Egle Renata Romana Trincanato nacque a Roma il 3 giugno 1910.
Ebbe un’infanzia segnata dai frequenti trasferimenti a seguito del lavoro del padre, Alessandro Ernesto, che era un commerciante originario di Piove di Sacco (PD); la madre, Alice Antonietta Formenti, invece, era una modista.
Solo nel 1926, i Trincanato si trasferirono definitivamente a Venezia; dove, dopo il diploma di maturità artistica, Egle si iscrisse al Regio Istituto Superiore di Architettura. Fu durante il percorso universitario che conobbe Guido Cirilli, suo primo maestro, e l’architetto palermitano Giuseppe Samonà, cui fu legata da un profondo sodalizio professionale e affettivo e con il quale, negli anni successivi, collaborerà a numerosi progetti, come l’edificio INA-Casa di Treviso (1949-1953), i nuovi uffici dell’INAIL a Venezia (1951-1956) e l’ideazione sperimentale del quartiere INA-Casa San Giuliano a Mestre.
Nel 1938, fu la prima donna a conseguire la laurea in Architettura presso l’ateneo veneziano, ottenendo il massimo dei voti. Cominciò subito a esercitare la professione, mantenendo attivo anche l’insegnamento nei licei. Sin dall’inizio, i suoi interessi furono orientati verso l’urbanistica veneziana, con uno sguardo al passato e un occhio rivolto al moderno.
La sua tempra è ben palesata da un episodio del 1947, quando, in occasione di un bando del comune per la qualifica di Capo Ripartizione della Divisione tecnico-artistica, che escludeva la partecipazione delle donne, Trincanato fece ricorso, ottenendo la modifica del bando.
Le sue pubblicazioni e il suo coinvolgimento in numerosi progetti del comune di Venezia contribuirono in modo significativo all’apprezzamento del suo valore professionale: nel decennio 1954-64, infatti, ricoprì il prestigioso incarico di direttrice di Palazzo Ducale, che lasciò solo quando vinse il concorso per la cattedra di Elementi di architettura e rilievo dei monumenti presso il Politecnico di Torino. Si occupò, inoltre, di numerosi restauri e curò l’allestimento di molteplici mostre pittoriche.
Nel 1974, divenne vice direttrice dello IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia), mentre l’anno successivo fu nominata direttrice dell’Istituto di Rilievo e Restauro, dipartimento da lei ideato, voluto e fondato.
Continuò a ricoprire numerosi incarichi e ricevere premi – tra cui la medaglia d’oro ai Benemeriti della Scienza e della Cultura da parte del Presidente della Repubblica (1997) – lavorando instancabilmente ai suoi progetti e ai suoi scritti fino agli ultimi anni della sua vita.
Morì a Mestre il 5 marzo 1998.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1910
Carlo Rosselli nacque a Roma il 16 novembre 1899, da Giuseppe Emanuele “Joe”, musicista, e Amelia Pincherle, scrittrice teatrale e attivista antifascista, nonché zia paterna del noto scrittore Alberto Moravia.
Appartenente a una delle più abbienti famiglie ebree di Roma, ancora bambino si trasferì a Firenze assieme alla madre, a seguito del divorzio dei genitori.
Nonostante l’iniziale ritrosia nei confronti della scuola, durante la Prima guerra mondiale diede avvio, assieme al fratello Nello, alla rivista Noi giovani, ispirata alle idee liberali e mazziniane.
Questa prima esperienza giornalistica fu l’occasione per lasciar emergere le sue principali inclinazioni: da un lato, lo spiccato interesse verso le questioni internazionali e, dall’altro, la sua solidarietà verso i ceti più popolari, così lontani dal suo status di nascita, verso cui per lungo tempo provò un senso di disagio. Non è un caso che anche la sua tesi di laurea – elaborata sotto la supervisione di Gaetano Salvemini – avesse come oggetto il sindacalismo, tra impegno attivo e coscienza civica.
Alla momento della salita al potere di Mussolini, Rosselli si trasferì a Torino, dove si avvicinò agli ambienti del socialismo liberale, conoscendo personalità del calibro di Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei, assieme ai quali partecipò attivamente al dibattito politico, approfondendo e scrivendo ampiamente attorno ai temi del liberalismo e dell’importanza dell’azione politica.
A seguito dell’omicidio Matteotti (1924), che segnò profondamente la sua vita, divenne membro del gruppo dirigente del Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) e, assieme ad altri, si occupò dell’espatrio di alcuni leader socialisti: nel dicembre 1926, infatti, mise in salvo Filippo Turati; gesto che gli costò l’arrestato e cinque anni di confino a Lipari.
Riuscì, tuttavia, a fuggire e raggiungere la Francia, dove, assieme a un gruppo di altri italiani espatriati costituì, nel 1929, il movimento Giustizia e libertà (GL), che raccoglieva socialisti, repubblicani ed esponenti sindacali.
Da lì, si trasferì in Spagna, sposando la causa repubblicana e partecipando attivamente alla guerra civile (1936-1939), a capo di un commilitone che prese il nome di Colonna Italiana. Rimasto ferito durante uno scontro con gli anarchici, Rosselli lasciò il comando della Colonna, decidendo di fare ritornò a Parigi all’inizio del 1937.
Morì assassinato, assieme al fratello Nello, il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, in bassa Normandia, in un agguato organizzato dai servizi italiani.
I funerali dei fratelli Rosselli, si svolsero a Parigi il 19 giugno di quello stesso anno, dando luogo a una grande manifestazione antifascista senza distinzione di classe.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1899
Per approfondimenti sulla figura di Carlo Rosselli, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Mauro Moretti.
Mi chiamo Maria Cecilia Biagi, anche se per tutti sono sempre stata semplicemente Cecilia. Sono una farmacista e un po’ per caso sono venuta a conoscenza di un laboratorio di genealogia organizzato dall’Archivio di Stato di Prato a cui ho deciso di iscrivermi per ripercorrere la storia della mia famiglia.
Oggi sentiamo spesso parlare di cervelli in fuga e abbiamo gli occhi pieni di immagini terribili di barconi stracolmi di migranti, ma l’uomo è stato da sempre in cerca di un mondo migliore dove potersi affermare o se non altro alla ricerca di quel minimo di sostentamento che possa garantire una vita dignitosa.
Ho sempre sentito parlare, nei racconti che sono stati tramandati nella mia famiglia, della lunga emigrazione dei miei nonni e del mio babbo in Corsica. La storia di questa migrazione si lega a un oggetto, un “prezioso cimelio” da sempre conservato nel salotto di casa nostra.
Si tratta di un vassoio che sulla superficie aveva un dipinto raffigurante Calvi, un piccolo comune situato nella parte nord-ovest della Corsica e che mia nonna era solita indicarmi perché lì aveva vissuto per molti anni.
I nonni, partirono da Luciana (Vernio) negli anni ’30 del Novecento, e appena arrivati in Corsica, furono ospitati da una nipote che là già viveva ed aveva, insieme al marito, un panificio e una bottega di generi alimentari. I nonni si cimentarono in vari lavoretti e anche mio padre, che era solo un bambino, dava il suo contributo: prima di andare a scuola inforcava la sua bicicletta con un grande paniere di vimini per fare le consegne del pane.
Il nonno lavorava alla costruzione delle strade e la nonna era a servizio in una famiglia di un medico, un certo dottor Crudeli.
Quegli anni furono di grande emancipazione per la famiglia considerando che da un piccolo paesino di montagna come Luciana di Vernio (Prato) si erano spostati in un’isola dove il mar Tirreno li divideva dalla loro patria. Gli occhi della nonna e di mio padre si illuminavano quando rievocando quegli anni trascorsi all’estero. Inoltre tutto ciò permise loro di raggranellare un po’ di risparmi e di comprare, una volta tornati in Italia, la casa in cui io sono nata.
Nella mia ricerca genealogica ho anche scoperto che il babbo della mia nonna, il mio bisnonno Beniamino Moncelli, aveva già percorso quella rotta nel lontano 1899 perché al momento della nascita di sua figlia Cecilia è la levatrice, la signora Olga Pacini, che va a dichiararla all’Ufficio di Stato Civile di Vernio e sull’atto di nascita è riportato che il padre è assente perché si trova in Corsica a lavorare.
Evidentemente la valle del Bisenzio non offriva molte opportunità: la pastorizia e la castanicoltura, attività tipiche del luogo, non erano sufficienti a sfamare la famiglia.
Questo fenomeno di migrazione verso la Corsica ha interessato molte famiglie della Val di Bisenzio e ancora oggi, nei mesi estivi, nel piccolo borgo di Cavarzano, non è raro incrociare macchine con targhe francesi e soprattutto corse.
Stesse scene si possono vedere anche nella vicina frazione di Fossato (Vernio), interessata anch’essa da un’importante emigrazione verso Marsiglia.
Nella mia soffitta custodisco ancora gelosamente il baule che aveva accompagnato i miei nonni durante la traversata per mare: erano lì raccolte le poche cose che possedevano e soprattutto era carico di tante speranze!
In qualche modo la valle del Bisenzio e la Corsica si intrecciano insieme alle storie delle loro genti.
Mi chiamo Maria Cecilia Biagi e ho deciso di ripercorrere la storia della mia famiglia. Di rimettere insieme i racconti di mia mamma e della nonna che purtroppo non ho potuto conoscere
Pochi atti di nascita e un muro di confine divideva i miei nonni materni.
La nonna, Giulia Mengoni, era stata registrata col numero 1606 nel volume dei nati del Comune di Prato; il nonno, Vincenzo Maggini, col numero 1619: nati nello stesso giorno di Santo Stefano del 1884.
Come se non bastasse, le loro case erano anche confinanti, nella zona di Filettole (Prato).
Hanno trascorso l’infanzia insieme e so che il nonno le aveva giurato che l’avrebbe sposata da grande. Certe volte tra bambini si dicono le cose un po’ per gioco, ma loro due invece l’hanno fatto davvero. So che è stato un amore un po’ contrastato da parte della famiglia Maggini perché consideravano la nonna Giulia una “fabbrichina”, una lavoratrice in fabbrica, e quindi non in grado di apportare un aiuto nel lavoro dei campi.
Nonostante ciò, nel 1915 si sposano. Hanno prima due bambine che però muoiono perché il nonno aveva contratto la malaria nel suo trasferimento in Maremma per lavorare come carbonaio. Successivamente hanno altre due bambine a cui danno gli stessi nomi di quelle prematuramente scomparse: Lina, la più grande, e Loretta Dina Maria la minore, che altri non è se non la mia mamma.
Prima della nascita di Loretta tutto filava liscio o almeno come in tutte le famiglie: fra alti e bassi. Dopo il parto però la nonna Giulia si ammala; mi si raccontava che le era stato riscontrato un “doppio vizio mitralico e aortico”. Oggi si direbbe che era affetta da stenosi. Consultando il registro degli infermi nel fondo Ospedale Misericordia e Dolce dell’Archivio di Stato di Prato ho potuto avere conferma di quella che era la sua diagnosi nel 1928.
Passano tre lunghi anni segnati da fame e sofferenze: la nonna è malata e non è in grado di accudire le sue bambine che quindi vengono affidate alle cure degli zii. Il nonno, il loro padre, è preoccupato nel vedere la moglie sempre più sofferente e nel non sapere mai dove siano le bambine, soprattutto la più piccola.
Aveva dovuto affrontare anche il baliatico recandosi a Vaiano, una località della Val di Bisenzio (Prato), in pieno inverno con quel fagottino che reclamava latte a più non posso.
Nonostante tutte le cure e le premure, in una gelida sera di Dicembre, più esattamente il sei del 1928, detto anche l’anno della tormenta, Giulia lo lascia solo con il suo dolore e con due bambine piccole: Lina di sei anni e Loretta di tre. Posso solo immaginare la disperazione di quest’uomo.
Non di poco conto fu anche l’impegno economico che dovette sostenere: donne di servizio, sparizione di corredo, gioielli e quant’altro di commestibile si trovava in casa.
Le medicine al tempo erano tutte a pagamento e il nonno aveva il conto aperto con il Dr. Giuseppe Bottari, titolare della farmacia di Piazza Duomo.
In tutto questo una signora, dama di carità moglie dell’allora direttore generale del Fabbricone, la signora Cardelli, gli propone il lavoro di guardia giurata notturna. Un lavoro di responsabilità, con tanto di porto d’armi ma che garantiva loro il sostentamento. Nel frattempo i fratelli e le cognate gli proponevano le soluzioni più disparate per sistemare le bambine, tra cui quelle di mandarle in qualche istituto, ma lui al pensiero di doversene distaccare optò per un secondo matrimonio, forse più per dar loro una figura femminile che per altro.
La “matrigna”, ma non voglio chiamarla così ma bensì la nonna Rosina è stata una donna amorevole che ha accolto le bambine, Lina e Loretta, come se fossero sue e a quell’epoca trovare un marito con un lavoro stabile e che ti permetteva di non gravare più sulla famiglia d’origine non era cosa da poco.
Vincenzo continuò comunque a prendersi cura delle sue figlie, e tra un impegno e l’altro coltivava la sua grande passione: quella per il giardinaggio e il pezzettino di terra che curava con più amore era la tomba della sua amata Giulia.
Io ho vissuto la sofferenza che ha contraddistinto la vita di Loretta, mia madre: quella mancanza che l’ha accompagnata in tutti i suoi giorni. Non posso fare a meno di ricordare che in punto di morte aveva un gran sorriso e che di sicuro era rivolto al pensiero della sua mamma.
Questo breve scritto lo dedico a lei.
Un suggerimento a chi leggerà queste poche righe: raccontate sempre le storie delle famiglie, tramandatele, perché sono il nostro tessuto, la trama su cui noi poi mettiamo i fili. Per me è stato molto bello ripercorrere a ritroso la storia della mia famiglia; è stato come ricomporre un puzzle, far riaffiorare alla memoria tanti ricordi che credevo sopiti.
Caterina Marianna Percoto nacque a S. Lorenzo di Soleschiano sul Natisone (UD) il 19 febbraio 1812.
Figlia di ricchi proprietari terrieri di nobili origini, fu l’unica bambina dei sette figli di Antonio e Teresa Zaina. Venne avviata agli studi presso l’educandato “S. Chiara”, dove rimase fino all’adolescenza, quando la madre, rimasta vedova, non potendo più sostenere la retta, fu costretta a ritirarla e farle proseguire la formazione scolastica da autodidatta, incaricandola anche dell’educazione dei fratelli minori.
Caterina, che si mostrò precocemente dedita alla scrittura, fece il suo debutto letterario nel 1839, sulla Favilla di Trieste, grazie all’amico e padre spirituale don Pietro Comelli, che aveva segretamente inviato alcuni suoi scritti alla rivista: la sua prosa non di maniera, descrittiva, schietta, patriottica e audace, ebbe un immediato successo.
Nell’agosto 1847, uscì nella milanese Rivista europea, diretta da Carlo Tenca, la novella L’Album della suocera. Questo incontro con Tenca fu per lei cruciale, segnando il suo debutto negli ambienti letterari del nord Italia, dove Percoto – seppur sempre relegata nella campagna friulana – partecipò con intense relazioni epistolari con molti personaggi dell’élite culturale dell’epoca.
Poco più tardi, negli anni Cinquanta, iniziò a scrivere anche in lingua friulana, facendosi custode della tradizione e narrativa popolare: nel 1863 furono, infatti, pubblicati, i due volumi dei Racconti, una raccolta di favole friulane editi da Le Monnier.
Oltre l’attività narrativa, proseguì le sue collaborazioni giornalistiche; tra queste, degna di nota, vi fu senz’altro quella con La Ricamatrice. Giornale di cose utili ed istruttive per le famiglie, un periodico dedicato all’educazione della donna, all’interno del quale scrisse numerosi raccontini di impostazione didattico-pedagogica. Proprio il filone della letteratura didascalica femminile fu quello che precorse maggiormente: Caterina Percoto, infatti, con vivacità e con una sensibilità “moderna”, prese a cuore il tema dell’educazione della donna, a suo a viso troppo spesso impreparata a far fronte alle esigenze della vita – familiare e no – e non di rado con un livello culturale e linguistico eccessivamente basso.
Poco dopo l’annessione delle province venete al Regno di Italia, i suoi lavori e questa sua attenzione alla tematica dell’educazione femminile le valsero anche un riconoscimento ufficiale, con la nomina tra le «donne egregie» individuate dal ministro Cesare Correnti per i loro meriti letterari; a lei, nel 1871, fu inoltre affidato l’incarico di ispettrice straordinaria degli istituti femminili veneti di educazione e di carità, al fine di supervisionarne le condizioni e il livello educativo che vi veniva impartito.
Morì a Udine il 15 agosto 1887.
Puoi consultare l’atto di nascita e l’atto di morte di Caterina Percoto sul Portale Antenati: rispettivamente Archivio di Stato di Udine > Stato civile napoleonico > San Lorenzo di Soleschiano (oggi frazione di Manzano) > 1812 e Archivio di Stato di Udine > Stato civile italiano > Manzano > 1887
Per approfondimenti sulla figura di Caterina Percoto, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Adriana Chemello.
Salvatore Giacomo Tommasi nacque a Roccaraso (AQ) il 26 luglio 1813, da Francesco e Maria Giuseppa Marini.
Ancora ragazzo, aderì agli ideali risorgimentali durante i moti del 1831, motivo per cui venne registrato come sobillatore dalla polizia politica dello Stato pontificio.
Si iscrisse alla facoltà di Medicina, conseguendo la laurea a Napoli, presso l’Università Federico II, nel 1838. Avviata la carriera accademica, nel 1844 diede vita alla rivista Il Sarcone. Giornale di medicina e scienze affini, grazie alla quale introdusse in Italia gli studi e le ricerche più all’avanguardia condotte a livello europeo.
Nel luglio di quello stesso anno, nonostante l’ostinata opposizione dei suoi genitori, si unì in matrimonio con la corregionale Emilia Organtini, la cui famiglia era profondamente malvista dai Tommasi. Durante il suo percorso professionale, Tommasi si appassionò sempre più alla visione filosofica di Georg Hegel: un interesse che lo spinse verso l’attivismo politico e la condivisione delle idee liberali che si stavano diffondevano nel Regno: tuttavia, l’elezione in qualità di deputato al Parlamento – istituito con la Costituzione del 29 gennaio 1848 –, gli costò la rimozione dagli incarichi accademici e la prigione.
Costretto all’esilio, si stabilì a Torino, dove continuò – seppur con fatica – a dedicarsi alla ricerca e alla frequentazione degli ambienti scientifici e culturali, contribuendo anche alla fondazione della “Società delle scienze biologiche”.
Nel settembre 1860, Tommasi giocò un ruolo chiave nelle complesse trattative tra Vittorio Emanuele II e Giuseppe Garibaldi, riguardanti il destino del Regno delle Due Sicilie. Si fece infatti promotore di una petizione da parte delle municipalità abruzzesi che chiedevano l’annessione al nascente Regno d’Italia, aprendo anche la strada verso Napoli all’esercito piemontese. La sua fedeltà alla causa monarchica gli valse la nomina a senatore del Regno d’Italia, nel 1864.
A questo, l’anno seguente, si aggiunse anche la titolarità della cattedra di Clinica medica presso l’università Federico II, grazie alla quale poté attuare la sua idea che la medicina, unita al progresso scientifico e tecnologico, dovesse essere finalizzata – con azioni concrete – al miglioramento delle condizioni di vita. Questa visione pioneristica, che concepiva la scienza come una missione a servizio dell’uomo e della collettività, costituisce il fulcro del suo lascito sociale.
Morì a Napoli il 13 luglio 1888.
Puoi consultare l’atto di nascitadi Salvatore Tommasi sul Portale Antenati: Archivio di Stato dell’Aquila > Stato civile napoleonico > Roccaraso > 1813
Puoi consultare l’atto di nascita di Emilia Organtini sul Portale Antenati: Archivio di Stato dell’Aquila > Stato civile napoleonico > Pettorano sul Gizio > 18/04/1814-16/12/1814
Per approfondimenti sulla figura di Salvatore Tommasi, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Marco Segala.
Palma Bucarelli nacque a Roma il 16 marzo 1910.
Visse un’infanzia piuttosto nomade, a seguito del padre, Giuseppe, che era funzionario alla prefettura di Stato. Alla madre, Ester Loteta Clori, invece, sarà debitrice delle inclinazioni verso l’arte, l’eleganza e la moda, che svilupperà nel corso degli anni.
Laureatasi in Storia dell’arte, superò appena ventitreenne il concorso pubblico per il Ministero dell’educazione nazionale in qualità di ispettore alle Antichità e alle Belle Arti.
Cominciò a lavorare presso la Galleria Borghese (1933-36), per poi essere trasferita per un periodo a Napoli e tornare a Roma, nel 1939, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea in qualità di ispettrice. Dal 1941, ne assunse il ruolo di soprintendente, guidando la Galleria con appassionato impegno, per oltre trent’anni, fino al 1975.
Trascorse il primo periodo lì nel tentativo di mettere in salvo quante più opere possibili dai bombardamenti della guerra in atto. Ma solo una volta terminato il conflitto bellico, inizierà a emergere il suo profilo da dirigente, con i suoi gusti inclini all’astrattismo e all’arte informale. Gli anni ’50 furono, infatti, quelli delle mostre più celebri, da Picasso a Pollock, da Mondrian a Burri, che le varranno un grande successo e consenso, ma al contempo anche numerose disapprovazioni, tanto sul piano culturale quanto su quello dirigenziale.
Tuttavia, con la fierezza e il piglio sicuro che caratterizzarono la sua persona, Bucarelli fece fronte a queste critiche, trasformando gli anni ’60 in quelli del suo successo definitivo: riconosciuta e apprezzata a livello internazionale, questo le darà la spinta per una rinnovata apertura al mondo artistico.
Nel 1972 ricevette, inoltre, la Légion d’Honneur e divenne Accademica di San Luca, mentre nel 1975 fu nominata Grande ufficiale della Repubblica.
Nel corso della sua vita sarà legata sentimentalmente al giornalista Paolo Monelli, per 48 anni, fino alla scomparsa di lui, avvenuta nel 1984.
Il nome di Palma Bucarelli è indissolubilmente legato a quello della Galleria Nazionale, poiché ebbe la capacità di ricoprirne un ruolo dirigenziale con estrema sapienza e intuizione, con la lungimiranza di chi concepiva il museo come un luogo di aggregazione in cui immergersi alla scoperta dell’arte: una visione museale che precorse i tempi e che le viene, ancora oggi, profondamente riconosciuta.
Morì a Roma il 25 luglio 1998.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma > Stato civile italiano > Roma > 1910
Il suo archivio personale fu donato da lei stessa all’Archivio Centrale dello Stato nel 1998, dove è tutt’oggi conservato.
Enzo Ferrari – all’anagrafe Enzo Anselmo Giuseppe Maria Ferrari – nacque a Modena il 20 febbraio 1898.
Figlio di Alfredo, proprietario di un’officina che si occupava di materiali ferroviari, e Adalgisa Bisbini, di nobili origini forlivesi.
Fu grazie al padre, che già agli inizi del ‘900 possedeva diverse automobili, che Enzo si appassionò sin da bambino a questo settore, lasciando precocemente gli studi per lavorare nell’officina di famiglia. Tuttavia, la prematura scomparsa – a pochi mesi di distanza – del genitore e del fratello maggiore, assieme al suo arruolamento nella Prima guerra mondiale, lo costrinsero a rivedere i propri progetti.
Cessata la guerra, guarito da una grave pleurite, trovò lavoro dapprima come collaudatore e poi come pilota automobilistico da corsa, tra Torino e Milano: dal 1919 al 1931, infatti, partecipò a numerose gare, ottenendo spesso ottime posizioni e vittorie. Dopo un lungo sodalizio con l’Alfa Romeo, sia in qualità di pilota sia come consulente commerciale, Enzo Ferrari fondò, nel 1929, la scuderia che portava il suo nome.
Nel 1931, decise di appendere il caschetto al chiodo e di mettere fine alla sua carriera da pilota, poiché l’imminente nascita del figlio Alfredo, soprannominato “Dino” (1932-1956), nato dal matrimonio con Laura Garello, gli richiese un nuovo ruolo anche in ambito professionale.
Nel 1947, fece il suo debutto la prima Ferrari da corsa, inaugurando un nuovo capitolo storico nella produzione automobilistica: non a caso, negli anni successivi, la casa Ferrari fu capace produrre una serie di prestigiosi modelli da competizione e gran turismo, in grado di ottenere – fino a i giorni nostri – risultati eccezionali presso i più prestigiosi campionati mondiali. Merito di questo successo fu anche l’abilità con cui “il Commendatore” sapeva circondarsi e avvalersi di piloti e tecnici di elevatissimo livello, consentendo al suo nome di mantenere una competitività riconosciuta internazionalmente.
Nel 1969, Enzo si ritirò dal suo ruolo a capo dell’azienda, continuando però a influenzarla fino alla sua morte: la sua dedizione alla perfezione tecnica nelle auto da corsa era, infatti, divenuta leggendaria. La sua eredità venne raccolta dal figlio Piero, nato nel 1945, dalla sua longeva relazione con Lina Lardi.
Enzo Ferrari morì a Modena il 14 agosto 1988.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Modena > Stato civile italiano > Modena > 1898
Per approfondimenti sulla figura di Enzo Ferrari, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Franco Amatori.
Il desiderio di approfondire la storia della mia famiglia mi ha accompagnato da quando ero ragazzo, ma per vari motivi sono riuscito solo dopo molti decenni a realizzarlo.
Sapevo che la famiglia Croce era originaria di Pettorano sul Gizio, grazioso paese a pochi chilometri da Sulmona, e dalle tombe dei miei antenati che riposano lì nel piccolo cimitero avevo potuto ricostruire date e parentele. I bisnonni Enrico e Giulia, i loro quattro figli e i due nipoti, mio padre e mia zia, sono tutti sepolti a Pettorano, dove riposano anche altri parenti con lo stesso cognome. Del trisnonno conoscevo il nome, Giuseppe, il fatto che fosse stato un personaggio piuttosto conosciuto nell’ambito della borghesia agraria abruzzese ottocentesca e che aveva sposato due sorelle, Isabella, che morì poco dopo il primo parto, e Agata, figlie di Bartolomeo Ricciardelli di Pescocostanzo, altro nome di spicco tra i proprietari terrieri d’Abruzzo. Un’altra figlia di Bartolomeo, Elisabetta, moglie di Pietrantonio Sipari di Pescasseroli fu la madre di Luisa, che dal matrimonio con Pasquale Croce ebbe nel 1866 Benedetto.
Di questi antenati mi mancavano però i dettagli relativi alla loro vita e alle loro esistenze e quel ritardo di tanti anni nell’intraprendere la mia ricerca mi aveva ormai precluso la possibilità di chiedere i loro ricordi ai diretti testimoni di quell’epoca, ormai scomparsi.
La scoperta del Portale Antenati è stata quindi decisiva per completare il primo passo nella ricostruzione della famiglia nell’Ottocento, permettendomi di colmare alcuni vuoti e di ricostruire legami totalmente sconosciuti con altri paesi prevalentemente abruzzesi, tanto da diventare un’appassionante caccia al tesoro alla ricerca di nuovi rami inesplorati. Attraverso l’esame di tanti registri di stato civile dal 1809 al 1865, disponibili per la maggior parte dei comuni dell’Aquilano oggetto della mia ricerca, sono riuscito a ricostruire un’infinità di tasselli mancanti al quadro iniziale che avevo. Insieme a quelli di Pettorano sono stati essenziali per la ricerca i registri di stato civile di Sulmona (purtroppo sprovvisti di indici che avrebbero reso la ricerca più rapida) e di molti comuni limitrofi. Sono stati consultati anche i registri di molti comuni della provincia di Chieti, in cui spesso si arriva a coprire gli anni fino alla fine dell’800 e in alcuni casi ai primi del ‘900. Oltre alla ricerca dei dati anagrafici e di parentela proveniente dalla consultazione dei registri di nascita, di morte e di matrimonio, è stato fondamentale l’aiuto di documenti settecenteschi conservati nei “Processetti di matrimonio”, che venivano allegati agli atti per consentire la celebrazione.
Successivamente, una volta completata la parte più vicina a noi, l’oggetto della ricerca si è spostato verso il passato. Purtroppo una buona parte dei documenti antichi di Pettorano è andata persa nel tempo, sia i registri parrocchiali fino alla metà dell’Ottocento che i documenti dell’Archivio Comunale sono stati distrutti da incendi e l’unica ampia fonte di informazioni sono gli atti, prevalentemente notarili, conservati presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila.
Anche le fonti bibliografiche sul paese sono scarsissime, ma non mancano alcune trascrizioni di documenti del ‘400 e ‘500 relativi a Pettorano, i cui originali sono in alcuni casi ormai irreperibili. In particolare, mentre un Catasto Onciario del 1447, che elencava i nomi delle famiglie del paese, non faceva alcuna menzione dei Croce, la trascrizione di un Rivelo del 1577 (un censimento dei beni di proprietà ecclesiastica) citava varie volte il nome di Stefano di Croce, proprietario di alcuni beni confinanti ai possedimenti della Chiesa.
Dalla collocazione temporale di quest’uomo, l’unico tra i tanti citati ad avere un cognome a me familiare, è partita la ricerca negli atti notarili conservati presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila, che grazie al prezioso lavoro di chi in quel Archivio lavora e di chi vi compie studi storici, ha permesso di ricostruire l’intera storia.
Stefano di Croce, il mio undicesimo avo, era un piccolo proprietario di terreni e animali a Pettorano. La sua origine non era probabilmente di quel paese, visto che nel Catasto quattrocentesco non vi era traccia della famiglia, ma probabilmente la sua permanenza a Pettorano era di vecchia data, visto che nei documenti non si faceva cenno alla sua provenienza come avveniva generalmente con i forestieri. Il suo cognome, “di Croce” o “de Cruce” era di origine patronimica come molti in Abruzzo, visto che Croce era un nome di battesimo piuttosto diffuso fino a tutto l’Ottocento in queste zone e indicava dunque il capostipite della famiglia. Solo nel ‘700 si cominciò a chiamare la famiglia con il cognome attuale omettendo il “Di” iniziale.
Di Stefano ho trovato molti documenti, che lo qualificava come massaro piuttosto benestante e testimoniano un’intensa attività di compravendita di terre e animali. Nel suo testamento del 1614, un documento perfettamente leggibile e interessantissimo per ricostruire i dettagli della famiglia, si citavano i due figli che vivevano con lui (altri due erano prematuramente scomparsi), un nipote, la nuora, per la quale Stefano lasciava una somma di denaro per l’acquisto di una gonnella. La famiglia, con figli e nipoti, viveva in un’unica casa, ubicata nelle vicinanze del castello di Pettorano, nella zona in cui alcuni dei Croce hanno vissuto fino a tutto l’Ottocento, e possedeva 400 pecore affidate con il testamento ai due figli Nicola e Pietro Antonio.
L’enorme numero di documenti reperiti presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila (oltre 500 quelli esaminati relativi alla famiglia Croce dal ‘500 all’ 800) ha permesso di ricostruire l’intera storia della famiglia, anche grazie a molti testamenti, utilissimi perché contengono spesso molte informazioni personali che invece mancano negli altri tipi di atti notarili.
È stato così possibile accertare che i Croce, divisi in vari rami fin dal Settecento ma sempre profondamente radicati in paese, hanno sempre mantenuto il legame con l’originaria attività derivante dal possesso di armenti e proprietà agricole, ma spesso unendo ad essa l’esercizio di professioni, come dimostra la presenza di vari notai, avvocati, medici e speziali.
Solo nel Novecento i Croce abbandonarono Pettorano, mantenendo come unico legame con quel territorio il bel palazzo ottocentesco con lo stemma della famiglia che accoglie chi arriva in paese e altri più antichi adornati con lo stesso simbolo. Mio nonno Augusto, nato nel 1897 e ultimo di quattro figli, andò a studiare a Napoli e dopo essersi laureato in ingegneria e aver sposato mia nonna Ester, intraprese un’attività lavorativa che lo portò a trasferirsi in varie città del Mezzogiorno. I loro figli, chiamati Enrico e Giulia come i nonni, nacquero in Calabria ma entrambi studiavano all’Università di Napoli. Mio padre Enrico, dopo un matrimonio sfortunato, decise di accettare un trasferimento di lavoro a Perugia, dove io e mio fratello siamo rimasti a vivere.
Altri Croce si trasferirono invece a Roma e nel Lazio durante il secolo scorso, e il piccolo paese, come è successo tante volte nel corso della sua storia, è rimasto muto testimone di una lunga storia.
La completezza della ricerca, arrivata a coprire dodici generazioni, e l’abbondanza di informazioni storiche sulla famiglia e sul territorio, mi hanno spinto alla pubblicazione di quest’articolo affinché i risultati raccolti non venissero coperti dalla polvere del tempo e rimanessero a disposizione di chiunque fosse, oggi o in futuro, interessato a quelle zone.
Tazio Giorgio Nuvolari nacque a Castel d’Ario (MN) il 16 novembre 1892, da Arturo ed Emma Elisa Zorzi, proprietari terrieri.
La scarsa propensione per gli studi venne compensata dall’interesse verso lo sport e la competizione, che ereditò dal padre e dallo zio Giuseppe, entrambi ciclisti di fama nazionale e internazionale. Fu assieme a loro che assistette alla prima gara di automobilismo, appassionandosi immediatamente alla velocità e ai motori.
Dopo due anni dalla leva militare, fu richiamato alle armi durante la Prima guerra mondiale, venendo impiegato come autista di vari mezzi. Congedato nel 1917 per un principio di tubercolosi, non volle affiancare il padre nell’azienda agricola di famiglia, scegliendo invece di occuparsi, assieme allo zio, della vendita di auto e moto.
Proprio per ragioni economiche, iniziò a dedicarsi alle corse, dapprima sulle due ruote, cominciando da subito a collezionare successi e riconoscimenti. Non a caso, la stampa lo definiva “il campionissimo” della moto, riconoscendogli un’audacia e una prontezza alla guida del tutto fuori dal comune.
Lentamente, e con iniziale fatica, si affacciò al mondo delle gare automobilistiche, che preferiva lungamente, fondando – nell’inverno del 1927-28 – la Scuderia Nuvolari, a Mantova. Tuttavia, la svolta decisiva della sua carriera ci fu nel 1930, grazie all’Alfa Romeo. Quello stesso anno, passò poi alla scuderia Ferrari, dove le vittorie non si fecero attendere, rendendolo uno dei personaggi più noti e richiesti anche negli ambienti mondani.
Gli anni tra il 1930 e il 1939 furono il suo periodo d’oro, costellato di vittorie e successi assieme ai marchi tedeschi Mercedes-Benz e Auto Union.
Poi, lentamente, iniziò il declino: l’età ormai avanzata, il dolore legato alla perdita prematura dei suoi due figli, i numerosi infortuni, alcuni fallimenti… corse la sua ultima gara nell’aprile 1950, ma non annunciò mai il ritiro dal mondo sportivo.
Morì a Mantova l’11 agosto 1953.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Mantova > Stato civile italiano sino al 1900 > Castel d’Ario > 1892
L’originale è conservato presso l’Archivio di Stato di Mantova. In questo istituto si trova anche il fondo Tazio Nuvolari, bb. 66 (sec. XX).
Per approfondimenti sulla figura di Giorgio Tazio Nuvolari, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Gianni Cancellieri.