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HomeStorie di famigliaItalia

Nazionalità: Italia

Ritratto di Giacomo Schirone del 1922

Il racconto riguarda una figura di famiglia: Giacomo Schirone, uno dei due fratelli del nonno paterno, dunque zio di mio padre, che si chiamava come lui. Nato nel 1900 (ma i documenti indicano la data del 21 gennaio 1901) fu sempre socialista; perseguitato dal fascismo, esule in Francia, combattente in Spagna, antifascista nel dopoguerra e fino alla fine. Come filosofia di vita, fu anticlericale e razionalista.

Non è stato facile rimettere a posto tutti i tasselli di una vita pienamente vissuta in modo attivo e partecipe degli eventi azionali e internazionali, dagli anni giovanili fino alla fine. Tanti i dettagli d’archivio, gli appunti personali, i manoscritti, le tracce della sua ricca attività politica e culturale che, insieme, restituiscono corpo e voce a Giacomo, dignitosa figura di sarto barese, fine e accurato. Internazionalista per le idealità di tutta la vita, compagno di Nenni, combattente in Spagna (unico barese – documentato – che abbia partecipato alla Guerra Civile), punto di riferimento dei giovani di Bari, Milano, Marsiglia.

Cultore di eleganza anche da partigiano.

È una ricerca che vuol superare l’esposizione di una biografia affettiva per diventare memoria collettiva e far luce su una vicenda personale e fittamente intrecciata con la Storia del Novecento. Un esempio di vita, coerente e avventurosa.

Giacomo Schirone con Tommaso Fiore e Vincenzo Pinto sede ANPI

Nonostante lo scarso livello di scolarità, Giacomo coltiva una curiosità intellettuale dapprima verso il pensiero socialista, fino a scelte politiche che misero più volte a repentaglio la sua vita e l’incolumità di chi gli era accanto. Da qui la decisione di partire (era la notte di ferragosto del 1923) clandestino, verso la Francia. Da Marsiglia poi la sua militanza lo porta alla scelta del combattente in Spagna, nelle Brigate Internazionali di Carlo Rosselli, al fianco di Nenni e Di Vittorio.

Aderisce alla nascita del Partito d’Azione; sempre in prima linea, lo troviamo sia al 1° Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale che nella ricostituzione della Camera del Lavoro (entrambi svoltisi a Bari nel gennaio 1944).

È presente nel tragico corteo del 28 luglio del ‘43 a Bari (strage di via Niccolò dell’Arca); massone per affinità con il pensiero razionale e di fratellanza; anticlericale fino alla fine: attraverso Giacomo veniamo a conoscere anche la vita degli esuli, nonché il pensiero di un grande razionalista spagnolo, Francisco Ferrer, che Giacomo poi divulgherà nella vita culturale barese del dopoguerra.

La sua vicenda, politica e umana, viene raccontata anche attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, compresi giornalisti che ne tracciarono un appassionato profilo all’indomani della scomparsa (16 settembre 1980).

Amedeo Ferrari e famiglia in occasione del suo 90° compleanno nel 2017

Alla morte di mio padre Amedeo Ferrari, all’età di 95 anni, da un cassetto è venuta fuori una foto dove lui era circondato da figli, nipoti e pronipoti e d’un tratto ho realizzato che con la sua scomparsa nessuno avrebbe più raccontato le vecchie storie di famiglia che sarebbero state presto dimenticate. Ho cercato di raccogliere informazioni sulla storia della famiglia, originaria di un piccolo paese dell’Abruzzo montano di nome Borrello e ora sparsa in varie città italiane, e di metterle per iscritto per poterle tramandare ai figli e ai nipoti.

Il materiale documentale e fotografico disponibile  era veramente scarso e le prime difficoltà si sono subito palesate nel costruire un albero genealogico attendibile: i dati erano discordanti tra loro a seconda della fonte orale di provenienza, inoltre molte caselle dell’albero restavano vuote.

Emidio Mariani

È a questo punto che mi sono imbattuto nel Portale Antenati e, utilizzando i vari registri, i singoli certificati di nascita, matrimonio e morte, quasi tutti i dati mancanti al mio albero genealogico sono diventati chiari e soprattutto disponibili. Da ogni singolo nominativo è stato possibile risalire ai genitori, al coniuge, ai figli e così via per tutto il periodo dell’800.

Senza la consultazione del Portale Antenati non avrei mai saputo che il mio bisnonno Emidio Mariani in realtà si chiamava Emilio Albino Mariani e grazie a questa precisazione è stato possibile consultare i relativi certificati e notare che egli si era sposato tre volte dopo essere rimasto vedovo.

A differenza di mio nonno Vincenzo Ferrari, emigrato in America e deceduto nel crollo di una miniera di ferro in Pennsylvania, del mio bisnonno materno Alfonso Evangelista non ero riuscito a trovare traccia tra gli emigranti pur essendo certo che egli avesse trascorso molti anni in Argentina.

Giuseppe Alfonso Evangelista con la moglie Carmela e i figli Salvina e Antonio, 1928

Dal Portale Antenati ho appreso che il nome esatto era Giuseppe Alfonso Evangelista e nella lista dei Passeggeri, che si imbarcarono da Napoli per Buenos Aires, il suo nominativo si trovava alla lettera G come Giuseppe Alfonso Evangelista. Se non avessi saputo, tramite il Portale Antenati, del secondo nome non l’avrei mai trovato.

Per far conoscere le storie più significative della famiglia narro la vicenda dello zio Arturo, di indole mite, il quale compì un singolare viaggio della speranza. Nel 1938, a 19 anni, fu chiamato al servizio di leva in qualità di fabbro per ferrare i muli del reparto artiglieria.

All’epoca la leva durava 24 mesi, ma allo scadere del secondo anno, nell’estate del 1940, l’Italia entrò in guerra e Arturo fu inviato a combattere in Jugoslavia, per circa tre anni. Il 10 settembre 1943, dopo l’armistizio di Cassibile, venne catturato dai soldati tedeschi e deportato in Germania al campo di concentramento di Buchenwald nel settore Stalag 5, non distante da Berlino.

Vincenzo Ferrari, foto da inviare alla famiglia in Italia, con il vestito preso a nolo dal fotografo polacco Krajeskj, Pittsburgh, Pennsylvania

Finalmente nel 1945 l’Armata Rossa arrivò anche a Buchenwald e i Sovietici liberarono tutti i prigionieri trasferendoli in Polonia e dopo altri sei mesi arrivarono a Innsbruck dove furono definitivamente liberati.

Arturo Ferrari durante il servizio militare di leva, 1939

Arturo con l’ennesimo treno percorse la linea ferroviaria che corre lungo la costa adriatica e finalmente trovò un passaggio su una vecchia Balilla lungo la strada della valle del fiume Sangro attraverso una distruzione che non aveva mai pensato potesse raggiungere quelle contrade tanto isolate. I ponti sul fiume erano stati distrutti e l’auto dovette avanzare lungo la sterrata che si arrampicava sui monti ma alla fine anche questa risultò interrotta a circa sette chilometri da Borrello.

Era tardo pomeriggio, Arturo sperava che la sua famiglia fosse stata risparmiata e a passo svelto, quasi di corsa si avviò verso il paese, era l’imbrunire quando raggiunse la località chiamata Piano del Verde, rallentò l’andatura e trasse un respiro di sollievo, i campi dei suoi familiari erano stati seminati: alcuni di loro erano ancora in vita e tra poco li avrebbe riabbracciati. Una follia durata sette anni.

Ritratto nuziale di Maria Barnaba e Agostino Scotto di Marco

Il padre di Anna Maria, Agostino Scotto di Marco, detto il “Comandante”, capitano di corvetta presso la marina militare, come si evince dalle pubblicazioni rintracciate sul portale Antenati dell’Archivio di Stato di Brindisi,  era la terza volta nella sua carriera che aveva come destinazione Brindisi. Aveva conosciuto parecchia gente del posto e gli era fraterno amico il figlio del Notaio Foscarini che, in ogni suo ritorno, lo cercava subito per trascorrere le ore libere dal servizio con lui mettendolo a giorno delle ultime novità: matrimoni, nascite, morti. Aveva un bel fisico asciutto ed era sempre vestito in maniera impeccabile sia in divisa che in borghese. Era un giovane Capitano di Corvetta molto ricercato dalle signore specialmente per il gioco del bridge al Circolo della Marina, tanto che, spesse volte, la sera doveva rifare la barba, che era nerissima e folta, per essere perfetto al tavolo da gioco.

Pubblicazione di matrimonio del 14 dicembre 1933

Una sera dei primi mesi del ’33, i due amici passeggiavano per il lungomare Regina Margherita di Brindisi quando il Comandante notò due signore che procedevano in senso opposto e si meravigliò, data la serata gelida e ventosa, del loro procedere lento dovuto probabilmente all’andatura della signora anziana. Era questa una persona che dimostrava una settantina d’anni; con un lungo vestito nero che sfiorava il selciato, calzava sulla fronte un cappello sempre nero di velluto. Il Comandante notò lo sfavillio di due brillanti  alle orecchie mentre, nell’insieme, la figura della signora era piuttosto dimessa. Non altrettanto quella della giovane figlia che apparve subito di una bellezza folgorante. Vestiva un cappotto di sartoria bordò e affondava il viso nel collo di astrakan per ripararsi dal vento.

La signora anziana era la signora Eleonora vedova del Dottore Barnaba, la ragazza l’ultima figlia della signora che molto colpì il Comandante tanto che chiese al Foscarini di informarsi perché forse potrebbe andare bene per lui. Nell’ultima destinazione precedente, a Messina, “aveva cercato moglie” e quasi concluso con una signorina di buona famiglia di quella città. Poi non se ne era fatto più niente ma Agostino, valutando la sua età, era entrato nell’ordine di idee di “mettere su famiglia”. Ora perché non a Brindisi? Conosceva, era conosciuto e stimato, quindi si poteva tentare.

Un mesetto dopo quella sera ventosa, di pomeriggio, ci fu la richiesta formale “per essere ricevuto, insieme al suo amico Foscarini, in casa Barnaba e chiedere in sposa la figlia Maria.” La signora Eleonora si riservò un pò di tempo per pensarci e, intanto, scrisse una lunga lettera, e non la solita cartolina postale settimanale, allo zio Angiolino, suo fratello prete, Cameriere Segreto di Sua Santità, per chiedere informazioni sul Comandante Agostino Scotto di Marco.

Maria Barnaba in costume tradizionale procidano

Seguì il fidanzamento e solo qualche stralcio qua e là è stato trovato per ricostruire quei mesi di vita di Maria e Agostino che pure dovettero essere ricchi di emozioni. Certamente, la giovane Maria fu affascinata dalle imprese del comandante, giri del mondo, imbarchi e scuole di Guerra anche fuori del Mediterraneo, campagne idrografiche e poi la grande guerra del 15–18 combattuta giovanissimo, la rovinosa caduta con il “Caproni” nel cielo di Restinco con relativa frattura della colonna vertebrale e degenza ospedaliera di un anno nell’Hotel Internazionale di Brindisi adibito ad ospedale per i casi più gravi.

A proposito di quel periodo, la madre di Anna Maria, Maria Barnaba, le raccontava un aneddoto capitato il quell’estate del ’33 in cui scoprì che Agostino aveva quasi quarant’anni e pensò che quasi quindici anni di differenza fra un uomo e una donna non erano importanti rispetto alla possibilità di vivere finalmente una vita libera di città in città lungo la penisola! Così iniziarono i preparativi per il matrimonio nella tarda estate del ’33 .

Ritratto nuziale insieme alla cugina Elena

Le sarte di Bologna prepararono il corredo personale e l’abito da sposa. Il corredo da casa fu rinfrescato e ammirato da Elvira, la sorella di Agostino, che  portò un costume tradizionale da procidana che la sposa Maria avrebbe indossato alla prima festa dei Misteri nell’isola in coincidenza con la Settimana Santa. Nel filo dei ricordi in un piccolo album di fotografie che porta la dicitura “Matrimonio di Agostino e Maria” rigorosamente in bianco e nero, posavano i  genitori di Anna Maria in quel lontano 28 Dicembre 1933. Lo sposo, in grande uniforme, con sciarpa, sciabola e cordelline, sfoggiava le numerose medaglie accumulate nella carriera. Spiccava la medaglia di bronzo, la Croce di guerra, quella dell’Ordine Mauriziano e tante altre che erediterà il suo figlio maggiore. Era bello il papà di Anna Maria!

Maria era la classica sposa degli anni trenta: quante ragazze sfoggiarono una cuffietta di fiori d’arancio in quegli anni, quanti abiti morbidi nella scollatura e nella silhouette, aveva visto Anna Maria nelle foto d’epoca. Splendido il fascio di rose bianche che Maria reggeva in mano. Il fotografo aveva posizionato, inoltre, una corbeille fiorita ai suoi piedi vicino ad una delle sedie del salotto buono. C’era la sua futura cuginetta Elena che reggeva la nuvola di velo da sposa. Anna Maria ricordava bene questa mite cugina che aveva seguito le orme della zia Elvira che adorava. Era molto riservata Elena e quel nome lo porterà la sorellina di Anna Maria che si spegnerà neonata nel ’38.

Gli invitati all’Hotel Internazionale di Brindisi

Anche nella foto scattata all’Hotel Internazionale è presente la piccola damigella davanti alla zia, dopo la cerimonia: è tanto simile alla sua zietta che ne sembra la figlia! Sfilano in questa foto a partire dalla sinistra della foto il giovane Foscarini, il marito di una cugina di sua madre e famiglia con i due figli piccoli che Anna Maria ricorda già vecchi. Le tre amiche care, una cugina di Mesagne, la zia Elvira, la cugina Elena, la nonna Eleonora, gli sposi, la signora Maria Merolla, le cugine Palmina e Fausta d’Erchia di Monopoli, l’Arciprete zio Florindo, il dottor Merolla. I coniugi Merolla, erano grandi amici della famiglia dello sposo, dai quali passavano l’intera estate a Procida per “passare le acque ischitane”. Napoletani veraci, pare conducessero una vita molto brillante nella loro città. La signora, appare qui in foto, carica di gioielli; porta appuntate sull’abito di velluto ben due spille e diventerà molto amica di Maria che sentirà come una seconda mamma.

Anna Maria Scotto di Marco all’età di 18 mesi

Dall’album dei ricordi, spunta quella della “Puparella“: è Anna Maria Scotto di Marco, la loro figlia e soprattutto mia madre.

Queste foto sono nitide, raccontano di vita, di avvenimenti, di persone che sono passate mentre le suppellettili, gli oggetti, mobili sopravvivono. Di loro rimane solo il ricordo, ma per quanto ancora?

Un attimo rispetto all’eternità, rispetto a questi quattro miliardi e mezzo di anni, da quando quel Sole continua a sorgere perfettamente ad Est nell’Equinozio di Autunno, un attimo del “Tempo dell’Uomo.”

Il territorio di Prato alla metà del 1500.

Periodo Pratese tra la prima metà del 1500 alla prima metà del 1700
I libri dei battesimi cinquecenteschi di S. Pietro a Iolo fanno supporre che il ceppo primigenio dei Bettazzi, fosse collocato nella località Casale da cui si espanse nel territorio delimitato in rosso. Nelle prime generazioni, i nomi ricorrenti erano Bartolomeo e Bernardo in due linee separate, ma ambedue convergenti a Casale. Il mio capostipite è Bartolomeo Bettazzi nato intorno al 1530. Il figlio Alessandro, che ebbe Domenico lo troviamo a Vergaio . Antonio figlio di Domenico si trasferì a Montemurlo e sposò Maria Cirri, Il loro figlio Bartolomeo sopravvisse alla epidemia di peste del 1620. Giovanni, figlio di Bartolomeo sposa Margareta Filippi di S. Giusto Piazzanese. La famiglia nel 1683 è presente a Galciana e dal 1700 a S. Maria in Capezzana. Giovanni probabilmente non era contadino avendo affittato “una casa con villa” come riportato dallo stato delle anime del 1698. Intorno al 1700 i Bettazzi del contado furono ammessi alla cittadinanza Pratese e quindi potevano aspirare a cariche pubbliche. Luigi, figlio di Giovanni si trasferì, intorno al 1720 in S. Giusto in Piazzanese. Pellegrino di Luigi, forse al seguito di qualche nobile, si trasferì a Siena tra il 1740 ed il 1760.

Periodo senese dalla prima metà del 1700 al 1850
Pellegrino è il primo Bettazzi che sicuramente è vissuto in Siena dal 1764 come attesta la registrazione del battesimo della figlia M. Francesca. Lo stesso documento riporta la cittadinanza Pratese di Pellegrino permettendomi di risalire al periodo pratese. Pellegrino aveva un congiunto, probabilmente coetaneo, di nome Bernardo che rinchiuse Teresa, figlia naturale, nel convento della Madonna in Siena facendole prendere i voti religiosi. Nel 1767 la professione dichiarata di Pellegrino era servitore e cuoco ma successivamente diventa carajolo (fabbricante di carri). La moglie, Giovanna Masi è indicata come incannatrice di seta e filatrice a rocca. La prima residenza senese fu nella pieve di S. Giovanni Battista, successivamente in S. Martino. Nel 1790 scoppia la Rivoluzione Francese ed in seguito le guerre napoleoniche. In questo periodo la famiglia doveva aver raggiunto uno stato di benessere poiché nei primi anni del 1800 acquistò una casa in Via Costa dell’Abbadia. Giovanni di Pellegrino segue la professione del padre, sposa Maria Annunziata Baldesi di professione calzettaia. La famiglia Baldesi doveva appartenere all’alta borghesia senese poichè i nobili Orazio e Ferdinando Ballati Nerli, Flavio Chigi e Ansano Zondadari furono padrini di battesimo del padre e degli zii. Pirro, ultimo nato della coppia, prosegue la professione di carrozzaio, sposa Caterina Bruni, tessitrice di panni.

Da Siena a Livorno
Giovanni figlio di Pirro, Inizia a fare il carajolo, poi entra nelle Ferrovie come manovale successivamente manutentore ed infine impiegato e pensionato. Si sposa, con la senese Adele Vannini di professione tessitrice. Probabilmente per lavoro a Livorno, tra il 1886 ed il 1888, Giovanni si innamora ed è ricambiato dalla livornese Maria Luisa Berzolese (Versolesi). Maria Luisa aveva sposato, in gioventù, Egisto di professione vetturino. Le cose non dovevano andare bene se Egisto emigrò in Francia dal 1885 al 1887.

Gli anni del periodo di Bagni di Lucca

Da Livorno a Roma e la nascita dei Vessi
Nel 1888 Giovanni e Maria Luisa sono a Roma. Nel 1889 nasce Guido, che non possono riconoscere essendo conviventi, per cui gli impongono il cognome di Vessi e lo adottano. Nel 1892, sempre a Roma hanno un altro figlio Armando. Nel 1893 viene inaugurata la stazione ferroviaria di Bagni di Lucca dove Giovanni si trasferirà con la nuova famiglia e presterà servizio per diversi anni (foto 2). A Livorno Egisto ha una compagna da cui nasce una figlia. Volendo emigrare, con la compagna e la figlia, deve riconoscerla. I rapporti tra i Maria Luisa ed Egisto devono essere stati civili poiché Maria Luisa riconosce come sua la figlia di Egisto e gliela affida. Nel 1894 Egisto è in Brasile, alle immigrazione dichiarò di essere celibe ma muore pochi anni dopo. Essendo celibe non viene comunicata la morte al Consolato italiano per cui Maria Luisa non seppe mai di essere diventata vedova. Nel 1906 la famiglia è a Roma dove Guido fa il servizio di leva. Richiamato nella guerra 1915-1918 lavora nelle retrovie nel genio automobilistico. Nel 1909 Guido sposa Marianna Di Pietropoaolo che muore nel 1913. Poco prima della fine della I guerra mondiale Guido sposa Zaira de Dominicis. Nei primi anni ‘20 Guido apre una officina di riparazione di motori diesel. Successivamente amplia la propria attività in altri settori. Guido e Zaira non avendo figli si prendono cura di Lidia, nipote di Zaira, rimasta orfana. Lidia avrà un figlio Guido che gestirà un chiosco di fiori sul lungotevere, verrà assassinato ed il corpo gettato nel Tevere. Ignoti gli esecutori ed il movente. Nel 1943 Guido Vessi si innamora, e poi sposerà la fidentina Bice Mambriani che abitava nella “porta accanto”. Guido e Bice sono i miei genitori.

Ringraziamenti
Gli archivi online del Portale Antenati del Ministro cultura
Elena Bertelli, Ezio Papa – Stato Civile Comune di Livorno
Don Aldo Lettieri, Daniela Liberatori – Archivio arcivescovile di Siena
Orlando Papei – Il palio.org
Filippo Pozzi – Stato civile Comune di Siena
Claudio Bartalozzi – Archivio storico comune di Siena
Virginia Barni – Archivio di Stato di Prato
Monica Cecchi – Archivio vescovile di Prato
Don Claudio Ticconi – Parrocchia S Matteo in Nave di Lucca
Carlotta Lenzi – Archivio Vescovile di Pistoia

Il bisnonno Vittore Bonaventura, a destra

Tante foto in bianco e nero, un cognome non comunissimo nella mia area di residenza e un programma scolastico del 1872-73 del mio trisavolo alimentarono la mia curiosità nello scoprire quali fossero le origini della mia famiglia. Cominciai dai registri dell’archivio comunale di San Vittore del Lazio (FR), paese d’origine di mio nonno. Il mio bisnonno Vittore nato nel 1883 a San Vittore del Lazio, dopo aver prestato servizio nella prima guerra mondiale ed essersi sposato con Giuseppina Coia di Cerasuolo, emigrò in Scozia dove aprì una serie di locali ancora oggi esistenti tra Glasgow e Millport, per poi tornare in Italia con mio nonno e i fratelli (tutti nati in Scozia) nel ’43, nel corso della guerra.

Suo padre (mio trisavolo) Bernardo Bonaventura, nato sempre a San Vittore del Lazio nel 1846, era un insegnante di scuola elementare di cui conservo ancora il succitato programma scolastico del 1872-73; si sposò molto tardi, a 45 anni, con Giuseppa Giampaoli, sanvittorese nata da Domenico Antonio Giampaoli (della cui provenienza non sono riuscito a trovare ulteriori notizie) e Carolina Verona (famiglia attestata a San Vittore dal XVIII secolo e con una serie di membri esercitanti la professione di “dottori fisici”, tra cui in ordine Tommaso Verona nato nel 1837, il padre Giovan Angelo nel 1827 e il nonno Luca).

La bisnonna Giuseppina Coia

Il mio quadrisavolo si chiamava Vittore e nacque nel 1809, sposando nel 1829 Laura Saroli sempre di San Vittore. Dai processetti matrimoniali presenti sul portale Antenati ho potuto constatare la sua professione: possidente terriero. Ciò si incrocia con quanto tramandato dalle storie di famiglia, secondo cui Vittore avrebbe rifornito le scuderie del Re Ferdinando II di cavalli.

Dai registri battesimali di San Vittore del Lazio emergeva poi il nome del padre di Vittore, Francesco Bonaventura, nato nel 1785 e sposato con Lucia Ferraro, di una famiglia napoletana. Il padre di Francesco era un notaio e, a ben vedere, fu il primo a nascere a San Vittore del Lazio. Difatti dai registri di battesimo, Andrea Vittore Bonaventura, nato nel 1761, si dice figlio di Romualdo Bonaventura da Gaeta (LT). Andrea Vittore, rispetto quanto emerso poi dai processetti matrimoniali presenti sul portale Antenati, sposò Maria Giuseppa Vittiglio di Cassino (al tempo ancora nominata San Germano), città dove si trasferì con il fratello Benedetto “pittore” ed esercitò la professione di notaio. Sempre dai processetti di Antenati è emersa recentemente anche la data della sua morte: 11 settembre 1801, sepolto nel cimitero di Sant’Antonio da Padova a Cassino.

Programma scolastico 1872-1873 con la firma di Bernardo Bonaventura

Del padre Romoaldo ancora poche informazioni sono emerse: nei processetti matrimoniali di Antenati era allegato il suo atto di morte del 14 agosto 1787 nella chiesa dell’Annunziata di Cassino. Qui viene ripetuta e confermata la sua provenienza gaetana e l’approssimativa età di morte, 55 anni; pertanto la nascita di Romoaldo andrà posta intorno al 1732. Sappiamo ancora poco sulla sua professione e sulle motivazioni che lo spinsero a spostarsi nel Basso Lazio, sebbene indizi possano derivare dalla qualifica di “Magnificus” ripetuta in tutti i documenti che lo riguardano. Spero di poter proseguire e approfondire la ricerca presso gli archivi gaetani per ottenere ulteriori risposte.

Ringrazio il portale Antenati per avermi dato la possibilità di precisare la mia ricerca e condividere la storia dei dei miei studi, nella speranza che possa risultare proficuo e di incoraggiamento per altri che vogliano ripetere lo stesso percorso.

Antonio Minopoli in divisa militare
Foglio militare di Antonio Minopoli

Fino ad oggi sapevo ben poco sull’esperienza di mio nonno Antonio durante la Seconda Guerra Mondiale. La curiosità di saperne di più sulla sua storia l’ho sempre avuta, ma soltanto adesso che sono vicino ai 40 anni ho sentito il bisogno di mettermi sulle sue tracce per saperne qualcosa di più.

Grazie al foglio matricolare inviatomi dall’ex archivio militare di Napoli, posso leggere i fatti realmente accaduti sulla sua vita militare. Nonno Antonio, classe 1916, nasce a Soccavo, in Via Contieri n. 11, questa è la casa dove cresce con i suoi genitori, papà Giovanni, mamma Anna, ed il fratello Vincenzo e la sorella Maria. Nonno Antonio sposa nonna Lucia e da coniugato si trasferisce prima in affitto in Via Paolo Grimaldi e poi definitivamente con tutta la famiglia nella casa da lui costruita in Via Verdolino.  Il 09 Aprile 1940 viene incorporato al 48° Reggimento Fanteria “Bari” che raggiungerà sempre nella città pugliese il 07 Maggio 1940 per poi diventare la 47° Divisione Bari. Dopo un periodo di addestramento s’imbarca per l’Albania il 28 Ottobre 1940 dal porto di Taranto ed il 02 Novembre 1940 sbarca a Valona in Albania.

Uno dei più sanguinosi sacrifici dell’esercito italiano nel corso della Seconda Guerra Mondiale si compie proprio in Albania, sulla quota 731 di Monastero, si trova a circa 20 chilometri a nord di Kleisoura. La quota 731 dopo una furiosa lotta viene conquistata dall’Italia, ma la reazione nemica si manifesta in modo talmente violenta che risulta impossibile mantenerla e deve essere abbandonata, soprattutto a causa del quasi totale annientamento degli occupanti italiani: nonno Antonio fu ferito gravemente ad un occhio da una scheggia di una bomba o granata il 13 Marzo 1940 sul fronte greco. Fu subito portato all’ospedale da campo di Berati, città che si trova lungo il confine in Albania. All’ospedale ci rimase circa un mese fino a quando non fu imbarcato dal porto di Valona per far rientro in Italia a Taranto con la nave ospedale Gradisca.

Antonio Minopoli e la sua famiglia

La lesione non lasciava nessuna forma di garanzia per la sua salute, il 31 Agosto 1941 il comando militare lo colloca in congedo assoluto e gli assegna la 7° Categoria di invalidità (alterazione organica ed irreparabile di un occhio, che ne riduce l’acutezza visiva fra 1/50 e 3/50 della normale).

Nonno finalmente non lascerà più la sua casa in Via Verdolino a Soccavo, e dal matrimonio con la sua Lucia sono nati otto meravigliosi figli: Giovanni, Vincenzo, Anna, Mario, Ciro, Assunta, Luigi ed infine mia mamma Pasqualina.

Incontro con zio Vincenzo Minopoli, 6 novembre 2021

L’incontro con Zio Vincenzo

Durante la mia attività di ricerca vengo a scoprire che il fratello di mio nonno Antonio, Zio Vincenzo, più piccolo di 8 anni è ancora in vita!

Per me tale notizia è una bomba, in quanto solo immaginare di vederlo mi sembrava quasi poter pensare di parlare con mio nonno.

Ho dovuto attendere molto, c’è stata la pandemia legata al Covid, ma alla fine ce l’ho fatta, il giorno 6 novembre del 2021 sono riuscito a incontrare Zio Vincenzo.

Grazie all’aiuto di mia Zia Anna, che mi ha fatto da gancio, un sabato mattina piovoso sono sceso a Napoli e ci siamo recati a casa del fratello di mio Nonno Antonio: l’incontro è stato breve ma ha superato ogni aspettativa.

Zio Vincenzo è una persona fantastica, a 97 anni è quasi completamente autonomo, si aiuta con un bastone per camminare, si prepara da mangiare da solo, ultimamente esce un po’ di meno per ovvi motivi ma parlare con lui è stata un’esperienza magnifica perché ho avuto il piacere di apprezzare la sua memoria di ferro.

Zio Vincenzo, mi accenna che durante la Seconda Guerra Mondiale, ha prestato servizio a Roma a Castel Gandolfo in una fureria militare, mi racconta nel dettaglio un bombardamento improvviso avvenuto una mattina da parte dell’aviazione tedesca per colpire il sito militare italiano dei castelli.

Di nonno Antonio mi dice solo che era un bravo fratello, un buono e che fu ferito gravemente in guerra portandone i segni per il resto della sua vita.

Bisnonno Giovanni Minopoli

Poi i racconti si spostano all’improvviso sul loro papà, il mio bisnonno Giovanni, mi fa vedere una sua foto e le medaglie, mi racconta che anche lui è stato un sopravvissuto della “Grande Guerra”, la Prima Guerra Mondiale. Mi disse che il mio Bisnonno, in quel dramma visse diverse sventure, su tutte, l’assenza di cibo e acqua, ma in particolare si trovò anche nella tragica decisione in cui ci si imbatteva per sopravvivere e cioè nel dover sparare a un soldato nemico pur consapevole che sotto quella divisa c’era un uomo come te.

Mi racconta inoltre che lui porta il nome Vincenzo, in onore del fratello del padre Giovanni, che da eroe perse la vita in combattimento e fu addirittura premiato al valor militare. La famiglia era orgogliosa di questo figlio caduto in guerra, purtroppo Zio Vincenzo mi disse che di questa vicenda sapeva ben poco e gli avrebbe fatto piacere conoscere la vera storia.

Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto e che mi sarei messo subito alla ricerca di informazioni su questo “Vincenzo” per regalargli più dettagli possibili.

Dopo mille ricerche, telefonate, e-mail, a distanza di mesi, ricevo con mia immensa gioia le informazioni che cercavo sul mio antenato direttamente dal Ministero della Difesa:

“Minopoli Vincenzo, di Antonio, nato a Soccavo (NA), il 4 gennaio 1886 – Soldato effettivo del 133° Reggimento Fanteria – è deceduto il 2 luglio 1916, a seguito di ferite riportate in combattimento, nell’Ospedaletto da campo 110… Ii Soldato Vincenzo MINOPOLI risulta sepolto nel loculo n. 7884 dello stesso Sacrario Militare di ASIAGO con i dati anagrafici errati (cognome “Minaggi” anziché “MINOPOLI”). Per quanto precede, questo Commissariato Generale ha dato mandato alla Direzione del Sacrario Militare di Asiago di provvedere alla correzione del dato anagrafico errato, nei tempi imposti dal relativo iter amministrativo.”

Inoltre, cercando in altri archivi ho trovato le motivazioni per cui gli è stata riconosciuta la medaglia al valore.

Pazzesco! Sono riuscito a conoscere, la sua data di nascita, la battaglia ove eroicamente perse la vita, il cimitero ove tutt’oggi è sepolto e soprattutto a seguito della mia segnalazione verrà rettificata la lapide con il suo cognome corretto, Minopoli.

Il tutto iniziato da una chiacchierata con Zio Vincenzo e dal suo forte desiderio di avvicinarsi anche lui alla sua storia e origini.

Purtroppo, non ho fatto in tempo a tornare con queste meravigliose informazioni da Zio Vincenzo, per aggiornarlo su chi era questo suo Zio eroico da cui ha ereditato il nome. Con enorme dolore egli ci ha lasciati nel mese di Febbraio 2022.

Quell’incontro rimarrà per me un momento magnifico di congiunzione diretta con le mie radici e con la storia della mia famiglia.

I figli del bisnonno Cesare di Padergnone. Al centro Stefano Sommadossi

Mi chiamo Gianfranco Sommadossi e vivo a Vicenza. Sono nato a Bassano del Grappa, «la città dei signori e delle torri »* , nel 1935 e nel Borgo Angarano, nella zona destra del Brenta, al di là del Ponte Vecchio anche detto Ponte degli Alpini.

Fu una domanda dei figli di mio fratello “ Ma noi chi siamo?”. Sinceramente non me lo chiesi mai, ho conosciuto il nonno e la nonna paterni, trentini. Conoscevo il nonno materno bresciano. La nonna materna era veronese, non la conobbi. Il papà aveva due fratelli e una sorella. La mamma era figlia unica. Fino ad allora non mi ero interessato e quella domanda fece aprire un cassettino della memoria.

«Finché viviamo, dobbiamo continuare ad apprendere. Non accadrà mai che sapremo troppo, ma che non sapremo mai abbastanza. Nulla può darci più gioia del conoscere chi siamo, chi eravamo, chi saremo; e a nessun altro piacere potremo comparare quello che proviamo mentre apprendiamo…»** .

Via dedicata ai Somadòs a Ranzo, frazione di Vallelaghi (TN)

Quella domanda a cui non avevo saputo dare risposta aveva toccato il mio amor proprio e stuzzicata la curiosità. Ero in pensione perché non dedicarmi a una ricerca sugli antenati e grazie a documenti conservati dai miei genitori incominciai a scavare nel passato. La scoperta che ha scombussolato le mie certezze, fu un’annotazione di mio padre in un vecchio libro dove aveva scritto che il nostro cognome Sommadossi è l’italianizzazione di un soprannome trentino Somados, ma non aveva annotato il cognome da cui derivava.

Anche Lui la notizia l’avrà sentita da qualcuno in famiglia, ma tutto era finito nel dimenticatoio. Tra i libri di mio padre trovai un’annotazione il titolo era un testo di Dante Olivieri “I Cognomi della Venezia Euganea“ , forse anche papà si chiedeva perché questo soprannome ci è stato assegnato e cercava una risposta, che ho trovato grazie a Ettore Parisi, oggi conosciuto come “Archivio della memoria della valle dei laghi” in Trentino.

Per conoscere la genealogia dei Sommadossi prima del 1825 devo ringraziare Ettore questo prezioso ricercatore genealogico di Ranzo la cui mamma era una Sommadossi. Le sue indicazioni, le sue ricerche la sua disponibilità mi hanno spinto ad approfondire sui cognomi sui soprannomi di quegli avi a cui appartengo anche io e risalire le undici generazioni che mancavano alla mia genealogia. Il primo quarto si era fermato nel 1500 in una contrada delle Giudicarie esteriori. In quel borgo antico chiamato Ranzo passaggio obbligato tra il Banale la Valle dell’Adige e il Sarca, dove c’è una via dedicata ai Somados. I Gendroni: ecco chi sono i Sommadossi. I Gendroni appaiono nella storia della famiglia nel XIV secolo. Il loro nome è scritto nei registri parrocchiali della pieve di Ranzo. Nell’atto di matrimonio tra Pietro ed Elena oltre al cognome Gendroni, Ettore Parisi trova scritto detto el Somados.

Nessuno avrebbe pensato che questo soprannome diventava con il tempo il cognome di una numerosa progenie. Anzi produrrà anch’esso tanti soprannomi. Pietro Gendroni detto il Somados potremmo definirlo il capostipite dei Sommadossi, nel 1564 nella chiesa di Ranzo aveva sposato Elena anche lei una Gendroni. Avranno tre figli. Domenica 1565 Simone nel 1568 e Maria Domenica nel 1570. Simone continuerà la discendenza dei Somados, delle figlie Maria e Domenica non si anno notizie.

Quando Ettore Parisi mi confermò che le sue ricerche sui Sommadossi lo avevano condotto nel 1500 e che il precursore si chiamava Domenico Gendroni o cercato di inoltrarmi più in la nel tempo. I registri parrocchiali si fermavano al (1530 circa) la consultazione di documenti storici, accenni a campagne militari che citassero i Gendronl non mi dettero alcuna informazione utile. Dei Gendroni prima del 1500 buio totale. Le radici della mia famiglia iniziavano nel XIV secolo. Grazie a Ettore avevo aperto la strada per dare quella risposta che non conoscevo ricostruendo il primo quarto. Ma la soddisfazione della scoperta mi spinse oltre, aprendone altre.

Famiglia Vaona: seduti Francesco e Alice Vaona, la bambina è la mamma dell’autore

Questa volta non furono i nipoti. Mi trovavo nella sala d’attesa del mio dentista, un appassionato cicloturista. Nel cestino dei giornali mi capitò tra le mani la rivista, “Lessinia tra malghe, contrade e memorie” una rivista curata da Anna Solati ricercatrice veronese. Sfogliando le pagine all’interno trovai un articolo in cui Si parlava di Breonio, comune della Lessinia, nome strano, mi incuriosì, e continuai a leggere. Nella sesta riga lessi due nomi: Vaona e Zivelongo e una data 920 d.C. fu spontaneo, esultare ad alta voce: Stai a vedere che ho scoperto le origini degli avi di mia madre!!! Non ricordo di che anno fosse la pubblicazione, ma è passato del tempo. La lettura della notizia che un nobile veronese otteneva dal primo re d’Italia Berengario I, per il figlio Bertello la Corte di Breonio di cui facevano parte le dipendenze dei Vaona e dei Zivelongo mi aveva incuriosito. Forse fu l’impulso di cercare le radici della famiglia di mia nonna materna, anche Lei una Vaona e che può vantare undici secoli di storia e che da allora mantiene lo stesso cognome. La curiosità di scoprire e il desiderio di approfondire le mie origini, mi portò a cercare. Questa volta non c’era Ettore, ma utilizzai i suoi consigli. Cominciai a costruire la genealogia di questa ramificatissima progenie che dovrebbe sfociare nella ricostruzione della storia di un altro quarto della mia ascendenza. E’ risaputo che la prima cosa da fare è avere qualche idea magari da chi lo ha fatto prima di te.

1943, da destra Gianfranco Sommadossi con il fratello e la madre vestiti alla Marinara

Il consiglio di Ettore fu di andare di persona negli archivi delle parrocchie, avendo già qualche indizio sulle cose da cercare. Sapevo cosa cercare, ma non sapevo come. Quando conobbi il Dot. Francesco Coati, archivista volontario della parrocchia dl San Pietro in Marano di Valpolicella, non immaginavo cosa fosse un archivio parrocchiale. La prima cosa che imparai fu la presenza dei quatto libri “canonici” Gli Stati delle Anime, il registro dei Matrimoni, dei Battesimi e dei Morti.

Il primo dei libri che mi consigliò di sfogliare fu lo stato d’anime, una sorta di censimento, in cui il parroco oltre che annotare la vita spirituale delle suo gregge, compilava e aggiornava il resoconto degli avvenimenti accaduti, date, lo stato di famiglia, nonni, genitori, figli, nuore, nipoti, il censo delle famiglie (tutte le persone conviventi che di fatto non erano parenti di sangue, ma che vivevano con la famiglia) i trasferimenti e molte informazioni utili alla ricerca delle origini, alla ricostruzione della storia famigliare. E questo è stato un altro passo per risalire la storia degli antenati che è diventata sempre più ampia attraverso la ricerca di documenti che testimoniano i modi di vita, i luoghi dove essi hanno vissuto e dove hanno contribuito a sviluppare la vita comunitaria. Poi gli altri tre non meno interessanti Matrimoni, Nati e i Morti.

Battesimo del padre dell’autore, Cesare Giovanni Sommadossi

Difficoltà, tante che non le elenco, ma ne è valsa e ne vale la pena. La difficoltà maggiore per me fu la lettura di questi documenti redatti in lingua latina con una grafia da penna d’oca. Le complicazioni che questo ha comportato per me con il tempo sono diventate superabili. C’è un altro aspetto da evidenziare la rarefazione degli archivisti Volontari nelle parrocchie che custodiscono un patrimonio archivistico inestimabile, Chiuso negli armadi. Questo purtroppo complica la ricerca. Nel 2021 una scoperta: leggendo un articolo di Paola Calaprisco su l’Adige quotidiano veronese “ i propri antenati a portata di clic ” Un progetto degli Archivi di Stato in collaborazione con Family Search mi ha permesso di scoprire la presenza dei Vaona nei comuni veronesi. Mi riferisco alla prima stesura, quella che con un clic appariva l’elenco dei comuni della provincia. Importante per uno come me che del veronese ne conosceva s1 e no una decina.

All’età di 87 anni avere la possibilità, attraverso il proprio computer, di cercare e di conoscere le proprie radici è una soddisfazione impagabile e affascinante. Il mio più grande desiderio è quello che questo progetto vada sempre migliorando con la possibilità di trovare sempre più documenti di stato civile accessibili online anche con la sinergia di più istituti come gli Archivi di Stato, gli archivi storici dei Comuni e le parrocchie afferenti alla diocesi di Verona.

Ricostruire l’onomastica degli ascendenti mi ha aperto la strada alla conoscenza delle radici della famiglia ciò non ha significato realizzare un elenco di nomi, date e località ma qualche cosa di più. Perché amici, questi sono parte dei mattoni che mi sono serviti per costruite la storia dei miei avi e quei mattoni li ho trovati anche nel Portale Antenati del nostro Archivio di Stato.

Gianfranco Sommadossi un ragazzo di una volta.

Note
*Definizione della città di Bassano del Grappa dello scrittore Paolo Malaguti, tratto dal romanzo “Sul Grappa dopo la vittoria” edito da Santi Quaranta nel 2009;

**Pensiero del medico e filosofo Guglielmo Grataroli del XVI sec.

Pasquale Bruno

Fin da piccolo tutti i fine settimana, si scendeva a Napoli a trovare i nostri parenti. Erano giornate intense in case molto piccole ove nel caos e nella semplicità trascorrevano del meraviglioso tempo insieme. Quando si andava a casa di Nonna Elena, la mamma di papà, c’era la solita visione di una cornice, con una foto in bianco e nero di un “uomo misterioso dai baffi neri”.

Quell’uomo era mio nonno Pasquale deceduto prematuramente di cui sapevo poco. Grazie al foglio matricolare inviatomi dall’ex archivio militare di Napoli, posso leggere i fatti realmente accaduti sulla sua vita militare. Nonno Pasquale, classe 1917, nasce a Soccavo, cresce con i suoi genitori, papà Giovanni, mamma Enrichetta, e le due sorelle Francesca e Rachele. Il 09 Giugno del 1938 viene chiamato alle armi per la ferma annuale presso il corpo della Regia Aereonautica Italiana e il 12/10/1938 viene inserito nel 7° Stormo presso l’aeroporto di Campo della Promessa ove svolgerà mansioni del suo grado di aviere. Il 30/05/1942 parte per la Grecia via terra da Imperia ed arriva sino ad Atene ed il 28 Luglio si imbarca per l’isola di Creta, ove sbarcherà a Candia. Nonno rimarrà lì per più di un anno, svolgendo compiti di presidio e controllo sino al famoso 8/09/1943 giorno dell’Armistizio. Anche a Creta i soldati italiani, da essere alleati, diventarono nemici dei Nazisti. Nonno e i suoi compagni furono ammassati in capannoni per lunghi periodi e trattati con disprezzo. Rimase prigioniero in Grecia sino all’7/12/1944. La sfortuna è solo all’inizio, di fatti viene liberato dalle truppe Inglesi ed internato in Egitto al Campo 305 P.O.W. (prisoner of war 305). Il campo era sotto la giurisdizione degli inglesi, erano stati internati prigionieri italiani provenienti nella quasi totalità dal fronte dell’Africa Settentrionale. Chiamato anche “Fascist Criminal Camp”, si trovava in pieno deserto egiziano, tra il Cairo ed Alessandria, ed era diviso in 38 “recinti”. Ogni recinto era costituito da un gruppo di 50 tende. Un “quadrato infernale” di sabbia rovente dove erano accatastati migliaia di uomini, tormentati dal caldo, dalla sete, dalla fame, dai pidocchi e, non ultime, dall’inerzia e dalla disperazione. Il campo allestito presso la città di Ismailia considerato “criminal camp” era destinato ai prigionieri di guerra “non collaboratori”, quindi si presume che nonno come tanti altri prigionieri italiani per la sua dignità di combattente fedele ai propri ideali rifiutò la collaborazione col nemico. Trascorsero anni difficili superati con dignità e orgogliosa dedizione ai propri ideali e alla nostra Bandiera. A Maggio 1945 si concluse il conflitto ma i “non collaboratori” furono gli ultimi ad essere rimpatriati: ciò avvenne a Luglio del 1946 un anno e un mese dopo la fine delle ostilità. Arrivato a Napoli il 22 Luglio 1946, nonno viene inviato in congedo illimitato, è il 27/09/1946.

UNA STORIA BELLISSIMA

Nonno come accadeva all’ora, prima ancora di partire per la guerra, si sposò molto giovane con una ragazza, purtroppo, o per fortuna al rientro dalla guerra, dopo tutti quegli anni fuori, scoprì che la moglie non era rimasta ad aspettarlo a casa ma anzi, si era addirittura rifatta una vita. Oggi si parlerebbe di tradimento, all’epoca fu uno choc, nonno Pasquale abbandonò quella donna e, si innamorò di una bella ragazza molto più giovane di lui che si chiamava Elena, mia nonna!

Tra i due scoppiò l’amore e subito andarono a vivere insieme, in via Risorgimento, da questo amore nacquero 7 figli: Giovanni, Vincenzo, Enrichetta, mio padre Antonio, Annamaria, Patrizia ed infine Rosaria. Tutto procede per il meglio ma c’è un cruccio che tormenta nonno. Essendo stato sposato e non esistendo il divorzio, non si vedeva riconosciuto l’unione con la sua Elena, non erano una coppia e cosa ben peggiore i loro figli risultavano “illegittimi”. Succede però che Il 1/12/1970 i Radicali, il Partito socialista, il PCI e il Partito Liberale approvarono la legge sul divorzio. Appena saputo che il divorzio era legge, nonno fu tra i primi in Italia, ad ottenere davanti al giudice lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio. Finalmente a Marzo del 1972 potette sposare in Comune la sua Elena e diventarono ufficialmente “Marito e Moglie”. Da questa unione civile mutò anche lo status dei loro figli che finalmente e formalmente, presero immediatamente il cognome del padre, Bruno e videro riconosciuti i loro diritti. Il destino è beffardo, appena raggiunto il suo grande sogno, ottenuta la condizione che tanto auspicava, l’11 Novembre 1972 un ictus fulminante se lo porta via all’età di 55 anni, lasciando improvvisamente un grande vuoto tra i suoi cari.

Giorno della prima comunione dei figli di Pasquale e Elena (da sinistra, Giovanni, Vincenzo e Annamaria)

CONCLUSIONI

Nonno la sua vita l’ha vissuta purtroppo in parte, mi dispiace non aver avuto la fortuna di ascoltare qualche suo racconto. Un messaggio potente adesso mi rimarrà dentro ed è quello che mio nonno, nonostante la scomparsa improvvisa, ha lasciato ai suoi figli e a tutta la famiglia un forte senso di dignità.

Antonietta Scopelliti, madre dell’autrice

La mia passione per la genealogia è nata dalla sofferenza. Dalla sofferenza di mia mamma Antonietta strappata alla sua città – Reggio Calabria – e ai suoi affetti e dalla mia sofferenza di bambina cresciuta senza poter contare sull’affetto dei nonni, senza potersi confrontare con le proprie radici.

Mia mamma leniva la sofferenza raccontandoci della sua infanzia e della sua città, descrivendone i colori, la luce abbagliante, i profumi di mare e di gelsomino, il sapore delle arance e delle annone rubate sugli alberi.  Il suo racconto proseguiva con la descrizione di mia nonna, affacciata al balcone sullo stretto a controllare l’Etna, la sua paura dei terremoti, l’amore per i cavalli, e poi di mio nonno bambino segnato dal dolore per la perdita della mamma morta di anemia dopo un parto gemellare (li ho poi trovati nei registri di stato civile quei due bambini morti piccolini di cui nessuno ricordava più il nome). E poi ancora il bisnonno dai capelli rossi e dagli occhi azzurri, alto come un vichingo, retaggio della dominazione normanna, e gli altri bisnonni di cui si sapeva solo che erano braccianti impegnati nella raccolta e lavorazione del bergamotto da inviare a Parigi per produrre i profumi.

Ed era sempre sofferenza quella di mio padre Diego che, a differenza di mia madre, non raccontava niente della sua famiglia, ma teneva stretto nel cuore il ricordo di suo padre, morto giovane per un incidente sul lavoro proprio sotto casa, dopo aver superato indenne le due Guerre mondiali e le fatiche degli anni di lavoro in Africa. E anche il suo silenzio, al pari dei racconti di mia mamma, mi costringeva a cercare per sapere…

Nell’adolescenza ho finalmente visto Reggio Calabria e quella luce e quei profumi, così diversi dal grigiore della città di Bergamo e la magnifica vista sullo stretto, mi sono rimasti per sempre nella mente. Il desiderio di risalire indietro nel tempo per conoscere le persone che mi avevano preceduto, per sapere come erano e come vivevano si è fatto più forte e ho incominciato a raccogliere le poche fotografie rimaste, i fogli matricolari con l’indicazione delle caratteristiche fisiche dei miei nonni, i ricordi dei parenti.

La vita ha voluto che lavorassi per molti anni negli uffici di stato civile della mia città acquisendo quelle abilità necessarie per decifrare le informazioni dei registri e dei documenti antichi. La digitalizzazione dei documenti di stato civile del portale ANTENATI e dei registri parrocchiali della diocesi di Reggio mi ha permesso di ricostruire la storia della mia famiglia fino alla fine del 1500, perché a saperli leggere i registri antichi dicono molto di più di date e nomi. Raccontano di sofferenze, di gioie, di cambiamenti, raccontano delle guerre, dei terremoti devastanti, delle emigrazioni.

Infine, come ultimo tassello della mia ricerca, l’analisi del DNA che ha confermato la forte componente mediterranea della mia famiglia, aggiungendo una notevole componente mediorientale e, in piccola parte, asiatica e nord-europea permettendo di andare ancora più indietro nella conoscenza del viaggio che i miei antenati hanno compiuto per arrivare in Calabria.

Spero di lasciare alle mie figlie (entrambe con i capelli rossi proprio come il mio bisnonno) la consapevolezza delle proprie radici e la conoscenza degli uomini e delle donne che le hanno precedute perché raccolgano il testimone nella grande staffetta della vita.

Diego Scopelliti, padre dell’autrice
Diego Scopelliti, nonno dell’autrice
Saverio Scopelliti, nonno dell’autrice
Ritratto di Ermelinda Brudi

Il mio nome è Patrizia, penso che per capire a pieno quello che siamo sia necessario sapere ciò che eravamo. Oltre al cognome che si tramanda di padre in figlio (il mio è Mantovani) si tramandano i tratti somatici, il carattere, le abilità; il nostro DNA porta scritto quello dei nostri antenati, in noi c’è un po’ di tutti loro. La mia gente ha vissuto in piccoli paesi della bassa Lombardia, al confine con l’Emilia ed il Veneto. Queste sono terre di agricoltura di campi da zappare e coltivare. Le case piccole di solito con due stanze, arredate con pochi ed essenziali mobili in legno, la stufa a legna per cucinare e scaldarsi; l’elettricità non c’era, si usavano lampade ad olio e candele. Il gabinetto era situato in un capanno di legno fuori poco distante dall’abitazione. La dieta era povera si mangiavano zuppe di patate e fagioli ‘al tucin ‘con l’immancabile polenta.

Ritratto di Gaetano Mantovani

Il consumo di carne era poco frequente, qualche salume arricchiva la cena. Nel mese di Dicembre, quando veniva ucciso il maiale, si facevano salumi per tutto l’anno ed era una festa per tutta la comunità. D’estate la dieta era più varia. Si mangiavano i frutti dell’orto che tutte le famiglie coltivavano, le uova del pollaio e si consumava molto pesce che veniva pescato nelle ricche acque dei canali e dal grande fiume Po. Il bucato si faceva in un paiolo sul fuoco e nelle “ suioli ” mastelle metalliche che venivano usate anche per fare il bagno. Nel paiolo veniva messa acqua con un pezzo di sapone di Marsiglia e della cenere, il tutto veniva fatto bollire e poi vi ci si immergeva il bucato. Nei rigidi inverni le braci della stufa venivano utilizzate, messe in padelline per riscaldare il letto con il “Prete “. All’imbrunire nelle sere d’estate dopo cena, ci si ritrovava tra vicini di casa tutti fuori, grandi e piccoli, a conversare, raccontarsi storie, a fare “ filò “. Si formavano grandi gruppi, o piccoli gruppetti, come le donne che rammendavano o ricamavano in circolo attorno alla luce fioca delle lampade. Gli spostamenti avvenivano per lo più in bicicletta o su carretti trainati da cavalli o da asini. Le strade principali erano ghiaiate, solo le piazze erano di ciottolato. I miei antenati erano povera gente, braccianti agricoli al servizio di possidenti e bovari ”buar” addetti alla cura della stalla e del bestiame. Ho sempre avuto un legame famigliare forte e le vicende singolari di famiglia si tramandano da generazioni. Vi racconto alcune vicende famigliari tramandate fino a me.

Atto di nascita di Ermelinda Brudi, 1876

Ermelinda Brudi e Gaetano Mantovani, i miei trisnonni, dei quali ho trovato sul sito Antenati l’atto di matrimonio e l’atto di nascita di lei, risalendo così ai miei quadrisavoli, Ottaviano Giuseppe Budri e la moglie Carolina Piva e Cova Modesta con Angelo Mantovani dei quali nessuno aveva memoria.

Ermelinda e Gaetano sposi il 15 maggio del 1900 erano braccianti agricoli, abitavano in una piccola casa con un orto ed un pollaio abitato da sette/ otto galline che probabilmente rappresentavano tutta la loro ricchezza, ed erano un sostentamento importante per tutta la famiglia. I ladri, tutti gli anni in inverno, mettevano in difficoltà la famiglia, rubando tutte le galline. Gaetano ed Ermelinda, in occasione delle feste Natalizie, si recavano a fare visita alle varie famiglie dei parenti di lui a Bergantino (RO), suo paese natale. Ogni famiglia che veniva a conoscenza del furto subito, gli faceva dono di una gallina e così al ritorno a casa a Poggio Rusco avevano ripopolato il pollaio.

Un’ altra vicenda tramandata riguarda la nascita di uno dei loro cinque figli. A settembre era il tempo della mietitura del gran turco. Ermelinda e Gaetano lavoravano nei campi. Il lavoro era frenetico. Ermelinda, al nono mese di gravidanza, dopo pranzo non si sente molto bene, avvisa suo marito e si incammina verso casa. Sulla lunga strada ghiaiata, Ermelinda riconosce i dolori del parto. Man mano che proseguiva, i dolori si facevano più forti. Sola ed esausta, si adagiò su di un cumulo di ghiaia al margine della strada per prendere fiato. Un passante con un carretto si fermò per soccorrerla. Il signore si offrì di accompagnarla a casa, ma quel bimbo aveva fretta di affacciarsi al mondo e quel passante si improvvisò allevatrice ed aiutò Ermelinda a dare alla luce il suo bambino. Quel bambino era mio bis nonno Italo. Un giorno, il ventenne Italo, tornando in licenza da militare, e percorrendo la strada che portava a casa sua, chiese un passaggio ad un anziano signore che conduceva un carretto. Il signore lo fece salire e cominciarono a dialogare. Italo aveva voglia di sentire discorrere nel suo dialetto. Ad un certo punto quel signore gli disse “ set bagaet tanti an fa chi propria chi o dat na man a na dona a far nasar so fiol” (sai ragazzo , tanti anni fa proprio in questo punto, ho aiutato una donna a partorire suo figlio).  Italo sentì un brivido e disse “Alora vu a si Bruno”  (allora lei è il signor Bruno, nome di fantasia perché negli anni è andato perso il nome). Il signore sussultò, lo guardo e con aria sorpresa e chiese come facesse a saper il suo nome. Italo ribattè  “perché cal putin a sera mi!”  (perché quel bimbo ero io).

Ritratto di Bice Trazzi, 1922-1925

Italo, bracciante agricolo, si sposò con Bice Trazzi; sarta e donna di casa. Di lei si conoscono i nomi dei genitori: Saule Trazzi  e Angela Benfatti . Cercando sul sito Antenati nella sezione “Trova i nomi”, ho trovato l’atto di nascita di Saule  e quello dei suoi sette fratelli. Inoltre, ho trovato anche il nome dei loro genitori: Erminio del 1852 e Generosa Panazza . Se chiudo gli occhi, li vedo di domenica nella loro casa, tutti seduti a tavola; quei due giovani ed i loro otto bambini. I miei bis nonni Italo e Bice, che ho avuto l’onore di conoscere, hanno avuto tre figlie ed un figlio maschio mio nonno, Silvano Mantovani. Con mio nonno ho avuto un rapporto speciale, di simbiosi, di intesa. E’ stato il mio nonno del cuore, quello preferito. Silvano, nato nel 1926 , ha frequentato la scuola fino alla quinta elementare poi ha cominciato a lavorare nei campi. Con il nascere delle industrie, lavorò come operaio nello zuccherificio del suo paese, Sermide. Si sposò nel 1948 con Lina. Le sue grandi passioni: la pesca ed il ballo liscio. Silvano se ne è andato nel 1992,  quando io ero appena diventata maggiorenne. Ha lasciato sola la nonna Lina Saccomandi  figlia di Giovanni Lino e Lea Roncati. Lina, di origine ferrarese nata a Pilastri, mondina da sempre. Lina lavoratrice instancabile, tagliatrice di canapa industriale, faceva grandi fascine e poi a piedi nudi immergeva le fascine nei maceri, in modo che la lavorazione per ottenere corde e fibre per realizzare sedie fosse più semplice. Questo faticoso lavoro era svolto soprattutto da donne per risparmiare sulla manodopera, in quanto le donne costavano il 20-30 % in meno del salario di un uomo.

Matrimonio di Vittorio Bianchi e Erta Vertuani, 1947

Delle origini di mia nonna Lina ho trovate pochissime informazioni ma continuerò a cercare. Dai miei nonni è nato un solo figlio, mio padre Franco 1950 che, come da tradizione, porta anche il nome di suo nonno Italo. Franco Italo, mio padre, barbiere dall’età di quattordici anni, si trasferì a Milano per maggiori opportunità lavorative. Franco si sposa cinquanta anni fa con Marisa Bianchi  1953 di Sermide (MN) figlia di Vittorio e Erta Vertuani. I due vissero a Milano per dieci anni, lui barbiere e lei operaia. In quegli anni, nascemmo io e mio fratello Andrea. Nel 1980 tutti tornammo a Sermide, paese natale dei miei genitori, per riunire la famiglia ai nonni. La mia ricerca, oltre alla mia curiosità, è stata anche incentivata da un diario trovato in un cassetto scritto da mio nonno Vittorio, dove raccontava brevemente la sua vita. Vittorio Bianchi nacque nel 1921 a Sermide (MN.) Frequentò la scuola fino alla quinta elementare e, a tredici anni, iniziò a lavorare come custode di vitelli. Partì per il militare e poi scoppiò subito la guerra. Così fu mandato in Africa, “ sotto le bombe” come diceva lui. Fu fatto prigioniero in Algeria e portato in America, dove raccontava che, allo sbarco, le persone si affollavano al porto, per vedere l’arrivo degli Italiani; perché si diceva avessero la coda. Nei suoi racconti puntualizzava ch’ erano loro gli strambi.. diceva: “  mangiano il gran turco che noi diamo come cibo alle galline”. Tornato a Napoli dopo cinque anni in America , vi rimase altri cinque anni come prigioniero di guerra. Liberato con il tempo tornò a casa; tutto ai suoi occhi era cambiato, chiedendo trovò la casa dove abitava la sua famiglia, cosi dalla strada vide il padre che……..
lo lascio leggere direttamente dalle sue parole…

 

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Ci si impegna ad osservare le disposizioni contenute nelle “Regole deontologiche per il trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse o per scopi di ricerca storica (all. A.2 al d. lgs. 196/2003)” nella consultazione e diffusione (art. 11, c.4) dei materiali presenti sul Portale Antenati.

RIFIUTA