Menotti Vittorio Amedeo Bianchi, in arte Frate Menotti, nacque a Bari il 24 settembre 1863 da Tommaso e Angela de’ Liguori.
Si ritiene che fu il padre a insegnargli l’arte del disegno, che egli praticò realizzando caricature e disegni satirici che traevano ispirazione dagli eventi, i personaggi, le voci e i pettegolezzi della sua città. Pubblicò le prime illustrazioni sul settimanale umoristico barese Fra Melitone, dove – a partire dal 1888 – adottò lo pseudonimo di “Frate Menotti”, dal sapore fortemente anticlericale. A seguire collaborò con Il Figaro (1900-1902) e dal 1902 entrò a far parte della redazione del Don Ferrante fino al 1907. Di particolare rilievo fu anche la sua collaborazione con il quotidiano barese L’Oggi.
Nel frattempo, già a partire dal 1885 aveva trovato impiego presso la Banca Bitontina, dove lavorò sino al 1892, quando fu assunto dalla Camera di commercio di Bari.
Continuò parallelamente la sua attività di disegnatore, soprattutto nei momenti di pausa, trascorsi spesso nei caffè centrali di Bari, luoghi prediletti in cui amava sedersi per ritrarre i suoi concittadini in caricature pungenti e rappresentazioni mordaci, che non di rado si rivelavano aspre critiche alla società del suo tempo.
Tra le altre brevi collaborazioni, si annoverano quelle con il Piccolo giornale d’Italia e la Gazzetta di Puglia, da cui fu presto estromesso, non riuscendo a celare il disprezzo verso il conformismo fascista che iniziava a diffondersi anche tra la borghesia barese.
Negli ultimi anni della sua vita, diradò le pubblicazioni, tuttavia poco prima della sua morte, espresse il desiderio che le sue illustrazioni non andassero perdute e che la sua sua memoria fosse preservata proprio attraverso quei disegni.
La sua richiesta venne accolta da un gruppo di amici, di cui facevano parte l’editore Giovanni Laterza, l’archeologo Michele Gervasio, il vicedirettore dell’allora Biblioteca Consorziale, Francesco Colavecchio, nonché l’amico e poeta Armando Perotti. Questi, dopo aver acquisito gran parte dei suoi lavori, crearono il fondo Menotti Bianchi, una collezione comprendente oltre 800 tra tavole e disegni acquerellati, e ne fecero dono alla Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpe” di Bari, dove è tutt’oggi è conservato, assieme a circa 350 libri a lui appartenuti.
Frate Menotti morì a Bari l’11 settembre 1924
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Bari, Stato civile italiano, Bari, 1863
Una vecchia cappelliera marrone, di quelle antiche, di cartone… da piccola era sempre un piacere aprirla e sfogliare le vecchie foto di mia nonna, che, a quei tempi, mi raccontava di persona “i fatterelli” legati a quelle immagini.
Ora sono pensionata e con piacere le ho riscoperte, cercando di dare un nome, delle date, un luogo… e così si sono rianimate. Con pazienza ho ricostruito le nascite, i matrimoni, le morti… si è aperto un mondo fino ad allora sconosciuto.
Scetáteve, guagliune ‘e malavita
Ca è ‘ntussecosa assaje sta serenata
Io sóngo ‘o ‘nnammurato ‘e Margarita
Ch’è ‘a femmena cchiù bella da ‘Nfrascata
(Libero Bovio, Guapparia)
Orsola Bruno forse non sarà stata “a’femmena cchiù bella da ‘Nfrascata”, ma certamente lo era agli occhi di Antonio De Cesare, che la scelse per sé, e visse a lungo con lei e i loro otto figli in questa strada, intorno al 1806.
I due erano nati all’incirca nel 1780.
In origine, la strada dell’Infrascata era un’ombrosa e impervia salita, fra alberi e arbusti, con un gran traffico di carretti e contadini che portavano derrate alimentari alle case signorili. Nel quartiere Avvocata, questa strada congiungeva il popolare centro storico con il nuovo quartiere del Vomero, dove la nobiltà̀ si era fatta costruire ville e palazzi. Dal 1869, i napoletani identificarono “l’Infrascata” con via Salvator Rosa.
Al tempo di Antonio, probabilmente la strada aveva già̀ perso il suo aspetto “bucolico” e si era ormai riempita di alti palazzi, botteghe, commercianti, bancarelle, con vivace e allegro vociare… Antonio aveva una bottega di calzolaio, dove lavorava insieme ai figli, Vincenzo, Giuseppe e Raffaele. Mentre per le figlie femmine – Irene, Francesca e Maria – aveva avuto progetti diversi: Irene fu la prima a convolare a nozze; l’8 novembre del 1828 sposò un suo coetaneo, Giuseppe Ravallese, un giovane tipografo (“compositore di caratteri”), benestante, da cui ebbe cinque figli.
Mentre nel 1838, Francesca sposò Costanzo Mellino, gioielliere, figlio di una Gusumpaur, antica famiglia di orafi e mercanti in pietre preziose. Lo sposo aveva 40 anni e la sposa 26, e andarono ad abitare a Largo Materdei, casa dei Mellino.
Tuttavia, la famiglia De Cesare poté gioire per poco, poiché qualche anno più tardi, nel 1844, morì Giuseppe Ravallese, lasciando la moglie Irene De Cesare, incinta, con quattro figli piccoli. Due di questi, Nunzia e Carolina, moriranno poco dopo.
Nel 1851, infine, si sposò Maria, a 33 anni, con un calzolaio, Gennaro Saggiomo. Anche loro, purtroppo, persero presto uno dei loro gemelli, Vincenzo.
Degli altri figli di Antonio De Cesare, Giuseppe si sposò nel 1855, ormai quarantottenne, con Luigia Ambrosio, che però morì quattro anni dopo. Si risposò, così, a 53 anni con la vedova Angela Martone, che abitava nel Fondaco Santa Monica, al Cavone, una zona sovraffollata già a quei tempi, oggi corrispondente a via Francesco Saverio Correra – dove, al civico 22, nel 1861 era nato il generale Armando Diaz.
Nel 1853, a 32 anni, il mio avo Raffaele De Cesare sposò Carmela Santangelo, di diversi anni più giovane, che gli darà sette figli. Di questi, Luigi ed Anna moriranno rispettivamente nel 1861 e 1863. Ma l’evento più drammatico accadde nel 1864, quando la giovane moglie Carmela morì a 34 anni, dopo aver vagato da un ospedale all’altro, lasciando il marito con sei figli piccoli: Antonio, Gennaro, Luigi, Anna, Mariano e Concetta.
A quel punto, Raffaele decise di lasciare l’attività del padre per seguire quella di orafo del cognato Mellino, marito della sorella Francesca, che fortunatamente si rivelò redditizia. La bottega venne aperta prima nel Borgo Orefici, ma dopo il Risanamento fu trasferita in una traversa di via Toledo.
Nella strada dell’Infrascata c’era una bottega di barbiere, appartenente alla famiglia De Pascale. Fu gestita prima dal vecchio Vincenzo, poi ereditata dai figli Ferdinando e Raffaele, che arrotondavano facendo i “salassatori”.
Ferdinando De Pascale e Michela, vicini di casa e di bottega di Antonio, avevano sei figli. Tre maschi (Vincenzo, Francesco e Pasquale) e tre femmine (Teresa, Maria e Giuseppa).
Dopo pochi mesi dalla nascita dell’ultima rampolla Giuseppa, Ferdinando morì (a causa dell’epidemia di colera del 1854) a soli 43 anni, lasciando la vedova Michela a doversi occupare della numerosa prole. Così entrò in gioco la famiglia De Cesare…
Napule è mille paure,
Napule è a voce de’ criature ,
che saglie chianu chianu,e tu sai ca’ non si sulo…
(Pino Daniele, Naplule è)
Il nostro incisore-argentiere Raffaele De Cesare, anch’egli rimasto vedovo con cinque figli, sposò l’orfana Teresa De Pascale, che si fece carico dei suoi piccoli, dando allo sposo altri cinque pargoli: Giuseppe, Giovanni, Francesco, Assunta ed Eduardo.
La vedova De Pascale riuscirà̀ anche a portare all’altare altre due figlie: Giuseppa e Maria.
Nel 1877, la prima sposò Gennaro De Cesare, figlio di primo letto di Raffaele. Gennaro faceva il barbiere, ma preferì imbarcarsi da Napoli sulla Tartar Prince il 1° febbraio 1899 con l’amata Giuseppa De Pascale ed i suoi sette figli per cercare fortuna a New York. Maria invece sposò il vedovo Gianbattista Terzini, calzolaio a Borgo Orefici.
Gli altri fratelli, Giuseppe, Giovanni, Francesco, Assunta ed Eduardo prenderanno altre strade: Giovanni partirà per il Belgio, dove, oltre a svolgere la sua attività di “orafo incisore”, sposerà nel 1898 Jeanne Marie Louise Fontaine, dalla quale avrà almeno sei figli. All’inizio del 1900, però, ritornerà nell’amata Napoli.
La saga di questa grande famiglia continua, fra nomi che si ripetono e legami matrimoniali fra parenti.
ll giovane Giuseppe De Cesare, figlio di secondo letto di Raffaele, che aveva intrapreso con passione l’attività del padre nell’oreficeria, si innamora e sposa la prima figlia di Gianbattista Terzini (il vedovo che aveva sposato Maria De Pascale): sua cugina Carolina, detta Carlotta. Donna simpatica, socievole e concreta, ottima cuoca, ma che non riuscì a dare a Giuseppe tutti i figli che avrebbe voluto… fermandosi alla dolcissima Ester, che dal padre eredita lo spirito artistico, diplomandosi al conservatorio come pianista.
Francesco De Cesare sposò Concetta, restando nel suo quartiere con i suoi due figli maschi: Raffaele e Giuseppe. Assunta non si sposò. Eduardo sposò Gilda.
Da questo momento, la ricostruzione storica si fa personale e nostalgica, legata a racconti e ricordi personali, ma purtroppo meno precisa per mancanza di documenti utilizzabili per via della privacy.
La memoria riporta alla mente affettuose immagini: il grande appartamento a Santa Maria Ognibene, dove ad ogni angolo trovava posto un anziano parente, dove profumi di manicaretti prelibati si alternavano all’odore acre dei colori ad olio usati da zio Peppino per i suoi quadri ottocenteschi.
Intanto la vita riserva ad Ester altri progetti: non farà mai la concertista, ma sarà moglie affettuosa e madre premurosa. Incontrerà Mario Albore e lo sposerà nel 1920 all’età di 29 anni (quando lui ne aveva 23). Andranno ad abitare insieme ai genitori di lei, Giuseppe e Carolina, nella zona della Stazione Centrale.
Dalla loro unione, nasceranno 4 figli: Maria, Adriana, Italo e Amerigo.
Italo era… il mio papà.
Emma Buzzacchi, meglio nota come Mimì, nacque a Medole (MN) il 28 agosto 1903, da Lorenzo e Pia Folegatti, appartenenti alla borghesia agraria mantovana.
Sin dalla giovane età, grazie alle colte influenze della sua famiglia e agli insegnamenti di Edgardo Rossaro, suo primo maestro di disegno, sviluppò una precoce passione per le arti, in particolare per la pittura e l’incisione.
Durante l’adolescenza, si trasferì a Ferrara assieme alla famiglia, dove venne profondamente influenzata dall’ambiente artistico locale e si avvicinò ai principi del movimento Novecento. Questo percorso la portò, poco più che ventenne, a realizzare le sue prime mostre personali, fino a essere invitata, nel 1928, a esporre alla Biennale di Venezia, manifestazione a cui partecipò ininterrottamente fino al 1950.
Nel 1929 si unì in matrimonio con Nello Quilici, giornalista e direttore del Corriere Padano, con cui collaborò attivamente divenendo la coordinatrice della Terza pagina. Dalla loro unione nacquero due figli, Folco, poi divenuto regista, e Vieri, noto architetto. Tuttavia, il matrimonio fu tragicamente interrotto dalla morte di Nello durante l’incidente aereo del 28 giugno 1940 a Tobruk, in cui perse la vita anche Italo Balbo, che era alla guida del velivolo, e per il quale Quilici stava svolgendo le funzioni di ufficio stampa in Libia.
Rimasta vedova, Mimì si trasferì Roma.
Lì, la sua vita artistica ricevette un nuovo impulso: prese a dedicarsi ancora più intensamente alla raffigurazione paesaggistica, costiera in special modo, evolvendo in una pittura più espressiva e tormentata, grazie all’uso sapiente e dialogico di luci e colore, che creavano risultati di grande suggestione. Il suo referente in pittura rimase Cézanne, ma riletto attraverso Morandi.
Solo a partire dal 1958 le sue esecuzioni pittoriche presero a placarsi, in concomitanza con il ritorno e i frequenti viaggi alle Valli di Comacchio, dove iniziò cicli pittorici e opere poi confluite in mostre ed esposizioni tra Roma e il nord Italia.
Per tutto il trentennio successivo lavorò senza sosta, ottenendo premi e riconoscimenti internazionali.
Morì a Roma il 16 giugno 1990.
Tra i lavori più noti, si ricordano: il ritratto del nonno Giovanni Buzzacchi “Il nonno garibaldino” (1961), l’affresco “La glorificazione delle sante Felicita e Perpetua” (1940) presso il villaggio Corradini in Libia, le mostre “Le Valli di Comacchio (Ferrara, 1960), “Quadri del Tevere” (Roma, 1976), “Mediterraneo, luce e spazio” (Roma, 1979) a cui si aggiungono la curatela di numerose copertine di libri e riviste e le pregevoli opere incisorie, e in particolare xilografiche, cui lavorò con costanza fin dagli esordi.
Molte delle sue opere sono oggi conservate nella collezione permanente presso la “Civica Raccolta d’Arte Moderna e Contemporanea” di Medole, ospitata nella sede di Palazzo Ceni.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Mantova, Stato civile italiano (registri del Tribunale di Mantova) dal 1901, Medole, 1903
Da notare a margine dell’atto la nota di cancelleria che segna l’avvenuto matrimonio con Nello Quilici, il 2 febbraio 1929 a Ferrara.
Non possiedo fotografie dei miei trisavoli da parte della nonna materna, mentre ne ho viste molte dei parenti della famiglia del nonno. Nella mente sono presenti solo i ricordi delle storie che mia nonna Lina riferiva sui propri nonni, che peraltro lei stessa non aveva conosciuto.
Poiché, tutti i parenti di mia nonna sono comunque di origine modenese, questo mi ha spinta e cercare altre informazioni e a consultare il sito dell’Archivio di Stato di Modena. Ho così appreso dell’esistenza del Portale Antenati e ho iniziato la ricerca.
Una parte delle date che volevo recuperare si collocavano esattamente negli anni dei registri consultabili on line sul Portale. Sono partita dai dati in mio possesso e devo ammettere di avere avuto molta fortuna. La bisnonna Pia Lusvardi, madre di mia nonna Lina, era nata nel 1880 da genitori un po’ avanti negli anni per la mentalità dell’epoca, ma non conoscevo nemmeno la data esatta di nascita, che ho ritrovato sfogliando il registro digitalizzato. Ho quindi provato a immaginare che Rosa e Zeffirino, questi sono i nomi dei miei trisavoli, si fossero sposati l’anno precedente, quindi ho consultato il Registro dei Matrimoni del 1879 e in data 15 novembre ho in effetti trovato i dati relativi alla registrazione del matrimonio di Rosa Gavioli e Zeffirino Lusvardi. La consultazione degli Indici relativi ai registri ha velocizzato la ricerca.
L’atto di matrimonio fornisce diverse informazioni sui genitori degli sposi e sugli sposi stessi. Così, incrociando i dati dell’atto di matrimonio con gli allegati necessari per le pubblicazioni ho recuperato una serie di informazioni interessanti: lo sposo, Zeffirino era nato l’11 settembre 1841 a Modena e qui si manteneva svolgendo l’attività di cocchiere. Il padre, Natale Lusvardi, viene definito nei documenti “inserviente”, cioè domestico a Bagno, mentre la madre, Maria Parmeggiani è indicata come “massaia”. Rosa invece è originaria di Spilamberto, anche se all’epoca del matrimonio era domiciliata a Modena, in qualità di cameriera. Il padre della sposa, Cirillo Gavioli svolgeva l’attività di veterinario e la madre Teresa Grioni è a sua volta indicata come massaia.
Un dato inaspettato riguarda Zefirino che non firma l’atto matrimonio, perché definito dall’impiegato comunale “illetterato”. Questo nuovo elemento probabilmente conferma la notizia in mio possesso che la famiglia di Rosa non fosse particolarmente soddisfatta di quest’unione: Zeffirino aveva trentotto anni e Rosa quaranta al momento del matrimonio. Questo elemento forse in parte spiega il motivo per cui Pia è l’unica figlia della coppia.
La famiglia viveva in via San Cristoforo a Modena e qui viene registrata la nascita della figlia il 14 ottobre del 1880. I genitori fecero studiare la figlia Pia presso l’Istituto magistrale “Carlo Sigonio”, dove ottenne il diploma di maestra, professione che svolgerà fino alla pensione.
Pia Lusvardi sposò il 19 gennaio 1906 Giovanni Buffagni, giovane impiegato alle Poste. Al momento del matrimonio, la madre Rosa era già morta da quasi due anni. La coppia risiede in via Mascherella, dove il 23 dicembre 1906 nacque la loro primogenita Rosa Lina Buffagni, mia nonna. Zeffirino però non vide mai la sua prima nipote, perché è deceduto due mesi prima, il 25 ottobre, nella sua abitazione in via San Geminiano.
Una storia che racconta di persone semplici, che svolgevano attività manuali, ma che vollero che la loro unica figlia studiasse e diventasse maestra. Una storia semplice ma che riflette il cambiamento sociale in atto in quegli anni nel giovane Stato unitario.
Ringrazio il Portale Antenati per il lavoro di digitalizzazione dei fondi documentari, che mi ha permesso di colmare dei vuoti lasciati dalle memorie familiari.
Suso, nome d’arte di Giovanna Cecchi, nacque a Roma il 21 luglio 1914 da Emilio, scrittore e critico letterario, e Leonetta Pieraccini, pittrice.
Dopo gli studi liceali trascorse un periodo in Svizzera e Inghilterra, dove ebbe modo di approfondire e perfezionare la conoscenza delle lingue straniere e dell’inglese in special modo.
Nel 1938, sposò Fedele D’amico, musicologo, figlio del noto critico teatrale Silvio D’Amico, da cui ebbe tre figli.
A partire dal secondo dopoguerra, cominciò a collaborare con il padre alla traduzione di alcune regie teatrali. Ma il suo debutto nel mondo cinematografico avvenne con la sceneggiatura di un film che non vide mai la luce, Avatar, tratto da un racconto di Théophile Gautier, a cui lavorò insieme agli amici Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Renato Castellani.
Nonostante l’inizio incerto, nel giro di pochi anni Cecchi D’Amico realizzò progetti di notevole successo. Tra i tanti, L’onorevole Angelina (1947), scritto assieme a Piero Tellini per la regia di Luigi Zampa e, nello stesso anno, Vivere in pace, che le valse il Nastro d’argento come miglior soggetto.
Collaborò con i più autorevoli esponenti del neorealismo italiano. Tra i lavori più emblematici si ricorda il film Ladri di biciclette (1948), scritto con Cesare Zavattini per Vittorio De Sica, in cui fu l’ideatrice della celeberrima scena finale. Vinse, anche in questa occasione, un Nastro d’argento per la migliore sceneggiatura.
A partire dagli anni Cinquanta, numerose furono le collaborazioni con personalità note del cinema italiano, tra cui Luigi Comencini, Vittorio Gassmann, Mario Monicelli, Franco Zeffirelli, etc. Ma fu in particolare con Luchino Visconti che strinse un forte sodalizio artistico. Quest’ultimo, infatti, le affidò la sceneggiatura di quasi tutti i suoi film, incluso Bellissima (1951), scritto per Anna Magnani, alla quale Cecchi D’Amico fu legata da una profonda amicizia.
Tra i meriti che, ad oggi, le vengono unitamente riconosciuti vi è la capacità di penetrare nella psicologia dei personaggi e di trasporla in sceneggiature sempre attente alle esigenze e allo stile personale di ciascuno dei tanti registi con cui collaborò, riuscendo in questo modo a produrre sceneggiature dotate di grande eterogeneità, in cui commedia e dramma coesistevano con una peculiare armonia, divenendo il suo tratto distintivo.
Nel 1994, alla Mostra del cinema di Venezia, le fu assegnato il Leone d’oro alla carriera.
Suso Cecchi D’Amico morì a Roma il 31 luglio 2010.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma, Stato civile italiano, Roma, 1914
Per approfondimenti sulla figura di Suso Cecchi D’Amico, vedi la voce dell’Enciclopedia del Cinema a cura di Marco Pistoia.
Margherita Albina Beloch – poi coniugata Piazzolla – nacque a Frascati il 12 luglio 1879 da Bella Bailey, americana, e Giulio, professore di storia antica di origini tedesche.
Iscrittasi alla facoltà di Matematica a Roma, si laureò nel 1908 con una tesi su “Le trasformazioni birazionali nello spazio”, che fu pubblicata l’anno successivo.
Dapprima fu assistente volontaria alla cattedra di matematica analitica del professor Guido Castelnuovo, che era stato suo relatore. Poi, assistente a Pavia e Palermo, fino all’ottenimento della libera docenza nel 1924 e, nel 1927, della cattedra di Geometria presso l’Università di Ferrara, dove rimase fino al pensionamento nel 1955.
Nel corso della sua carriera si occupò in special modo del valore pratico-applicativo della matematica e della geometria. Una delle sue aree di maggior interesse fu la fotogrammetria: nello specifico, i suoi studi vennero impiegati nel campo radiologia medica consentendo enormi passi avanti nell’ottenimento di immagini degli organi all’interno del corpo umano, per mezzo dei raggi x.
A questo si aggiunse anche l’invenzione del “precisometro”, uno strumento che permetteva di realizzare lo scatto sincrono di due radiogrammi, fornendo l’esatta immagine e posizione anche di organi capaci di movimenti involontari, come ad esempio il cuore. Nel 1938, il “precisometro” fu premiato alla Mostra delle invenzioni ‘Leonardo da Vinci’ con la coppa d’argento del ministero dell’Educazione nazionale.
Nel 1955, Margherita Beloch Piazzolla fu insignita del titolo di professore emerito, potendo così dedicarsi all’attività di ricerca e studio anche dopo il pensionamento.
Morì a Roma il 28 settembre 1976.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma, Stato civile italiano, Frascati, 1879
Sabato Martelli Castaldi nacque a Cava de’ Tirreni (SA) il 19 agosto 1896.
Trascorsa la fanciullezza a Raito, sulla costa amalfitana, si trasferì con il padre a Roma dove proseguì gli studi al San Giuseppe di Merode, per poi arruolarsi volontario presso l’accademia del Regio Esercito di Torino.
Nominato sottotenente del genio, prese parte alla Prima guerra mondiale il 9 aprile 1916.
Nel 1917, dopo aver superato le selezioni, conseguì a Foggia il brevetto di pilota militare e fu nuovamente inviato sul fronte, dove operò oltre cento missioni di volo. Fu assegnato al reparto di ricognizione aerea, presso cui si eseguivano missioni per rilevazioni aerofotografiche e alla conseguente fotointerpretazione. Nel corso della sua carriera si abilitò, progressivamente al pilotaggio di velivoli diversi, divenendo un pilota versatile e di grande abilità nelle varie specialità.
Al termine della Grande Guerra, tornò pluridecorato con una medaglia d’argento e due di bronzo al valor militare.
Il 17 luglio 1931, fu promosso Colonnello per “merito straordinario”, e il 1° dicembre 1932 fu chiamato ad assumere l’incarico di Capo di Gabinetto del Ministro dell’Aeronautica, Italo Balbo, in un momento in cui la forza armata era nel periodo dei raid e delle crociere.
Il 28 ottobre 1933, a soli 37 anni, fu nominato Generale di Brigata “a scelta assoluta”: è tutt’ora il più giovane Generale italiano di tutti i tempi, per tutte le Forze Armate.
Nel 1934, a seguito di una serie di circostanze determinate da una sua una relazione al duce nella quale denunciava il reale stato dell’arma aerea, fu congedato e, perseguitato dell’OVRA, impossibilitato ad ottenere un lavoro. Dopo mesi di difficoltà e ricerche, riuscì ad essere assunto quale uscere presso il Polverificio Stacchini, con sede a Roma. Ne diverrà presto un dirigente.
In quegli anni si rivolse più volte al capo del governo Benito Mussolini per poter essere reintegrato nella Regia Aeronautica, ma ogni sua richiesta fu respinta.
Dopo l’8 settembre, fu tra i combattenti partigiani a Porta San Paolo a Roma. Con il nome di battaglia “Tevere”, in ricordo di quel fiume che aveva assistito a tanti dei suoi successi sportivi nel canottaggio, si adoperò intensamente a favore della Resistenza collaborando sia con la parte politica dei partiti antifascisti e sia con quella militare del Fronte Militare Clandestino.
Il 17 gennaio 1943, la polizia tedesca arrestò lo Stacchini, datore di lavoro di Martelli Castaldi, accusandolo di aver fiancheggiato i Partigiani. Martelli Castaldi, con l’intento di scagionare Stacchini si presentò presso il comando delle SS e venne da questi arrestato.
Fu condotto nel carcere di via Tasso, dove rimase nella cella di punizione per sessantasette giorni, e dove subì diverse torture. Anche lì, non smise mai di adoperarsi a favore dei suoi compagni: corrompendo le guardie, riuscì a scrivere alla famiglia e a far giungere viveri e medicinali per tutti i reclusi del suo piano. Di quei giorni, rimane traccia e testimonianza attraverso le lettere e i biglietti che scrisse alla moglie, Luisa Barbiani e delle scritte lasciate, tra cui una poesia, sul muro della cella n. 2.
Le prove che le SS riuscirono comunque a raccogliere contro di lui, fecero sì che, senza processo, divenne “meritevole di morte”.
Fu ucciso, assieme ad altri 334 martiri, nell’eccidio delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo 1944.
Il suo corpo riposa nel sarcofago 117 del Mausoleo delle Fosse Ardeatine insieme a quelle delle altre vittime. A perpetua memoria, gli venne conferita la medaglia d’oro al valor militare.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Salerno, Stato civile italiano, Cava de’ Tirreni, 1896
Presso lo stesso Istituto sono conservati anche la Lista di leva e il Ruolo matricolare.
Per approfondimenti sulla figura di Sabato Martelli Castaldi, si veda il volume di Edoardo Grassia, Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano, Padova, Ugo Mursia Editore, 2016.
Fonti archivistiche e bibliografiche:
Archivio dell’Ufficio Storico Aeronautica Militare, Fondo Medaglie d’Oro al Valor Militare, b. 20, fasc. 169;
Inoltre, il Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, conserva – a seguito di cerimonia di donazione avvenuta nel 2017 – alcuni cimeli di Martelli Castaldi.
Tito Giuseppe Zopito Acerbo nacque a Loreto Aprutino (PE) il 4 marzo 1890, da Olinto e Marianna De Pasquale.
Ricevuta una prima istruzione al seminario arcivescovile di Chieti e al regio liceo di Fermo, si laureò a Firenze per poi arruolarsi come volontario nell’esercito, allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Per le abilità in campo e il profondo senso del dovere, fu promosso Capitano, venendo decorato con due medaglie d’argento al valor militare. Ma a valergli la medaglia d’oro alla memoria furono il suo carisma e il senso di sacrificio, nella notte del 15 giugno 1918, quando, benché ferito, fu una delle figure chiave per bloccare il tentativo di penetrazione del nemico austro-ungarico sul Piave.
Morì sul campo il mattino successivo, il 16 giugno 1918.
Suo fratello Giacomo Vincenzo Aurelio nacque a Loreto Aprutino (PE) il 25 luglio 1888.
Anch’egli compì gli studi classici tra Chieti e Fermo, mentre conseguì la laurea in Scienze agrarie a Pisa, nel 1912.
Fu attivo nella vita comunale del suo paese fino all’arruolamento alle armi come volontario, distinguendosi in numerose battaglie per le quali venne più volte decorato. Alla morte di Tito, fu congedato.
Da lì si dedicò alla carriera universitaria e politica. Dapprima avvicinandosi ai socialisti e poi favorendo la nascita del Fascio provinciale di combattimento nella provincia di Teramo, ottenendo cariche di coordinamento sempre più rilevanti.
Nel 1921, fu eletto deputato in Parlamento e nel 1923 legò il suo nome alla nota “legge Acerbo”, che mirava a riformare il sistema elettorale secondo un principio maggioritario.
Durante la sua carriera politica fu Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri (1922-24), Vicepresidente alla Camera dei Deputati (1929), Ministro dell’agricoltura e delle foreste (1929-1935), Ministro delle Finanze (1943).
Nel 1942, votò per l’esautorazione dei poteri di Mussolini, definendosi “umile servo del re” Vittorio Emanuele III. Tuttavia, alla firma dell’armistizio, l’8 settembre 1944, fu condannato a morte in contumacia, ma riuscì a scappare, rifugiandosi nella casa natale di Loreto Aprutino.
Dopo mesi di fuga, fu arrestato e condannato a 48 anni di prigione.
Scontò un breve periodo nel carcere dell’isola di Procida, dove insegnò matematica ai detenuti. Poiché, annullata la sentenza, venne liberato, riammesso al voto e riabilitato alla docenza universitaria, a cui si dedicò negli ultimi anni della sua vita, occupandosi di numerosi scritti di economia e politica agraria.
Giacomo Acerbo morì a Roma il 9 gennaio 1969.
La storia dei due fratelli è strettamente legata alla celebre “Coppa Acerbo”, che Giacomo nel 1924 volle inaugurare e intitolate alla memoria di Tito, prematuramente morto in guerra. Si trattava di una delle corse d’auto di maggiore rilevanza dell’epoca, un circuito di grande difficoltà tra le colline pescaresi a cui prendevano parte i nomi più celebri delle case automobilistiche. L’ultima edizione si tenne nel 1961.
Puoi consultare gli atti di nascita sul Portale Antenati.
Per Tito Acerbo: Archivio di Stato di Pescara, Stato civile italiano, Loreto Aprutino, 1890
Per Giacomo Acerbo: Archivio di Stato di Pescara, Stato civile italiano, Loreto Aprutino, 1888
Per approfondimenti sulla figura di Giacomo Acerbo, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Antonio Parisella.
Anna Maria Ortese nacque a Roma il 13 giugno 1914, da Oreste, funzionario pubblico di origini siciliane, e Beatrice Vaccà, proveniente da un’antica e benestante famiglia di scultori napoletani.
Durante la Prima guerra mondiale, la famiglia si trasferì da Roma verso il sud: dapprima in Puglia, poi in Campania, in Basilicata e, infine, a Tripoli, dove Anna Maria terminò le scuole elementari. Ebbe, infatti, una formazione prevalentemente autodidatta: più che l’istruzione scolastica, furono la sua mente profondamente immaginifica e la tendenza all’introspezione a fornirle un’innata propensione per la parola scritta.
Successivamente, dopo questo periodo di forte instabilità geografica, a partire dal 1928, Ortese si stabilì assieme alla famiglia a Napoli, la città che più di tutte ne influenzò la poetica.
Nel 1933, la perdita dell’amato fratello Emanuele, la ispirò nella scrittura di alcune poesie, che furono pubblicate per la prima volta sulla rivista L’Italia letteraria. Quell’evento costituì uno spartiacque, dando inizio alla sua attività di scrittrice: nel 1934, infatti, pubblicò il suo primo racconto, Pellirossa, e, nel 1937, per Bompiani uscì la sua prima raccolta di novelle.
In quello stesso anno, fu assassinato in circostanze poco chiare il suo gemello, Antonio. Questo indusse in lei una profonda malinconia e irrequietezza, che si tradussero in trasferimenti continui nel nord Italia, dove si sostentò dapprima come correttrice di bozze e poi come collaboratrice per i più importanti quotidiani nazionali.
A seguito di questo lungo peregrinare, nel 1945, fece ritorno a Napoli, dove riprese a scrivere e pubblicare. Tra i titoli più celebri di questo periodo, si ricorda la raccolta di novelle intitolata Il mare non bagna Napoli, forse la più emblematica delle sue opere, vincitrice del Premio Viareggio (1953). Qualche anno più tardi, stabilitasi a Milano, scrisse L’iguana (1965) e Poveri e semplici, romanzo, quest’ultimo, che le valse la vittoria del Premio Strega (1967).
La produzione scrittoria di questi ultimi anni l’aiutò a ristabilire il giudizio favorevole della critica, che in passato l’aveva sottoposta a un silente ostracismo per via della sua malcelata disistima verso il mondo culturale e intellettuale dell’epoca. Nonostante ciò, Ortese continuò a condurre la sua vita ritirata e modesta, anche quando, nel 1975, si stabilì a Rapallo (GE) assieme alla sorella Maria.
Lì, le condizioni economiche tutt’altro che rosee, la indussero ad acconsentire alla ristampa di alcune sue opere, che le restituirono un rinnovato successo, anche oltre i confini nazionali.
Anna Maria Ortese morì a Rapallo nella notte del 9 marzo 1998.
Puoi consultare l’atto di nascita sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma, Stato civile italiano, Roma, 1914
Per approfondimenti sulla figura di Anna Maria Ortese, vedi la voce del Dizionario Biografico degli Italiani a cura di Monica Farnetti.
Giacomo Matteotti nacque a Fratta Polesine (RO) il 22 maggio 1885.
Figlio di Girolamo ed Elisabetta Garzarolo, commercianti di ferro e rame nella provincia di Rovigo che riuscirono a fare fortuna, divenendo ricchi proprietari terrieri.
Sin da giovane, Giacomo e i suoi fratelli – Matteo e Silvio, prematuramente scomparsi – si iscrissero al Partito Socialista Italiano contribuendo attivamente alla politica locale. Ancora ragazzo, infatti, Giacomo firmò i suoi primi articoli per la rivista La lotta, che lo designò come punto di riferimento politico della zona. Fu durante quel periodo che iniziò a delinearsi la sua visione di giustizia sociale e impegno civile, sempre accompagnata da un’idea antimilitarista, contraria all’intervento dell’Italia nei conflitti bellici.
Dopo il ginnasio, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Bologna, laureandosi con il massimo dei voti nel 1907.
Negli anni successivi, si dedicò all’attività politica: venne eletto sindaco nel suo paese di origine e anche in quelli limitrofi, per poi divenire consigliere provinciale.
Nel 1919, fu eletto deputato in Parlamento, dove si distinse per la sua tempra intransigente e battagliera. A quegli anni, risale anche l’inizio della sua lotta contro il movimento fascista, di cui denunciava i soprusi e le irregolarità.
Dopo l’espulsione dal PSI, nel 1922, insieme a Filippo Turati e altri fondò il Partito Socialista Unitario, che alle elezioni del 1924 divenne il secondo partito di opposizione.
Il 30 maggio 1924, Matteotti prese la parola alla Camera dei Deputati denunciando pubblicamente l’invalidità delle elezioni svolte il mese precedente, contestando le violenze, le illegalità e gli abusi commessi dai fascisti, che erano riusciti a vincere le elezioni. La sua richiesta di invalidare la votazione non fu accolta e Matteotti fu riconosciuto dalla stampa come il principale oppositore del fascismo. Quel celebre discorso è storicamente ricordato come un inno alla democrazia, che segnò la sua condanna a morte.
Nel pomeriggio del 10 giugno 1924, infatti, fu rapito a Roma da un gruppo di fascisti appostato a poche centinaia di metri dalla sua abitazione, mentre si dirigeva a piedi verso Montecitorio. Morì, per accoltellamento, poche ore dopo.
Per via della presenza di testimoni e della pessima gestione di quello che passerà alla storia come il “caso Matteotti”, in pochi giorni la stampa rese noti i retroscena assieme ai nomi dei principali esecutori.
Il suo corpo verrà ritrovato il 16 agosto di quello stesso anno nella macchia della Quartarella, a Riano, un comune a qualche chilometro di distanza da Roma.
Puoi consultare l’atto di morte sul Portale Antenati: Archivio di Stato di Roma, Stato civile italiano (registri dei comuni), Riano, 1924
L’atto fu redatto (nella parte II, serie C) del registro del comune di Riano, dove venne rinvenuto il cadavere. Da notare che, di seguito, è presente un allegato, riportante una Sentenza di rettificazione, datata al 12 ottobre 1925 in cui si corregge la data di nascita dell’on. Matteotti, che nell’atto di morte era stata riportata in maniera parzialmente errata.