver raggiunto uno stato di benessere poiché nei primi anni del 1800 acquistò una casa in Via Costa dell’Abbadia. Giovanni di Pellegrino segue la professione del padre, sposa Maria Annunziata Baldesi di professione calzettaia. La famiglia Baldesi doveva appartenere all’alta borghesia senese poichè i nobili Orazio e Ferdinando Ballati Nerli, Flavio Chigi e Ansano Zondadari furono padrini di battesimo del padre e degli zii. Pirro, ultimo nato della coppia, prosegue la professione di carrozzaio, sposa Caterina Bruni, tessitrice di panni.
Da Siena a Livorno
Giovanni figlio di Pirro, Inizia a fare il carajolo, poi entra nelle Ferrovie come manovale successivamente manutentore ed infine impiegato e pensionato. Si sposa, con la senese Adele Vannini di professione tessitrice. Probabilmente per lavoro a Livorno, tra il 1886 ed il 1888, Giovanni si innamora ed è ricambiato dalla livornese Maria Luisa Berzolese (Versolesi). Maria Luisa aveva sposato, in gioventù, Egisto di professione vetturino. Le cose non dovevano andare bene se Egisto emigrò in Francia dal 1885 al 1887.
Da Livorno a Roma e la nascita dei Vessi
Nel 1888 Giovanni e Maria Luisa sono a Roma. Nel 1889 nasce Guido, che non possono riconoscere essendo conviventi, per cui gli impongono il cognome di Vessi e lo adottano. Nel 1892, sempre a Roma hanno un altro figlio Armando. Nel 1893 viene inaugurata la stazione ferroviaria di Bagni di Lucca dove Giovanni si trasferirà con la nuova famiglia e presterà servizio per diversi anni (foto 2). A Livorno Egisto ha una compagna da cui nasce una figlia. Volendo emigrare, con la compagna e la figlia, deve riconoscerla. I rapporti tra i Maria Luisa ed Egisto devono essere stati civili poiché Maria Luisa riconosce come sua la figlia di Egisto e gliela affida. Nel 1894 Egisto è in Brasile, alle immigrazione dichiarò di essere celibe ma muore pochi anni dopo. Essendo celibe non viene comunicata la morte al Consolato italiano per cui Maria Luisa non seppe mai di essere diventata vedova. Nel 1906 la famiglia è a Roma dove Guido fa il servizio di leva. Richiamato nella guerra 1915-1918 lavora nelle retrovie nel genio automobilistico. Nel 1909 Guido sposa Marianna Di Pietropoaolo che muore nel 1913. Poco prima della fine della I guerra mondiale Guido sposa Zaira de Dominicis. Nei primi anni ‘20 Guido apre una officina di riparazione di motori diesel. Successivamente amplia la propria attività in altri settori. Guido e Zaira non avendo figli si prendono cura di Lidia, nipote di Zaira, rimasta orfana. Lidia avrà un figlio Guido che gestirà un chiosco di fiori sul lungotevere, verrà assassinato ed il corpo gettato nel Tevere. Ignoti gli esecutori ed il movente. Nel 1943 Guido Vessi si innamora, e poi sposerà la fidentina Bice Mambriani che abitava nella “porta accanto”. Guido e Bice sono i miei genitori.
Ringraziamenti
Gli archivi online del Portale Antenati del Ministro cultura
Elena Bertelli, Ezio Papa – Stato Civile Comune di Livorno
Don Aldo Lettieri, Daniela Liberatori – Archivio arcivescovile di Siena
Orlando Papei – Il palio.org
Filippo Pozzi – Stato civile Comune di Siena
Claudio Bartalozzi – Archivio storico comune di Siena
Virginia Barni – Archivio di Stato di Prato
Monica Cecchi – Archivio vescovile di Prato
Don Claudio Ticconi – Parrocchia S Matteo in Nave di Lucca
Carlotta Lenzi – Archivio Vescovile di Pistoia
Tante foto in bianco e nero, un cognome non comunissimo nella mia area di residenza e un programma scolastico del 1872-73 del mio trisavolo alimentarono la mia curiosità nello scoprire quali fossero le origini della mia famiglia. Cominciai dai registri dell’archivio comunale di San Vittore del Lazio (FR), paese d’origine di mio nonno. Il mio bisnonno Vittore nato nel 1883 a San Vittore del Lazio, dopo aver prestato servizio nella prima guerra mondiale ed essersi sposato con Giuseppina Coia di Cerasuolo, emigrò in Scozia dove aprì una serie di locali ancora oggi esistenti tra Glasgow e Millport, per poi tornare in Italia con mio nonno e i fratelli (tutti nati in Scozia) nel ’43, nel corso della guerra.
Suo padre (mio trisavolo) Bernardo Bonaventura, nato sempre a San Vittore del Lazio nel 1846, era un insegnante di scuola elementare di cui conservo ancora il succitato programma scolastico del 1872-73; si sposò molto tardi, a 45 anni, con Giuseppa Giampaoli, sanvittorese nata da Domenico Antonio Giampaoli (della cui provenienza non sono riuscito a trovare ulteriori notizie) e Carolina Verona (famiglia attestata a San Vittore dal XVIII secolo e con una serie di membri esercitanti la professione di “dottori fisici”, tra cui in ordine Tommaso Verona nato nel 1837, il padre Giovan Angelo nel 1827 e il nonno Luca).
Il mio quadrisavolo si chiamava Vittore e nacque nel 1809, sposando nel 1829 Laura Saroli sempre di San Vittore. Dai processetti matrimoniali presenti sul portale Antenati ho potuto constatare la sua professione: possidente terriero. Ciò si incrocia con quanto tramandato dalle storie di famiglia, secondo cui Vittore avrebbe rifornito le scuderie del Re Ferdinando II di cavalli.
Dai registri battesimali di San Vittore del Lazio emergeva poi il nome del padre di Vittore, Francesco Bonaventura, nato nel 1785 e sposato con Lucia Ferraro, di una famiglia napoletana. Il padre di Francesco era un notaio e, a ben vedere, fu il primo a nascere a San Vittore del Lazio. Difatti dai registri di battesimo, Andrea Vittore Bonaventura, nato nel 1761, si dice figlio di Romualdo Bonaventura da Gaeta (LT). Andrea Vittore, rispetto quanto emerso poi dai processetti matrimoniali presenti sul portale Antenati, sposò Maria Giuseppa Vittiglio di Cassino (al tempo ancora nominata San Germano), città dove si trasferì con il fratello Benedetto “pittore” ed esercitò la professione di notaio. Sempre dai processetti di Antenati è emersa recentemente anche la data della sua morte: 11 settembre 1801, sepolto nel cimitero di Sant’Antonio da Padova a Cassino.
Del padre Romoaldo ancora poche informazioni sono emerse: nei processetti matrimoniali di Antenati era allegato il suo atto di morte del 14 agosto 1787 nella chiesa dell’Annunziata di Cassino. Qui viene ripetuta e confermata la sua provenienza gaetana e l’approssimativa età di morte, 55 anni; pertanto la nascita di Romoaldo andrà posta intorno al 1732. Sappiamo ancora poco sulla sua professione e sulle motivazioni che lo spinsero a spostarsi nel Basso Lazio, sebbene indizi possano derivare dalla qualifica di “Magnificus” ripetuta in tutti i documenti che lo riguardano. Spero di poter proseguire e approfondire la ricerca presso gli archivi gaetani per ottenere ulteriori risposte.
Ringrazio il portale Antenati per avermi dato la possibilità di precisare la mia ricerca e condividere la storia dei dei miei studi, nella speranza che possa risultare proficuo e di incoraggiamento per altri che vogliano ripetere lo stesso percorso.
Fino ad oggi sapevo ben poco sull’esperienza di mio nonno Antonio durante la Seconda Guerra Mondiale. La curiosità di saperne di più sulla sua storia l’ho sempre avuta, ma soltanto adesso che sono vicino ai 40 anni ho sentito il bisogno di mettermi sulle sue tracce per saperne qualcosa di più.
Grazie al foglio matricolare inviatomi dall’ex archivio militare di Napoli, posso leggere i fatti realmente accaduti sulla sua vita militare. Nonno Antonio, classe 1916, nasce a Soccavo, in Via Contieri n. 11, questa è la casa dove cresce con i suoi genitori, papà Giovanni, mamma Anna, ed il fratello Vincenzo e la sorella Maria. Nonno Antonio sposa nonna Lucia e da coniugato si trasferisce prima in affitto in Via Paolo Grimaldi e poi definitivamente con tutta la famiglia nella casa da lui costruita in Via Verdolino. Il 09 Aprile 1940 viene incorporato al 48° Reggimento Fanteria “Bari” che raggiungerà sempre nella città pugliese il 07 Maggio 1940 per poi diventare la 47° Divisione Bari. Dopo un periodo di addestramento s’imbarca per l’Albania il 28 Ottobre 1940 dal porto di Taranto ed il 02 Novembre 1940 sbarca a Valona in Albania.
Uno dei più sanguinosi sacrifici dell’esercito italiano nel corso della Seconda Guerra Mondiale si compie proprio in Albania, sulla quota 731 di Monastero, si trova a circa 20 chilometri a nord di Kleisoura. La quota 731 dopo una furiosa lotta viene conquistata dall’Italia, ma la reazione nemica si manifesta in modo talmente violenta che risulta impossibile mantenerla e deve essere abbandonata, soprattutto a causa del quasi totale annientamento degli occupanti italiani: nonno Antonio fu ferito gravemente ad un occhio da una scheggia di una bomba o granata il 13 Marzo 1940 sul fronte greco. Fu subito portato all’ospedale da campo di Berati, città che si trova lungo il confine in Albania. All’ospedale ci rimase circa un mese fino a quando non fu imbarcato dal porto di Valona per far rientro in Italia a Taranto con la nave ospedale Gradisca.
La lesione non lasciava nessuna forma di garanzia per la sua salute, il 31 Agosto 1941 il comando militare lo colloca in congedo assoluto e gli assegna la 7° Categoria di invalidità (alterazione organica ed irreparabile di un occhio, che ne riduce l’acutezza visiva fra 1/50 e 3/50 della normale).
Nonno finalmente non lascerà più la sua casa in Via Verdolino a Soccavo, e dal matrimonio con la sua Lucia sono nati otto meravigliosi figli: Giovanni, Vincenzo, Anna, Mario, Ciro, Assunta, Luigi ed infine mia mamma Pasqualina.
L’incontro con Zio Vincenzo
Durante la mia attività di ricerca vengo a scoprire che il fratello di mio nonno Antonio, Zio Vincenzo, più piccolo di 8 anni è ancora in vita!
Per me tale notizia è una bomba, in quanto solo immaginare di vederlo mi sembrava quasi poter pensare di parlare con mio nonno.
Ho dovuto attendere molto, c’è stata la pandemia legata al Covid, ma alla fine ce l’ho fatta, il giorno 6 novembre del 2021 sono riuscito a incontrare Zio Vincenzo.
Grazie all’aiuto di mia Zia Anna, che mi ha fatto da gancio, un sabato mattina piovoso sono sceso a Napoli e ci siamo recati a casa del fratello di mio Nonno Antonio: l’incontro è stato breve ma ha superato ogni aspettativa.
Zio Vincenzo è una persona fantastica, a 97 anni è quasi completamente autonomo, si aiuta con un bastone per camminare, si prepara da mangiare da solo, ultimamente esce un po’ di meno per ovvi motivi ma parlare con lui è stata un’esperienza magnifica perché ho avuto il piacere di apprezzare la sua memoria di ferro.
Zio Vincenzo, mi accenna che durante la Seconda Guerra Mondiale, ha prestato servizio a Roma a Castel Gandolfo in una fureria militare, mi racconta nel dettaglio un bombardamento improvviso avvenuto una mattina da parte dell’aviazione tedesca per colpire il sito militare italiano dei castelli.
Di nonno Antonio mi dice solo che era un bravo fratello, un buono e che fu ferito gravemente in guerra portandone i segni per il resto della sua vita.
Poi i racconti si spostano all’improvviso sul loro papà, il mio bisnonno Giovanni, mi fa vedere una sua foto e le medaglie, mi racconta che anche lui è stato un sopravvissuto della “Grande Guerra”, la Prima Guerra Mondiale. Mi disse che il mio Bisnonno, in quel dramma visse diverse sventure, su tutte, l’assenza di cibo e acqua, ma in particolare si trovò anche nella tragica decisione in cui ci si imbatteva per sopravvivere e cioè nel dover sparare a un soldato nemico pur consapevole che sotto quella divisa c’era un uomo come te.
Mi racconta inoltre che lui porta il nome Vincenzo, in onore del fratello del padre Giovanni, che da eroe perse la vita in combattimento e fu addirittura premiato al valor militare. La famiglia era orgogliosa di questo figlio caduto in guerra, purtroppo Zio Vincenzo mi disse che di questa vicenda sapeva ben poco e gli avrebbe fatto piacere conoscere la vera storia.
Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto e che mi sarei messo subito alla ricerca di informazioni su questo “Vincenzo” per regalargli più dettagli possibili.
Dopo mille ricerche, telefonate, e-mail, a distanza di mesi, ricevo con mia immensa gioia le informazioni che cercavo sul mio antenato direttamente dal Ministero della Difesa:
“Minopoli Vincenzo, di Antonio, nato a Soccavo (NA), il 4 gennaio 1886 – Soldato effettivo del 133° Reggimento Fanteria – è deceduto il 2 luglio 1916, a seguito di ferite riportate in combattimento, nell’Ospedaletto da campo 110… Ii Soldato Vincenzo MINOPOLI risulta sepolto nel loculo n. 7884 dello stesso Sacrario Militare di ASIAGO con i dati anagrafici errati (cognome “Minaggi” anziché “MINOPOLI”). Per quanto precede, questo Commissariato Generale ha dato mandato alla Direzione del Sacrario Militare di Asiago di provvedere alla correzione del dato anagrafico errato, nei tempi imposti dal relativo iter amministrativo.”
Inoltre, cercando in altri archivi ho trovato le motivazioni per cui gli è stata riconosciuta la medaglia al valore.
Pazzesco! Sono riuscito a conoscere, la sua data di nascita, la battaglia ove eroicamente perse la vita, il cimitero ove tutt’oggi è sepolto e soprattutto a seguito della mia segnalazione verrà rettificata la lapide con il suo cognome corretto, Minopoli.
Il tutto iniziato da una chiacchierata con Zio Vincenzo e dal suo forte desiderio di avvicinarsi anche lui alla sua storia e origini.
Purtroppo, non ho fatto in tempo a tornare con queste meravigliose informazioni da Zio Vincenzo, per aggiornarlo su chi era questo suo Zio eroico da cui ha ereditato il nome. Con enorme dolore egli ci ha lasciati nel mese di Febbraio 2022.
Quell’incontro rimarrà per me un momento magnifico di congiunzione diretta con le mie radici e con la storia della mia famiglia.