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HomeStorie di famigliaItalia

Nazionalità: Italia

Una vecchia cappelliera marrone, di quelle antiche, di cartone… da piccola era sempre un piacere aprirla e sfogliare le vecchie foto di mia nonna, che, a quei tempi, mi raccontava di persona “i fatterelli” legati a quelle immagini.

Ora sono pensionata e con piacere le ho riscoperte, cercando di dare un nome, delle date, un luogo… e così si sono rianimate. Con pazienza ho ricostruito le nascite, i matrimoni, le morti… si è aperto un mondo fino ad allora sconosciuto.

Scetáteve, guagliune ‘e malavita

Ca è ‘ntussecosa assaje sta serenata

Io sóngo ‘o ‘nnammurato ‘e Margarita

Ch’è ‘a femmena cchiù bella da ‘Nfrascata

(Libero Bovio, Guapparia)

Orsola Bruno forse non sarà stata “a’femmena cchiù bella da ‘Nfrascata”, ma certamente lo era agli occhi di Antonio De Cesare, che la scelse per sé, e visse a lungo con lei e i loro otto figli in questa strada, intorno al 1806.

I due erano nati all’incirca nel 1780.

In origine, la strada dell’Infrascata era un’ombrosa e impervia salita, fra alberi e arbusti, con un gran traffico di carretti e contadini che portavano derrate alimentari alle case signorili. Nel quartiere Avvocata, questa strada congiungeva il popolare centro storico con il nuovo quartiere del Vomero, dove la nobiltà̀ si era fatta costruire ville e palazzi. Dal 1869, i napoletani identificarono “l’Infrascata” con via Salvator Rosa.

Il trisavolo Giovanbattista Terzini e con la nonna Ester – la piccola a sinistra – nel 1893

Al tempo di Antonio, probabilmente la strada aveva già̀ perso il suo aspetto “bucolico” e si era ormai riempita di alti palazzi, botteghe, commercianti, bancarelle, con vivace e allegro vociare…  Antonio aveva una bottega di calzolaio, dove lavorava insieme ai figli, Vincenzo, Giuseppe e Raffaele. Mentre per le figlie femmine – Irene, Francesca e Maria – aveva avuto progetti diversi: Irene fu la prima a convolare a nozze; l’8 novembre del 1828 sposò un suo coetaneo, Giuseppe Ravallese, un giovane tipografo (“compositore di caratteri”), benestante, da cui ebbe cinque figli.

Mentre nel 1838, Francesca sposò Costanzo Mellino, gioielliere, figlio di una Gusumpaur, antica famiglia di orafi e mercanti in pietre preziose. Lo sposo aveva 40 anni e la sposa 26, e andarono ad abitare a Largo Materdei, casa dei Mellino.

Tuttavia, la famiglia De Cesare poté gioire per poco, poiché qualche anno più tardi, nel 1844, morì Giuseppe Ravallese, lasciando la moglie Irene De Cesare, incinta, con quattro figli piccoli. Due di questi, Nunzia e Carolina, moriranno poco dopo.

Nel 1851, infine, si sposò Maria, a 33 anni, con un calzolaio, Gennaro Saggiomo. Anche loro, purtroppo, persero presto uno dei loro gemelli, Vincenzo.

Degli altri figli di Antonio De Cesare, Giuseppe si sposò nel 1855, ormai quarantottenne, con Luigia Ambrosio, che però morì quattro anni dopo. Si risposò, così, a 53 anni con la vedova Angela Martone, che abitava nel Fondaco Santa Monica, al Cavone, una zona sovraffollata già a quei tempi, oggi corrispondente a via Francesco Saverio Correra – dove, al civico 22, nel 1861 era nato il generale Armando Diaz.

Nel 1853, a 32 anni, il mio avo Raffaele De Cesare sposò Carmela Santangelo, di diversi anni più giovane, che gli darà sette figli. Di questi, Luigi ed Anna moriranno rispettivamente nel 1861 e 1863. Ma l’evento più drammatico accadde nel 1864, quando la giovane moglie Carmela morì a 34 anni, dopo aver vagato da un ospedale all’altro, lasciando il marito con sei figli piccoli: Antonio, Gennaro, Luigi, Anna, Mariano e Concetta.

I bisnonni Giuseppe De Cesare e Carolina Terzini nel 1890

A quel punto, Raffaele decise di lasciare l’attività del padre per seguire quella di orafo del cognato Mellino, marito della sorella Francesca, che fortunatamente si rivelò redditizia. La bottega venne aperta prima nel Borgo Orefici, ma dopo il Risanamento fu trasferita in una traversa di via Toledo.

Nella strada dell’Infrascata c’era una bottega di barbiere, appartenente alla famiglia De Pascale. Fu gestita prima dal vecchio Vincenzo, poi ereditata dai figli Ferdinando e Raffaele, che arrotondavano facendo i “salassatori”.

Ferdinando De Pascale e Michela, vicini di casa e di bottega di Antonio, avevano sei figli. Tre maschi (Vincenzo, Francesco e Pasquale) e tre femmine (Teresa, Maria e Giuseppa).

Dopo pochi mesi dalla nascita dell’ultima rampolla Giuseppa, Ferdinando morì (a causa dell’epidemia di colera del 1854) a soli 43 anni, lasciando la vedova Michela a doversi occupare della numerosa prole. Così entrò in gioco la famiglia De Cesare…

Napule è mille paure,

Napule è a voce de’ criature ,

che saglie chianu chianu,e tu sai ca’ non si sulo…

(Pino Daniele, Naplule è)

Il nostro incisore-argentiere Raffaele De Cesare, anch’egli rimasto vedovo con cinque figli, sposò l’orfana Teresa De Pascale, che si fece carico dei suoi piccoli, dando allo sposo altri cinque pargoli: Giuseppe, Giovanni, Francesco, Assunta ed Eduardo.

La vedova De Pascale riuscirà̀ anche a portare all’altare altre due figlie: Giuseppa e Maria.

Nonna Ester e il suo pianoforte nel 1912

Nel 1877, la prima sposò Gennaro De Cesare, figlio di primo letto di Raffaele. Gennaro faceva il barbiere, ma preferì imbarcarsi da Napoli sulla Tartar Prince il 1° febbraio 1899 con l’amata Giuseppa De Pascale ed i suoi sette figli per cercare fortuna a New York. Maria invece sposò il vedovo Gianbattista Terzini, calzolaio a Borgo Orefici.

Gli altri fratelli, Giuseppe, Giovanni, Francesco, Assunta ed Eduardo prenderanno altre strade: Giovanni partirà per il Belgio, dove, oltre a svolgere la sua attività di “orafo incisore”, sposerà nel 1898 Jeanne Marie Louise Fontaine, dalla quale avrà almeno sei figli. All’inizio del 1900, però, ritornerà nell’amata Napoli.

La saga di questa grande famiglia continua, fra nomi che si ripetono e legami matrimoniali fra parenti.

Il marito di nonna Ester: il nonno Mario Albore nel 1912

ll giovane Giuseppe De Cesare, figlio di secondo letto di Raffaele, che aveva intrapreso con passione l’attività del padre nell’oreficeria, si innamora e sposa la prima figlia di Gianbattista Terzini (il vedovo che aveva sposato Maria De Pascale): sua cugina Carolina, detta Carlotta. Donna simpatica, socievole e concreta, ottima cuoca, ma che non riuscì a dare a Giuseppe tutti i figli che avrebbe voluto… fermandosi alla dolcissima Ester, che dal padre eredita lo spirito artistico, diplomandosi al conservatorio come pianista.

Francesco De Cesare sposò Concetta, restando nel suo quartiere con i suoi due figli maschi: Raffaele e Giuseppe. Assunta non si sposò. Eduardo sposò Gilda.

Da questo momento, la ricostruzione storica si fa personale e nostalgica, legata a racconti e ricordi personali, ma purtroppo meno precisa per mancanza di documenti utilizzabili per via della privacy.

La memoria riporta alla mente affettuose immagini: il grande appartamento a Santa Maria Ognibene, dove ad ogni angolo trovava posto un anziano parente, dove profumi di manicaretti prelibati si alternavano all’odore acre dei colori ad olio usati da zio Peppino per i suoi quadri ottocenteschi.

Nonna Ester e i suoi figli nel 1979: da sinistra Adriana, Italo, Maria e Amergo

Intanto la vita riserva ad Ester altri progetti: non farà mai la concertista, ma sarà moglie affettuosa e madre premurosa. Incontrerà Mario Albore e lo sposerà nel 1920 all’età di 29 anni (quando lui ne aveva 23). Andranno ad abitare insieme ai genitori di lei, Giuseppe e Carolina, nella zona della Stazione Centrale.

Dalla loro unione, nasceranno 4 figli: Maria, Adriana, Italo e Amerigo.

Italo era… il mio papà.

Non possiedo fotografie dei miei trisavoli da parte della nonna materna, mentre ne ho viste molte dei parenti della famiglia del nonno.
Nella mente sono presenti solo i ricordi delle storie che mia nonna Lina riferiva sui propri nonni, che peraltro lei stessa non aveva conosciuto.

Poiché, tutti i parenti di mia nonna sono comunque di origine modenese, questo mi ha spinta e cercare altre informazioni e a consultare il sito dell’Archivio di Stato di Modena. Ho così appreso dell’esistenza del Portale Antenati e ho iniziato la ricerca.

Atto di matrimonio di Zeffirino Lusvardi e Rosa Gavioli

Una parte delle date che volevo recuperare si collocavano esattamente negli anni dei registri consultabili on line sul Portale. Sono partita dai dati in mio possesso e devo ammettere di avere avuto molta fortuna. La bisnonna Pia Lusvardi, madre di mia nonna Lina, era nata nel 1880 da genitori un po’ avanti negli anni per la mentalità dell’epoca, ma non conoscevo nemmeno la data esatta di nascita, che ho ritrovato sfogliando il registro digitalizzato. Ho quindi provato a immaginare che Rosa e Zeffirino, questi sono i nomi dei miei trisavoli, si fossero sposati l’anno precedente, quindi ho consultato il Registro dei Matrimoni del 1879 e in data 15 novembre ho in effetti trovato i dati relativi alla registrazione del matrimonio di Rosa Gavioli e Zeffirino Lusvardi. La consultazione degli Indici relativi ai registri ha velocizzato la ricerca.

L’atto di matrimonio fornisce diverse informazioni sui genitori degli sposi e sugli sposi stessi. Così, incrociando i dati dell’atto di matrimonio con gli allegati necessari per le pubblicazioni ho recuperato una serie di informazioni interessanti: lo sposo, Zeffirino era nato l’11 settembre 1841 a Modena e qui si manteneva svolgendo l’attività di cocchiere. Il padre, Natale Lusvardi, viene definito nei documenti “inserviente”, cioè domestico a Bagno, mentre la madre, Maria Parmeggiani è indicata come “massaia”. Rosa invece è originaria di Spilamberto, anche se all’epoca del matrimonio era domiciliata a Modena, in qualità di cameriera. Il padre della sposa, Cirillo Gavioli svolgeva l’attività di veterinario e la madre Teresa Grioni è a sua volta indicata come massaia.

Un dato inaspettato riguarda Zefirino che non firma l’atto matrimonio, perché definito dall’impiegato comunale “illetterato”. Questo nuovo elemento probabilmente conferma la notizia in mio possesso che la famiglia di Rosa non fosse particolarmente soddisfatta di quest’unione: Zeffirino aveva trentotto anni e Rosa quaranta al momento del matrimonio. Questo elemento forse in parte spiega il motivo per cui Pia è l’unica figlia della coppia.

Atto di matrimonio di Giovanni Buffagni e Pia Lusvardi

La famiglia viveva in via San Cristoforo a Modena e qui viene registrata la nascita della figlia il 14 ottobre del 1880.
I genitori fecero studiare la figlia Pia presso l’Istituto magistrale “Carlo Sigonio”, dove ottenne il diploma di maestra, professione che svolgerà fino alla pensione.

Pia Lusvardi sposò il 19 gennaio 1906 Giovanni Buffagni, giovane impiegato alle Poste. Al momento del matrimonio, la madre Rosa era già morta da quasi due anni. La coppia risiede in via Mascherella, dove il 23 dicembre 1906 nacque la loro primogenita Rosa Lina Buffagni, mia nonna. Zeffirino però non vide mai la sua prima nipote, perché è deceduto due mesi prima, il 25 ottobre, nella sua abitazione in via San Geminiano.

Una storia che racconta di persone semplici, che svolgevano attività manuali, ma che vollero che la loro unica figlia studiasse e diventasse maestra. Una storia semplice ma che riflette il cambiamento sociale in atto in quegli anni nel giovane Stato unitario.

Ringrazio il Portale Antenati per il lavoro di digitalizzazione dei fondi documentari, che mi ha permesso di colmare dei vuoti lasciati dalle memorie familiari.

Mi chiamo Maria Cecilia Biagi, anche se per tutti sono sempre stata semplicemente Cecilia. Sono una farmacista e un po’ per caso sono venuta a conoscenza di un laboratorio di genealogia organizzato dall’Archivio di Stato di Prato a cui ho deciso di iscrivermi per ripercorrere la storia della mia famiglia. 

Oggi sentiamo spesso parlare di cervelli in fuga e abbiamo gli occhi pieni di immagini terribili di barconi stracolmi di migranti, ma l’uomo è stato da sempre in cerca di un mondo migliore dove potersi affermare o se non altro alla ricerca di quel minimo di sostentamento che possa garantire una vita dignitosa.

Ho sempre sentito parlare, nei racconti che sono stati tramandati nella mia famiglia, della lunga emigrazione dei miei nonni e del mio babbo in Corsica. La storia di questa migrazione si lega a un oggetto, un “prezioso cimelio” da sempre conservato nel salotto di casa nostra. 

Si tratta di un vassoio che sulla superficie aveva un dipinto raffigurante Calvi, un piccolo comune situato nella parte nord-ovest della Corsica e che mia nonna era solita indicarmi perché lì aveva vissuto per molti anni. 

Vassoio

I nonni, partirono da Luciana (Vernio) negli anni ’30 del Novecento, e appena arrivati in Corsica, furono ospitati da una nipote che là già viveva ed aveva, insieme al marito, un panificio e una bottega di generi alimentari. I nonni si cimentarono in vari lavoretti e anche mio padre, che era solo un bambino, dava il suo contributo: prima di andare a scuola inforcava la sua bicicletta con un grande paniere di vimini per fare le consegne del pane. 

Il nonno lavorava alla costruzione delle strade e la nonna era a servizio in una famiglia di un medico, un certo dottor Crudeli.

Quegli anni furono di grande emancipazione per la famiglia considerando che da un piccolo paesino di montagna come Luciana di Vernio (Prato) si erano spostati in un’isola dove il mar Tirreno li divideva dalla loro patria. Gli occhi della nonna e di mio padre si illuminavano quando rievocando quegli anni trascorsi all’estero. Inoltre tutto ciò permise loro di raggranellare un po’ di risparmi e di comprare, una volta tornati in Italia, la casa in cui io sono nata. 

Nella mia ricerca genealogica ho anche scoperto che il babbo della mia nonna, il mio bisnonno Beniamino Moncelli, aveva già percorso quella rotta nel lontano 1899 perché al momento della nascita di sua figlia Cecilia è la levatrice, la signora Olga Pacini, che va a dichiararla all’Ufficio di Stato Civile di Vernio e sull’atto di nascita è riportato che il padre è assente perché si trova in Corsica a lavorare. 

 Atto di nascita di Cecilia Moncelli

Evidentemente la valle del Bisenzio non offriva molte opportunità: la pastorizia e la castanicoltura, attività tipiche del luogo, non erano sufficienti a sfamare la famiglia. 

Questo fenomeno di migrazione verso la Corsica ha interessato molte famiglie della Val di Bisenzio e ancora oggi, nei mesi estivi, nel piccolo borgo di Cavarzano, non è raro incrociare macchine con targhe francesi e soprattutto corse. 

Stesse scene si possono vedere anche nella vicina frazione di Fossato (Vernio), interessata anch’essa da un’importante emigrazione verso Marsiglia.

Nella mia soffitta custodisco ancora gelosamente il baule che aveva accompagnato i miei nonni durante la traversata per mare: erano lì raccolte le poche cose che possedevano e soprattutto era carico di tante speranze!

Baule

In qualche modo la valle del Bisenzio e la Corsica si intrecciano insieme alle storie delle loro genti.

Mi chiamo Maria Cecilia Biagi e ho deciso di ripercorrere la storia della mia famiglia. Di rimettere insieme i racconti di mia mamma e della nonna che purtroppo non ho potuto conoscere

Pochi atti di nascita e un muro di confine divideva i miei nonni materni.

Atto di nascita Maggini Vincenzo.

La nonna, Giulia Mengoni, era stata registrata col numero 1606 nel volume dei nati del Comune di Prato; il nonno, Vincenzo Maggini, col numero 1619: nati nello stesso giorno di Santo Stefano del 1884.

Atto di nascita Mengoni Giulia.

Come se non bastasse, le loro case erano anche confinanti, nella zona di Filettole (Prato).

Hanno trascorso l’infanzia insieme e so che il nonno le aveva giurato che l’avrebbe sposata da grande. Certe volte tra bambini si dicono le cose un po’ per gioco, ma loro due invece l’hanno fatto davvero. So che è stato un amore un po’ contrastato da parte della famiglia Maggini perché consideravano la nonna Giulia una “fabbrichina”, una lavoratrice in fabbrica, e quindi non in grado di apportare un aiuto nel lavoro dei campi.

Nonostante ciò, nel 1915 si sposano. Hanno prima due bambine che però muoiono perché il nonno aveva contratto la malaria nel suo trasferimento in Maremma per lavorare come carbonaio. Successivamente hanno altre due bambine a cui danno gli stessi nomi di quelle prematuramente scomparse: Lina, la più grande, e Loretta Dina Maria la minore, che altri non è se non la mia mamma.

Giulia Mengoni e Vincenzo Maggini
Lina Maggini

Prima della nascita di Loretta tutto filava liscio o almeno come in tutte le famiglie: fra alti e bassi. Dopo il parto però la nonna Giulia si ammala; mi si raccontava che le era stato riscontrato un “doppio vizio mitralico e aortico”. Oggi si direbbe che era affetta da stenosi. Consultando il registro degli infermi nel fondo Ospedale Misericordia e Dolce dell’Archivio di Stato di Prato ho potuto avere conferma di quella che era la sua diagnosi nel 1928.

Passano tre lunghi anni segnati da fame e sofferenze: la nonna è malata e non è in grado di accudire le sue bambine che quindi vengono affidate alle cure degli zii. Il nonno, il loro padre, è preoccupato nel vedere la moglie sempre più sofferente e nel non sapere mai dove siano le bambine, soprattutto la più piccola.

Aveva dovuto affrontare anche il baliatico recandosi a Vaiano, una località della Val di Bisenzio (Prato), in pieno inverno con quel fagottino che reclamava latte a più non posso.

Nonostante tutte le cure e le premure, in una gelida sera di Dicembre, più esattamente il sei del 1928, detto anche l’anno della tormenta, Giulia lo lascia solo con il suo dolore e con due bambine piccole: Lina di sei anni e Loretta di tre. Posso solo immaginare la disperazione di quest’uomo.

Loretta Dina Maria Maggini

Non di poco conto fu anche l’impegno economico che dovette sostenere: donne di servizio, sparizione di corredo, gioielli e quant’altro di commestibile si trovava in casa.

Giulia Mengoni

Le medicine al tempo erano tutte a pagamento e il nonno aveva il conto aperto con il Dr. Giuseppe Bottari, titolare della farmacia di Piazza Duomo.

In tutto questo una signora, dama di carità moglie dell’allora direttore generale del Fabbricone, la signora Cardelli, gli propone il lavoro di guardia giurata notturna. Un lavoro di responsabilità, con tanto di porto d’armi ma che garantiva loro il sostentamento. Nel frattempo i fratelli e le cognate gli proponevano le soluzioni più disparate per sistemare le bambine, tra cui quelle di mandarle in qualche istituto, ma lui al pensiero di doversene distaccare optò per un secondo matrimonio, forse più per dar loro una figura femminile che per altro.

La “matrigna”, ma non voglio chiamarla così ma bensì la nonna Rosina è stata una donna amorevole che ha accolto le bambine, Lina e Loretta, come se fossero sue e a quell’epoca trovare un marito con un lavoro stabile e che ti permetteva di non gravare più sulla famiglia d’origine non era cosa da poco.

Vincenzo continuò comunque a prendersi cura delle sue figlie, e tra un impegno e l’altro coltivava la sua grande passione: quella per il giardinaggio e il pezzettino di terra che curava con più amore era la tomba della sua amata Giulia.

Io ho vissuto la sofferenza che ha contraddistinto la vita di Loretta, mia madre: quella mancanza che l’ha accompagnata in tutti i suoi giorni. Non posso fare a meno di ricordare che in punto di morte aveva un gran sorriso e che di sicuro era rivolto al pensiero della sua mamma.

Vincenzo Maggini

Questo breve scritto lo dedico a lei.

Loretta Dina Maria Maggini con suo padre Vincenzo

Un suggerimento a chi leggerà queste poche righe: raccontate sempre le storie delle famiglie, tramandatele, perché sono il nostro tessuto, la trama su cui noi poi mettiamo i fili. Per me è stato molto bello ripercorrere a ritroso la storia della mia famiglia; è stato come ricomporre un puzzle, far riaffiorare alla memoria tanti ricordi che credevo sopiti.

Il desiderio di approfondire la storia della mia famiglia mi ha accompagnato da quando ero ragazzo, ma per vari motivi sono riuscito solo dopo molti decenni a realizzarlo.

Sapevo che la famiglia Croce era originaria di Pettorano sul Gizio, grazioso paese a pochi chilometri da Sulmona, e dalle tombe dei miei antenati che riposano lì nel piccolo cimitero avevo potuto ricostruire date e parentele. I bisnonni Enrico e Giulia, i loro quattro figli e i due nipoti, mio padre e mia zia, sono tutti sepolti a Pettorano, dove riposano anche altri parenti con lo stesso cognome. Del trisnonno conoscevo il nome, Giuseppe, il fatto che fosse stato un personaggio piuttosto conosciuto nell’ambito della borghesia agraria abruzzese ottocentesca e che aveva sposato due sorelle, Isabella, che morì poco dopo il primo parto, e Agata, figlie di Bartolomeo Ricciardelli di Pescocostanzo, altro nome di spicco tra i proprietari terrieri d’Abruzzo. Un’altra figlia di Bartolomeo, Elisabetta, moglie di Pietrantonio Sipari di Pescasseroli fu la madre di Luisa, che dal matrimonio con Pasquale Croce ebbe nel 1866 Benedetto.

La tomba del Giudice Regio Croce (1779-1854) nell’antico cimitero di Pettorano

Di questi antenati mi mancavano però i dettagli relativi alla loro vita e alle loro esistenze e quel ritardo di tanti anni nell’intraprendere la mia ricerca mi aveva ormai precluso la possibilità di chiedere i loro ricordi ai diretti testimoni di quell’epoca, ormai scomparsi.

Errico Croce (1843-1929) e la moglie Giulia Masciantonio

La scoperta del Portale Antenati è stata quindi decisiva per completare il primo passo nella ricostruzione della famiglia nell’Ottocento, permettendomi di colmare alcuni vuoti e di ricostruire legami totalmente sconosciuti con altri paesi prevalentemente abruzzesi, tanto da diventare un’appassionante caccia al tesoro alla ricerca di nuovi rami inesplorati. Attraverso l’esame di tanti registri di stato civile dal 1809 al 1865, disponibili per la maggior parte dei comuni dell’Aquilano oggetto della mia ricerca, sono riuscito a ricostruire un’infinità di tasselli mancanti al quadro iniziale che avevo. Insieme a quelli di Pettorano sono stati essenziali per la ricerca i registri di stato civile di Sulmona (purtroppo sprovvisti di indici che avrebbero reso la ricerca più rapida) e di molti comuni limitrofi. Sono stati consultati anche i registri di molti comuni della provincia di Chieti, in cui spesso si arriva a coprire gli anni fino alla fine dell’800 e in alcuni casi ai primi del ‘900. Oltre alla ricerca dei dati anagrafici e di parentela proveniente dalla consultazione dei registri di nascita, di morte e di matrimonio, è stato fondamentale l’aiuto di documenti settecenteschi conservati nei “Processetti di matrimonio”, che venivano allegati agli atti per consentire la celebrazione.

Giuseppe Croce (1790-1856) e la moglie Agata Ricciardelli

Successivamente, una volta completata la parte più vicina a noi, l’oggetto della ricerca si è spostato verso il passato. Purtroppo una buona parte dei documenti antichi di Pettorano è andata persa nel tempo, sia i registri parrocchiali fino alla metà dell’Ottocento che i documenti dell’Archivio Comunale sono stati distrutti da incendi e l’unica ampia fonte di informazioni sono gli atti, prevalentemente notarili, conservati presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila.

Anche le fonti bibliografiche sul paese sono scarsissime, ma non mancano alcune trascrizioni di documenti del ‘400 e ‘500 relativi a Pettorano, i cui originali sono in alcuni casi ormai irreperibili. In particolare, mentre un Catasto Onciario del 1447, che elencava i nomi delle famiglie del paese, non faceva alcuna menzione dei Croce, la trascrizione di un Rivelo del 1577 (un censimento dei beni di proprietà ecclesiastica) citava varie volte il nome di Stefano di Croce, proprietario di alcuni beni confinanti ai possedimenti della Chiesa.

Il nome di Stefano di Croce su un atto del 1593

Dalla collocazione temporale di quest’uomo, l’unico tra i tanti citati ad avere un cognome a me familiare, è partita la ricerca negli atti notarili conservati presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila, che grazie al prezioso lavoro di chi in quel Archivio lavora e di chi vi compie studi storici, ha permesso di ricostruire l’intera storia.

Stefano di Croce, il mio undicesimo avo, era un piccolo proprietario di terreni e animali a Pettorano. La sua origine non era probabilmente di quel paese, visto che nel Catasto quattrocentesco non vi era traccia della famiglia, ma probabilmente la sua permanenza a Pettorano era di vecchia data, visto che nei documenti non si faceva cenno alla sua provenienza come avveniva generalmente con i forestieri. Il suo cognome, “di Croce” o “de Cruce” era di origine patronimica come molti in Abruzzo, visto che Croce era un nome di battesimo piuttosto diffuso fino a tutto l’Ottocento in queste zone e indicava dunque il capostipite della famiglia. Solo nel ‘700 si cominciò a chiamare la famiglia con il cognome attuale omettendo il “Di” iniziale.

Di Stefano ho trovato molti documenti, che lo qualificava come massaro piuttosto benestante e testimoniano un’intensa attività di compravendita di terre e animali. Nel suo testamento del 1614, un documento perfettamente leggibile e interessantissimo per ricostruire i dettagli della famiglia, si citavano i due figli che vivevano con lui (altri due erano prematuramente scomparsi), un nipote, la nuora, per la quale Stefano lasciava una somma di denaro per l’acquisto di una gonnella. La famiglia, con figli e nipoti, viveva in un’unica casa, ubicata nelle vicinanze del castello di Pettorano, nella zona in cui alcuni dei Croce hanno vissuto fino a tutto l’Ottocento, e possedeva 400 pecore affidate con il testamento ai due figli Nicola e Pietro Antonio.

Stemma della famiglia Croce su un palazzo settecentesco a Pettorano sul Gizio

L’enorme numero di documenti reperiti presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila (oltre 500 quelli esaminati relativi alla famiglia Croce dal ‘500 all’ 800) ha permesso di ricostruire l’intera storia della famiglia, anche grazie a molti testamenti, utilissimi perché contengono spesso molte informazioni personali che invece mancano negli altri tipi di atti notarili.

È stato così possibile accertare che i Croce, divisi in vari rami fin dal Settecento ma sempre profondamente radicati in paese, hanno sempre mantenuto il legame con l’originaria attività derivante dal possesso di armenti e proprietà agricole, ma spesso unendo ad essa l’esercizio di professioni, come dimostra la presenza di vari notai, avvocati, medici e speziali.

Solo nel Novecento i Croce abbandonarono Pettorano, mantenendo come unico legame con quel territorio il bel palazzo ottocentesco con lo stemma della famiglia che accoglie chi arriva in paese e altri più antichi adornati con lo stesso simbolo. Mio nonno Augusto, nato nel 1897 e ultimo di quattro figli, andò a studiare a Napoli e dopo essersi laureato in ingegneria e aver sposato mia nonna Ester, intraprese un’attività lavorativa che lo portò a trasferirsi in varie città del Mezzogiorno. I loro figli, chiamati Enrico e Giulia come i nonni, nacquero in Calabria ma entrambi studiavano all’Università di Napoli. Mio padre Enrico, dopo un matrimonio sfortunato, decise di accettare un trasferimento di lavoro a Perugia, dove io e mio fratello siamo rimasti a vivere.

Augusto Croce (1897-1957) e la moglie Ester De Tullio

Altri Croce si trasferirono invece a Roma e nel Lazio durante il secolo scorso, e il piccolo paese, come è successo tante volte nel corso della sua storia, è rimasto muto testimone di una lunga storia.

La completezza della ricerca, arrivata a coprire dodici generazioni, e l’abbondanza di informazioni storiche sulla famiglia e sul territorio, mi hanno spinto alla pubblicazione di quest’articolo affinché i risultati raccolti non venissero coperti dalla polvere del tempo e rimanessero a disposizione di chiunque fosse, oggi o in futuro, interessato a quelle zone.

Un quadro macchiaiolo con cavalli al pascolo, semplicemente firmato “Giulia” dalla mia bisnonna materna, è stato la molla che mi ha lanciato nella ricerca genealogica. Volendo annotare dietro la tela il cognome dell’autrice e non quello del marito, ho telefonato all’anagrafe di Fiesole; mi hanno detto che si chiamava Pellegrini e che era pisana. Obiettivo raggiunto, poteva finire tutto qui, con una lieve picconata alla fiorentinità garantitami da mio padre. Già la sapevo incrinata da sua mamma valdarnese, che mi aveva cresciuto in via Masaccio, e dalla mitica bisnonna Giannina Aliboni (con la ò aperta), livornese di Antignano, al secolo Maria Giovanna. Morta suicida per essersi fatta e mangiata – lei diabetica ma ottima cuoca – un intero latte alla portoghese di sei uova, una sera che era stata lasciata sola in casa.

Cavalli a San Rossore, di Giulia Pellegrini (1892).

Tanti fatterelli di questo genere mi frullavano in testa insistentemente in una camera dell’ospedale Don Gnocchi mentre cercavo di riprendermi da un grave incidente di percorso, qualche anno fa. Tra un tentativo e l’altro di fuga in pigiama, mi misi ad annotarli sul portatile così come me li ricordavo; illudendomi che a mia figlia avrebbero potuto interessare, caso mai ci avessi lasciato le penne. Erano pieni di errori, ovviamente, per quanto riguardava date e parentele, perché scritti con niente sottomano da poter controllare e con la testa in stato semi-confusionale per la batosta. Comunque, ignoravo bellamente di trovarmi in quel preciso momento al centro del soppresso comune di Caselline e Torri, in parte divenuto poi Scandicci: questo lo realizzo adesso dal Portale Antenati. Ebbene proprio lì i miei avi paterni erano stati contadini per generazioni: parrocchia di San Martino alla Palma, per la precisione. Un ameno borgo collinare che casualmente da anni attraverso, ogni tanto, quando la Firenze Pisa-Livorno è intasata in modo grave. Giocondo Baccetti, di Luigi, classe 1829, padre di almeno quattro figli morti entro l’anno di età e infine del buon Adolfo, quest’ultimo insufficiente a mantenere da solo la tradizione mezzadrile. Inurbandosi al momento giusto, trova un impiego statale nel caos della dipartita di Firenze capitale. Custode in un museo e marito (per chissà quale congiuntura) della ghiotta e stizzosa bisnonna livornese. Lui invece mitissimo, dopo il pensionamento si dedicò a quotidiane passeggiate in campagna, da cui tornava a casa tutti i giorni stremato. Scommetto che andava verso San Martino alla Palma, ma da via Passavanti era un bel camminare.

Tea (classe 1898) posa in costume e accappatoio sul greto. Primi anni 1920, Terranuova Bracciolini.

Altro universo quello degli Aliboni di Antignano, frazione delle dimensioni ottimali per elargire non troppo di rado qualche soddisfazione sul Portale. Gli uomini quasi tutti marinai oppure scalpellini, che facevano a pezzi la panchina del Tirreniano lungo la costa di Calafuria, per la costruzione dei palazzi livornesi (Andrea, babbo della Giannina, era tra costoro). Le donne invece tutte lavandaie, suppongo al servizio delle famiglie della Livorno bene. Doveva esistere, nella zona, un “botro” con acqua particolarmente copiosa e pulita. Tante le famiglie Aliboni ad Antignano, che per orizzontarmi ho dovuto ricopiarle dal censimento del 1841 dentro a un file Excel; il mio ramo è risultato quello di Valente, nato prima del 1740. Grande sorpresa avervi trovato direttamente collegato il “tenente castellano” del paese: Girolamo Mariani, classe 1777, di nazionalità còrsa. Nonno materno di Andrea, era a capo dell’ultimo drappello di cavalleggeri granducali alloggiati nel castello costruito ai tempi di Cosimo I. Mariani e Maestracci erano le famiglie corse immigrate, strettamente imparentate tra loro, sulle quali non dispero di riuscire a trovare più precisi collegamenti con l’isola di origine.

Giovanni Niccolini (‘Piciullo’) con la bici alla sua baracca sull’Arno, in zona Ponte del Mocarini.

Tornando alla quiete dell’entroterra toscano, sempre dal lato paterno c’è mia nonna Tea Niccolini (ma si firmava Théa per vezzo), un tesoro di donna nata a Terranuova Bracciolini nel 1898. Essendo dicembrina, trovava ragionevole ringiovanirsi di qualche settimana dichiarando un anno solare in meno. Ma anche così, le sarebbe rimasto addosso il puzzo d’Ottocento (sua la definizione), quindi con disinvoltura di anni se ne levava due. Donna a suo modo moderna, mediocre ai fornelli ma provetta nel crawl, che aveva imparato da giovane nell’acqua fangosa dell’Arno. Si diplomò all’Accademia di Belle Arti e per la vita si dette alla miniatura, sotto la guida di sua zia Maria Niccolini che aveva fatto da apri-pista a Firenze trent’anni prima. Erano rispettivamente figlia e sorella di Giovanni: un fornaio del 1870 che tradì una dinastia di poveri calzolai vissuti per almeno cinque generazioni al riparo delle mura terranuovesi, fin da un altro Giovanni del primo Settecento. ‘Piciullo’ il loro soprannome, tramandato di padre in figlio qualsiasi fosse il vero nome (spesso: Tito). Ma è la mamma della Tea che ora interessa, su cui io sapevo pochissimo perché morì giovane: Pia, dei Franciolini di piazza Santa Felicita, finora l’unico pezzo genuinamente fiorentino di questa storia. Penso che fossero loro ad ospitare Tea negli anni dell’Accademia, e da ciò il legame con suo zio Raffaello Franciolini. Proprio zio non era ma quasi, a quanto vedo rovistando nel Portale. Estroso personaggio, commerciante di cappelli e chincaglierie, si fece costruire dal Coppedè la palazzina liberty sull’angolo di via Giotto, casa e laboratorio. Sposò una Borrani nipote dell’omonimo pittore (ma non quella che piaceva a lui, la sorella Elettra) e la portò a vivere in via della Cernaia accanto ai Pineider… e qui inizierebbe un altro immenso groviglio di parentele acquisite che non saprei a parole come gestire.

Cerco quindi di chiudere il cerchio con la mia famiglia materna: da una parte il nonno Mario Paoletti, chimico nelle industrie tessili di Prato ma soprattutto eccellente fotografo. Figlio di Flaminio, ispettore scolastico giunto a Firenze da una famiglia contadina della campagna pisana, zona di San Benedetto a Settimo nei pressi di Cascina. Anche nel suo caso, fu per attrazione della meteora di Firenze capitale? Sui registri di San Benedetto risalgo indietro zoppicando per un paio di generazioni, poi ci sono problemi di archiviazione dei files che non ho ancora capito come affrontare. 

Pia Franciolini in una miniatura fatta da sua cognata Maria Niccolini.
Fiorenza Frascani (anni 1940).

Su mia nonna Fiorenza (nonna Enza o zia Flò, a seconda dei punti di vista) incombe invece una famigliona di quelle toste: i Frascani, originari di San Casciano Val di Pesa. Con una serie di notai, giudici e camerlenghi, ti fanno arrivare senza batter ciglio fino a un Bartolomeo di Filippo, di metà Seicento. Con Francesco vi fu l’immigrazione a Firenze, dopo la laurea in Medicina a Pisa nel 1815. Residenza: nell’allora via del Cocomero, accanto all’omonimo teatro (il Niccolini di oggi). “Medico in Firenze popolarissimo”, lo definì Ferdinando Martini, fu assiduamente al lazzeretto fiorentino durante l’epidemia di tifo del 1817 e durante quelle di colera del 1835 e 1855 (Paoli 1874, Cenno biografico del dott. Francesco Frascani letto davanti al feretro nella cattedrale fiorentina il 5 febbraio 1874). Padre di prole numerosa e altrettanto prolifica, ebbe per moglie dapprima la pisana Eleonora Pellegrini, poi una modista di via Calzaioli, alla cui ultima figlia, Clementina Frascani, fece sposare il figlio del fratello di Eleonora, Giuseppe Pellegrini. Con buona pace delle regole sulla consanguineità, visto che ne nacque Giulia, da cui questa storia è partita: futura moglie di Gino, nipote diretto dello stesso Francesco e di Eleonora in quanto figlio di Ranieri Frascani (smooth operator di giorno alle Dogane, ma di sera attore “amabile e disinvolto” al Cocomero). Gino Frascani fu un bravo ostetrico, come suo cugino Vittorio, noto sindaco di Pisa e massone omaggiato anche del nome di una via nel quartiere di Pisanova. Gino invece è stato recentemente riesumato alle cronache non per le proprie doti mediche (suo l’opuscolo intitolato “Donna, partorirai senza dolore”), né per aver costruito l’ospedale ginecologico per ragazze madri del Salviatino, ormai fatiscente nelle esilaranti riprese del cult “Amici miei” di Monicelli. Bensì per aver ospitato decine di ebrei in fuga nella sua Villa Primavera, come si apprende dal blog di Richard Brook/Bruch.

Giulia Pellegrini in giardino al Salviatino.

Ancora memore della bontà del latte appena munto dalle ultime discendenti dell’esercito di mucche con cui Gino cinquant’anni prima alimentava i pargoli del suo ospedalino, non mi resta che ringraziare Carole Vaillant, lontana parente francese di cui ignoravo l’esistenza, spuntata all’improvviso dai meandri di Geneanet. Con grande pazienza aveva già ricostruito buona parte della saga dei Frascani. E’ lei che mi ha fatto conoscere il Portale Antenati e quello dei battesimi di Santa Maria del Fiore.

Mi chiamo Alberto Del Fra, vivo a Roma, ho il desiderio di lasciare ai miei figli e ai miei nipoti memoria dei nostri antenati, coloro che ci hanno trasmesso ciò che fa di noi ciò che siamo oggi.

Un anno fa ho avuto notizia da un mio amico dell’esistenza del Portale Antenati e da quel momento mi sono buttato a capofitto in un’avventura che giudico entusiasmante.

Il Portale mi ha fatto entrare in un mondo lontano, del quale avevo conoscenza solo dai libri di storia.

Com’è noto, la storia si avvale di documenti, attraverso i quali si ricostruiscono gli avvenimenti. Così è stato per me spulciando le iscrizioni di nascite, morti e matrimoni dei miei avi. Documenti in apparenza freddi e burocratici, che in realtà mi hanno fatto scoprire storie di caduta e di riscatto, liete e drammatiche dei miei avi, insieme al contesto generale nel quale essi sono vissuti.

Il paese d’origine dei Del Fra, per quanto ne sapevo, era Vasto (un paese del Chietino) in Abruzzo, quello della famiglia De Mauro di mia madre era Manfredonia in Puglia. Dalla conoscenza dei nomi dei miei nonni paterni, ho cominciato a cercare notizie negli archivi anagrafici di Vasto, ciò mi ha aperto un mondo. Ho trovato i miei bisnonni e poi i trisavoli, i quadrisavoli, i pentavoli, alcuni esavoli.

Credo di aver spulciato migliaia di documenti e al di là delle notizie trovate sui miei avi, mi si è presentato un quadro generale dei centri rurali del meridione, coerente con quanto narrato dai libri di storia.

I nostri avi maschi erano in gran parte braccianti, chiamati bracciali e contadini analfabeti, come si evince dalla dichiarazione dell’ufficiale anagrafico in calce a quasi tutti i documenti.

Dichiarazione di analfabetismo
 Dichiarazione di analfabetismo

C’erano anche alcuni artigiani (calzolai, barbieri, sarti etc.), anch’essi spesso analfabeti, e pochissime persone abbienti, che avevano diritto al titolo di don nei documenti anagrafici.

Le ave erano invece casalinghe, tessitrici, cucitrici, anche contadine. Le mogli dei don avevano diritto al titolo di donna.

Nei matrimoni erano necessari i consensi dei padri degli sposi o, in caso di morte degli stessi, dei nonni paterni. Solo se morti anch’essi, il consenso veniva dato dalle madri. Un chiaro indizio di sistema patriarcale.

Impressionante la mortalità infantile: i registri dei morti sono colmi di nomi di bambini di pochi anni e talvolta di pochi giorni. Questo portava a un fenomeno curioso: la ripetizione dei nomi. Per esempio nasceva un bambino di nome Francesco che moriva presto. Il successivo nato veniva chiamato di nuovo Francesco. In vari casi ho trovato ben tre fratelli con lo stesso nome. Tra l’altro ho scoperto una cosa che probabilmente nemmeno mio padre sapeva: era il secondo Ettore della famiglia.

Evidentemente le scarse condizioni igienico/sanitarie e la mancanza di farmaci efficaci facilitavano la mortalità infantile.

Ovviamente anche l’indice di natalità era altissimo. Non era raro arrivare a un numero di figli in doppia cifra, fenomeno presente anche tra i miei avi.

Piuttosto rimarchevole era il fenomeno dei trovatelli, indicati come proietti. Chi li presentava all’ufficiale anagrafico era spesso la levatrice del paese.

C’era anche qualche ragazza che presentava un proprio figlio naturale, scegliendo coraggiosamente di allevare un figlio in una società che l’avrebbe tenuta al margine.

Un caso di questo genere capitò anche tra i miei antenati e merita un racconto. Una certa Carolina Di Guglielmo, cucitrice, ha una figlia naturale che chiama Maria alla quale insegna il suo mestiere. Probabilmente Maria non poteva essere considerata un buon partito. Un mio bisnonno Giovan Battista Del Fra, calzolaio, mestiere ereditato dal nonno paterno, lascia il suo luogo di nascita Tufo (un paese dell’Aquilano), il vero luogo d’origine dei Del Fra, per trasferirsi a Vasto. Compie un trasferimento inusuale per quei tempi, data la distanza ragguardevole tra le due località. Pure lui ha un marchio disonorevole: è figlio di un contrabbandiere ucciso dalle guardie doganali.

L’unione di queste due persone sfortunate porta a una famiglia che vive dignitosamente. Evidentemente Maria è una brava cucitrice e Giovanbattista un valente calzolaio, come si desume dalla firma in calce all’atto del matrimonio non era analfabeta, visto che danno una buona condizione ai figli maschi, in particolare a mio nonno Pasquale.

Pasquale infatti mette su una caffetteria e riesce a far diplomare tutti i figli maschi e a laurearne uno. Naturalmente le figlie femmine non sono messe nelle stesse condizioni. Queste ultime notizie provengono da una conoscenza diretta dei miei zii.

In definitiva quella dei Del Fra è una storia di riscatto a lieto fine.

Per quanto riguarda le vicende dei De Mauro la famiglia di mia madre. Già nella prima metà del ‘700 sono padroni di mulini a Manfredonia. Si capisce che la loro fortuna va crescendo col tempo. Evidentemente, pur non essendo don, erano considerati dei buoni partiti, si uniscono con varie famiglie di don, quella dei Rizzi di Manfredonia e quelle dei Garamone e dei Rosati, provenienti da altri paesi della Puglia.

Un personaggio che merita una menzione particolare è Pietro Rizzi (1814-1897), farmacista di Manfredonia, mio trisavolo, personaggio di cui spesso mi parlava mia madre. Egli per un periodo doveva darsi alla latitanza poiché giudicato sovversivo dal regime borbonico. Questo però non gli impedirà di tornare spesso di nascosto a casa, mettendo regolarmente incinta sua moglie, sposata pochi mesi prima dalla nascita del primogenito.

Pietro Rizzi

Pietro Rizzi fu assolto in tribunale. Pare che una testimonianza a carico di Pietro sia quella del curato del paese, che racconta di discorsi sovversivi fatti dal trisavolo nella sua farmacia. L’avvocato dice all’usciere di far entrare il parroco. L’usciere torna dicendo che il prete alla sua chiamata non ha risposto. E allora è gioco facile per l’avvocato: Signor giudice, come può il parroco affermare di aver udito discorsi sovversivi se è sordo?

Poi, però, come testimoniano i documenti anagrafici, avviene la diaspora dei De Mauro da Manfredonia. Ci sono degli atti di nascita e di morte che li riguardano in altri paesi della Puglia, ma non sarebbero stati sufficienti a farmi avere un quadro comprensibile, se non avessi conosciuto direttamente da mia madre i fatti essenziali. Il mio bisnonno Francesco Paolo De Mauro avalla per un amico una cambiale di importo notevolissimo. L’amico non la onora e il bisnonno deve vendere tutto, compreso il palazzo in cui abita, trasferendosi a Cerignola. Il figlio Leonida, elettrotecnico, per trovare lavoro emigra a Milano con i figli tra cui mia madre.

Francesco Paolo De Mauro

Seguono purtroppo sciagure di tutti i tipi. Muoiono in rapida successione Leonida (di spagnola), mentre la moglie Nunzia e tutti i fratelli e le sorelle di mia madre, moriranno a causa di varie malattie. Mia madre a Milano incontra mio padre, trasferitosi là da Vasto come bancario. Pensate che io non ho mai conosciuto un parente di mia madre.

Alla fine ho individuato 59 cognomi diversi dei miei avi.

A proposito di cognomi, va osservato che talvolta cambiano col passare del tempo. Per esempio all’inizio trovo il cognome Del Frà e non Del Fra, in genere nella prima metà del secolo XIX i Di o i Del all’inizio dei cognomi sono scritti con la minuscola, poi l’uso cambia. Analogamente di Mauro è diventato De Mauro, di Guglielmo si è mutato in De Guglielmo. Sovente cambiano le finali dei cognomi: per esempio Annecchino che muta in Annecchini.

Lo stesso succede per i nomi: una Rosanna all’atto di nascita diventa Rosaria al matrimonio e alla morte. Il Giovan Battista già ricordato, al matrimonio è Giovanni, alla morte Giovanni Battista. 

Forse perché le nascite e le morti venivano trascritte avvalendosi solo di testimonianze orali di persone spesso analfabete che parlavano in dialetto, con conseguente possibilità di equivoci con l’ufficiale anagrafico.

Poiché la mia ricerca mi ha portato a consultare una miriade di registri anagrafici di vari paesi dell’Abruzzo e della Puglia, ho potuto osservare come in ogni località si ripetano sempre gli stessi cognomi, differenti però da paese a paese. Un fatto che testimonia come quelle comunità fossero piuttosto chiuse, con rari spostamenti o comunque limitati a località vicine. Il nostro Francesco Del Fra, con il trasferimento da Tufo a Vasto, è l’eccezione che conferma la regola.

Questa mancanza quasi totale di mobilità mi ha senz’altro facilitato il compito: quasi tutti i miei antenati sono nati, si sono sposati e sono morti nello stesso posto. In tal caso è bastato quindi scorrere i registri di una sola località per ricostruire la loro storia.

Dall’inizio del ‘900 in poi una tale ricerca sarebbe molto più complicata: per esempio mio padre e i suoi fratelli si sono tutti allontanati dal luogo di origine, andando ad abitare in grandi centri. Termino con l’auspicio che il progetto del Portale continui ad essere alimentato con la pubblicazione di nuovi registri e con un ringraziamento di cuore a tutti coloro che vi collaborano.

Ritratto di Giacomo Schirone del 1922

Il racconto riguarda una figura di famiglia: Giacomo Schirone, uno dei due fratelli del nonno paterno, dunque zio di mio padre, che si chiamava come lui. Nato nel 1900 (ma i documenti indicano la data del 21 gennaio 1901) fu sempre socialista; perseguitato dal fascismo, esule in Francia, combattente in Spagna, antifascista nel dopoguerra e fino alla fine. Come filosofia di vita, fu anticlericale e razionalista.

Non è stato facile rimettere a posto tutti i tasselli di una vita pienamente vissuta in modo attivo e partecipe degli eventi azionali e internazionali, dagli anni giovanili fino alla fine. Tanti i dettagli d’archivio, gli appunti personali, i manoscritti, le tracce della sua ricca attività politica e culturale che, insieme, restituiscono corpo e voce a Giacomo, dignitosa figura di sarto barese, fine e accurato. Internazionalista per le idealità di tutta la vita, compagno di Nenni, combattente in Spagna (unico barese – documentato – che abbia partecipato alla Guerra Civile), punto di riferimento dei giovani di Bari, Milano, Marsiglia.

Cultore di eleganza anche da partigiano.

È una ricerca che vuol superare l’esposizione di una biografia affettiva per diventare memoria collettiva e far luce su una vicenda personale e fittamente intrecciata con la Storia del Novecento. Un esempio di vita, coerente e avventurosa.

Giacomo Schirone con Tommaso Fiore e Vincenzo Pinto sede ANPI

Nonostante lo scarso livello di scolarità, Giacomo coltiva una curiosità intellettuale dapprima verso il pensiero socialista, fino a scelte politiche che misero più volte a repentaglio la sua vita e l’incolumità di chi gli era accanto. Da qui la decisione di partire (era la notte di ferragosto del 1923) clandestino, verso la Francia. Da Marsiglia poi la sua militanza lo porta alla scelta del combattente in Spagna, nelle Brigate Internazionali di Carlo Rosselli, al fianco di Nenni e Di Vittorio.

Aderisce alla nascita del Partito d’Azione; sempre in prima linea, lo troviamo sia al 1° Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale che nella ricostituzione della Camera del Lavoro (entrambi svoltisi a Bari nel gennaio 1944).

È presente nel tragico corteo del 28 luglio del ‘43 a Bari (strage di via Niccolò dell’Arca); massone per affinità con il pensiero razionale e di fratellanza; anticlericale fino alla fine: attraverso Giacomo veniamo a conoscere anche la vita degli esuli, nonché il pensiero di un grande razionalista spagnolo, Francisco Ferrer, che Giacomo poi divulgherà nella vita culturale barese del dopoguerra.

La sua vicenda, politica e umana, viene raccontata anche attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, compresi giornalisti che ne tracciarono un appassionato profilo all’indomani della scomparsa (16 settembre 1980).

Amedeo Ferrari e famiglia in occasione del suo 90° compleanno nel 2017

Alla morte di mio padre Amedeo Ferrari, all’età di 95 anni, da un cassetto è venuta fuori una foto dove lui era circondato da figli, nipoti e pronipoti e d’un tratto ho realizzato che con la sua scomparsa nessuno avrebbe più raccontato le vecchie storie di famiglia che sarebbero state presto dimenticate. Ho cercato di raccogliere informazioni sulla storia della famiglia, originaria di un piccolo paese dell’Abruzzo montano di nome Borrello e ora sparsa in varie città italiane, e di metterle per iscritto per poterle tramandare ai figli e ai nipoti.

Il materiale documentale e fotografico disponibile  era veramente scarso e le prime difficoltà si sono subito palesate nel costruire un albero genealogico attendibile: i dati erano discordanti tra loro a seconda della fonte orale di provenienza, inoltre molte caselle dell’albero restavano vuote.

Emidio Mariani

È a questo punto che mi sono imbattuto nel Portale Antenati e, utilizzando i vari registri, i singoli certificati di nascita, matrimonio e morte, quasi tutti i dati mancanti al mio albero genealogico sono diventati chiari e soprattutto disponibili. Da ogni singolo nominativo è stato possibile risalire ai genitori, al coniuge, ai figli e così via per tutto il periodo dell’800.

Senza la consultazione del Portale Antenati non avrei mai saputo che il mio bisnonno Emidio Mariani in realtà si chiamava Emilio Albino Mariani e grazie a questa precisazione è stato possibile consultare i relativi certificati e notare che egli si era sposato tre volte dopo essere rimasto vedovo.

A differenza di mio nonno Vincenzo Ferrari, emigrato in America e deceduto nel crollo di una miniera di ferro in Pennsylvania, del mio bisnonno materno Alfonso Evangelista non ero riuscito a trovare traccia tra gli emigranti pur essendo certo che egli avesse trascorso molti anni in Argentina.

Giuseppe Alfonso Evangelista con la moglie Carmela e i figli Salvina e Antonio, 1928

Dal Portale Antenati ho appreso che il nome esatto era Giuseppe Alfonso Evangelista e nella lista dei Passeggeri, che si imbarcarono da Napoli per Buenos Aires, il suo nominativo si trovava alla lettera G come Giuseppe Alfonso Evangelista. Se non avessi saputo, tramite il Portale Antenati, del secondo nome non l’avrei mai trovato.

Per far conoscere le storie più significative della famiglia narro la vicenda dello zio Arturo, di indole mite, il quale compì un singolare viaggio della speranza. Nel 1938, a 19 anni, fu chiamato al servizio di leva in qualità di fabbro per ferrare i muli del reparto artiglieria.

All’epoca la leva durava 24 mesi, ma allo scadere del secondo anno, nell’estate del 1940, l’Italia entrò in guerra e Arturo fu inviato a combattere in Jugoslavia, per circa tre anni. Il 10 settembre 1943, dopo l’armistizio di Cassibile, venne catturato dai soldati tedeschi e deportato in Germania al campo di concentramento di Buchenwald nel settore Stalag 5, non distante da Berlino.

Vincenzo Ferrari, foto da inviare alla famiglia in Italia, con il vestito preso a nolo dal fotografo polacco Krajeskj, Pittsburgh, Pennsylvania

Finalmente nel 1945 l’Armata Rossa arrivò anche a Buchenwald e i Sovietici liberarono tutti i prigionieri trasferendoli in Polonia e dopo altri sei mesi arrivarono a Innsbruck dove furono definitivamente liberati.

Arturo Ferrari durante il servizio militare di leva, 1939

Arturo con l’ennesimo treno percorse la linea ferroviaria che corre lungo la costa adriatica e finalmente trovò un passaggio su una vecchia Balilla lungo la strada della valle del fiume Sangro attraverso una distruzione che non aveva mai pensato potesse raggiungere quelle contrade tanto isolate. I ponti sul fiume erano stati distrutti e l’auto dovette avanzare lungo la sterrata che si arrampicava sui monti ma alla fine anche questa risultò interrotta a circa sette chilometri da Borrello.

Era tardo pomeriggio, Arturo sperava che la sua famiglia fosse stata risparmiata e a passo svelto, quasi di corsa si avviò verso il paese, era l’imbrunire quando raggiunse la località chiamata Piano del Verde, rallentò l’andatura e trasse un respiro di sollievo, i campi dei suoi familiari erano stati seminati: alcuni di loro erano ancora in vita e tra poco li avrebbe riabbracciati. Una follia durata sette anni.

Ritratto nuziale di Maria Barnaba e Agostino Scotto di Marco

Il padre di Anna Maria, Agostino Scotto di Marco, detto il “Comandante”, capitano di corvetta presso la marina militare, come si evince dalle pubblicazioni rintracciate sul portale Antenati dell’Archivio di Stato di Brindisi,  era la terza volta nella sua carriera che aveva come destinazione Brindisi. Aveva conosciuto parecchia gente del posto e gli era fraterno amico il figlio del Notaio Foscarini che, in ogni suo ritorno, lo cercava subito per trascorrere le ore libere dal servizio con lui mettendolo a giorno delle ultime novità: matrimoni, nascite, morti. Aveva un bel fisico asciutto ed era sempre vestito in maniera impeccabile sia in divisa che in borghese. Era un giovane Capitano di Corvetta molto ricercato dalle signore specialmente per il gioco del bridge al Circolo della Marina, tanto che, spesse volte, la sera doveva rifare la barba, che era nerissima e folta, per essere perfetto al tavolo da gioco.

Pubblicazione di matrimonio del 14 dicembre 1933

Una sera dei primi mesi del ’33, i due amici passeggiavano per il lungomare Regina Margherita di Brindisi quando il Comandante notò due signore che procedevano in senso opposto e si meravigliò, data la serata gelida e ventosa, del loro procedere lento dovuto probabilmente all’andatura della signora anziana. Era questa una persona che dimostrava una settantina d’anni; con un lungo vestito nero che sfiorava il selciato, calzava sulla fronte un cappello sempre nero di velluto. Il Comandante notò lo sfavillio di due brillanti  alle orecchie mentre, nell’insieme, la figura della signora era piuttosto dimessa. Non altrettanto quella della giovane figlia che apparve subito di una bellezza folgorante. Vestiva un cappotto di sartoria bordò e affondava il viso nel collo di astrakan per ripararsi dal vento.

La signora anziana era la signora Eleonora vedova del Dottore Barnaba, la ragazza l’ultima figlia della signora che molto colpì il Comandante tanto che chiese al Foscarini di informarsi perché forse potrebbe andare bene per lui. Nell’ultima destinazione precedente, a Messina, “aveva cercato moglie” e quasi concluso con una signorina di buona famiglia di quella città. Poi non se ne era fatto più niente ma Agostino, valutando la sua età, era entrato nell’ordine di idee di “mettere su famiglia”. Ora perché non a Brindisi? Conosceva, era conosciuto e stimato, quindi si poteva tentare.

Un mesetto dopo quella sera ventosa, di pomeriggio, ci fu la richiesta formale “per essere ricevuto, insieme al suo amico Foscarini, in casa Barnaba e chiedere in sposa la figlia Maria.” La signora Eleonora si riservò un pò di tempo per pensarci e, intanto, scrisse una lunga lettera, e non la solita cartolina postale settimanale, allo zio Angiolino, suo fratello prete, Cameriere Segreto di Sua Santità, per chiedere informazioni sul Comandante Agostino Scotto di Marco.

Maria Barnaba in costume tradizionale procidano

Seguì il fidanzamento e solo qualche stralcio qua e là è stato trovato per ricostruire quei mesi di vita di Maria e Agostino che pure dovettero essere ricchi di emozioni. Certamente, la giovane Maria fu affascinata dalle imprese del comandante, giri del mondo, imbarchi e scuole di Guerra anche fuori del Mediterraneo, campagne idrografiche e poi la grande guerra del 15–18 combattuta giovanissimo, la rovinosa caduta con il “Caproni” nel cielo di Restinco con relativa frattura della colonna vertebrale e degenza ospedaliera di un anno nell’Hotel Internazionale di Brindisi adibito ad ospedale per i casi più gravi.

A proposito di quel periodo, la madre di Anna Maria, Maria Barnaba, le raccontava un aneddoto capitato il quell’estate del ’33 in cui scoprì che Agostino aveva quasi quarant’anni e pensò che quasi quindici anni di differenza fra un uomo e una donna non erano importanti rispetto alla possibilità di vivere finalmente una vita libera di città in città lungo la penisola! Così iniziarono i preparativi per il matrimonio nella tarda estate del ’33 .

Ritratto nuziale insieme alla cugina Elena

Le sarte di Bologna prepararono il corredo personale e l’abito da sposa. Il corredo da casa fu rinfrescato e ammirato da Elvira, la sorella di Agostino, che  portò un costume tradizionale da procidana che la sposa Maria avrebbe indossato alla prima festa dei Misteri nell’isola in coincidenza con la Settimana Santa. Nel filo dei ricordi in un piccolo album di fotografie che porta la dicitura “Matrimonio di Agostino e Maria” rigorosamente in bianco e nero, posavano i  genitori di Anna Maria in quel lontano 28 Dicembre 1933. Lo sposo, in grande uniforme, con sciarpa, sciabola e cordelline, sfoggiava le numerose medaglie accumulate nella carriera. Spiccava la medaglia di bronzo, la Croce di guerra, quella dell’Ordine Mauriziano e tante altre che erediterà il suo figlio maggiore. Era bello il papà di Anna Maria!

Maria era la classica sposa degli anni trenta: quante ragazze sfoggiarono una cuffietta di fiori d’arancio in quegli anni, quanti abiti morbidi nella scollatura e nella silhouette, aveva visto Anna Maria nelle foto d’epoca. Splendido il fascio di rose bianche che Maria reggeva in mano. Il fotografo aveva posizionato, inoltre, una corbeille fiorita ai suoi piedi vicino ad una delle sedie del salotto buono. C’era la sua futura cuginetta Elena che reggeva la nuvola di velo da sposa. Anna Maria ricordava bene questa mite cugina che aveva seguito le orme della zia Elvira che adorava. Era molto riservata Elena e quel nome lo porterà la sorellina di Anna Maria che si spegnerà neonata nel ’38.

Gli invitati all’Hotel Internazionale di Brindisi

Anche nella foto scattata all’Hotel Internazionale è presente la piccola damigella davanti alla zia, dopo la cerimonia: è tanto simile alla sua zietta che ne sembra la figlia! Sfilano in questa foto a partire dalla sinistra della foto il giovane Foscarini, il marito di una cugina di sua madre e famiglia con i due figli piccoli che Anna Maria ricorda già vecchi. Le tre amiche care, una cugina di Mesagne, la zia Elvira, la cugina Elena, la nonna Eleonora, gli sposi, la signora Maria Merolla, le cugine Palmina e Fausta d’Erchia di Monopoli, l’Arciprete zio Florindo, il dottor Merolla. I coniugi Merolla, erano grandi amici della famiglia dello sposo, dai quali passavano l’intera estate a Procida per “passare le acque ischitane”. Napoletani veraci, pare conducessero una vita molto brillante nella loro città. La signora, appare qui in foto, carica di gioielli; porta appuntate sull’abito di velluto ben due spille e diventerà molto amica di Maria che sentirà come una seconda mamma.

Anna Maria Scotto di Marco all’età di 18 mesi

Dall’album dei ricordi, spunta quella della “Puparella“: è Anna Maria Scotto di Marco, la loro figlia e soprattutto mia madre.

Queste foto sono nitide, raccontano di vita, di avvenimenti, di persone che sono passate mentre le suppellettili, gli oggetti, mobili sopravvivono. Di loro rimane solo il ricordo, ma per quanto ancora?

Un attimo rispetto all’eternità, rispetto a questi quattro miliardi e mezzo di anni, da quando quel Sole continua a sorgere perfettamente ad Est nell’Equinozio di Autunno, un attimo del “Tempo dell’Uomo.”

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