Mi chiamo Maria Cecilia Biagi, anche se per tutti sono sempre stata semplicemente Cecilia. Sono una farmacista e un po’ per caso sono venuta a conoscenza di un laboratorio di genealogia organizzato dall’Archivio di Stato di Prato a cui ho deciso di iscrivermi per ripercorrere la storia della mia famiglia.
Oggi sentiamo spesso parlare di cervelli in fuga e abbiamo gli occhi pieni di immagini terribili di barconi stracolmi di migranti, ma l’uomo è stato da sempre in cerca di un mondo migliore dove potersi affermare o se non altro alla ricerca di quel minimo di sostentamento che possa garantire una vita dignitosa.
Ho sempre sentito parlare, nei racconti che sono stati tramandati nella mia famiglia, della lunga emigrazione dei miei nonni e del mio babbo in Corsica. La storia di questa migrazione si lega a un oggetto, un “prezioso cimelio” da sempre conservato nel salotto di casa nostra.
Si tratta di un vassoio che sulla superficie aveva un dipinto raffigurante Calvi, un piccolo comune situato nella parte nord-ovest della Corsica e che mia nonna era solita indicarmi perché lì aveva vissuto per molti anni.
I nonni, partirono da Luciana (Vernio) negli anni ’30 del Novecento, e appena arrivati in Corsica, furono ospitati da una nipote che là già viveva ed aveva, insieme al marito, un panificio e una bottega di generi alimentari. I nonni si cimentarono in vari lavoretti e anche mio padre, che era solo un bambino, dava il suo contributo: prima di andare a scuola inforcava la sua bicicletta con un grande paniere di vimini per fare le consegne del pane.
Il nonno lavorava alla costruzione delle strade e la nonna era a servizio in una famiglia di un medico, un certo dottor Crudeli.
Quegli anni furono di grande emancipazione per la famiglia considerando che da un piccolo paesino di montagna come Luciana di Vernio (Prato) si erano spostati in un’isola dove il mar Tirreno li divideva dalla loro patria. Gli occhi della nonna e di mio padre si illuminavano quando rievocando quegli anni trascorsi all’estero. Inoltre tutto ciò permise loro di raggranellare un po’ di risparmi e di comprare, una volta tornati in Italia, la casa in cui io sono nata.
Nella mia ricerca genealogica ho anche scoperto che il babbo della mia nonna, il mio bisnonno Beniamino Moncelli, aveva già percorso quella rotta nel lontano 1899 perché al momento della nascita di sua figlia Cecilia è la levatrice, la signora Olga Pacini, che va a dichiararla all’Ufficio di Stato Civile di Vernio e sull’atto di nascita è riportato che il padre è assente perché si trova in Corsica a lavorare.
Evidentemente la valle del Bisenzio non offriva molte opportunità: la pastorizia e la castanicoltura, attività tipiche del luogo, non erano sufficienti a sfamare la famiglia.
Questo fenomeno di migrazione verso la Corsica ha interessato molte famiglie della Val di Bisenzio e ancora oggi, nei mesi estivi, nel piccolo borgo di Cavarzano, non è raro incrociare macchine con targhe francesi e soprattutto corse.
Stesse scene si possono vedere anche nella vicina frazione di Fossato (Vernio), interessata anch’essa da un’importante emigrazione verso Marsiglia.
Nella mia soffitta custodisco ancora gelosamente il baule che aveva accompagnato i miei nonni durante la traversata per mare: erano lì raccolte le poche cose che possedevano e soprattutto era carico di tante speranze!
In qualche modo la valle del Bisenzio e la Corsica si intrecciano insieme alle storie delle loro genti.
Mi chiamo Maria Cecilia Biagi e ho deciso di ripercorrere la storia della mia famiglia. Di rimettere insieme i racconti di mia mamma e della nonna che purtroppo non ho potuto conoscere
Pochi atti di nascita e un muro di confine divideva i miei nonni materni.
La nonna, Giulia Mengoni, era stata registrata col numero 1606 nel volume dei nati del Comune di Prato; il nonno, Vincenzo Maggini, col numero 1619: nati nello stesso giorno di Santo Stefano del 1884.
Come se non bastasse, le loro case erano anche confinanti, nella zona di Filettole (Prato).
Hanno trascorso l’infanzia insieme e so che il nonno le aveva giurato che l’avrebbe sposata da grande. Certe volte tra bambini si dicono le cose un po’ per gioco, ma loro due invece l’hanno fatto davvero. So che è stato un amore un po’ contrastato da parte della famiglia Maggini perché consideravano la nonna Giulia una “fabbrichina”, una lavoratrice in fabbrica, e quindi non in grado di apportare un aiuto nel lavoro dei campi.
Nonostante ciò, nel 1915 si sposano. Hanno prima due bambine che però muoiono perché il nonno aveva contratto la malaria nel suo trasferimento in Maremma per lavorare come carbonaio. Successivamente hanno altre due bambine a cui danno gli stessi nomi di quelle prematuramente scomparse: Lina, la più grande, e Loretta Dina Maria la minore, che altri non è se non la mia mamma.
Prima della nascita di Loretta tutto filava liscio o almeno come in tutte le famiglie: fra alti e bassi. Dopo il parto però la nonna Giulia si ammala; mi si raccontava che le era stato riscontrato un “doppio vizio mitralico e aortico”. Oggi si direbbe che era affetta da stenosi. Consultando il registro degli infermi nel fondo Ospedale Misericordia e Dolce dell’Archivio di Stato di Prato ho potuto avere conferma di quella che era la sua diagnosi nel 1928.
Passano tre lunghi anni segnati da fame e sofferenze: la nonna è malata e non è in grado di accudire le sue bambine che quindi vengono affidate alle cure degli zii. Il nonno, il loro padre, è preoccupato nel vedere la moglie sempre più sofferente e nel non sapere mai dove siano le bambine, soprattutto la più piccola.
Aveva dovuto affrontare anche il baliatico recandosi a Vaiano, una località della Val di Bisenzio (Prato), in pieno inverno con quel fagottino che reclamava latte a più non posso.
Nonostante tutte le cure e le premure, in una gelida sera di Dicembre, più esattamente il sei del 1928, detto anche l’anno della tormenta, Giulia lo lascia solo con il suo dolore e con due bambine piccole: Lina di sei anni e Loretta di tre. Posso solo immaginare la disperazione di quest’uomo.
Non di poco conto fu anche l’impegno economico che dovette sostenere: donne di servizio, sparizione di corredo, gioielli e quant’altro di commestibile si trovava in casa.
Le medicine al tempo erano tutte a pagamento e il nonno aveva il conto aperto con il Dr. Giuseppe Bottari, titolare della farmacia di Piazza Duomo.
In tutto questo una signora, dama di carità moglie dell’allora direttore generale del Fabbricone, la signora Cardelli, gli propone il lavoro di guardia giurata notturna. Un lavoro di responsabilità, con tanto di porto d’armi ma che garantiva loro il sostentamento. Nel frattempo i fratelli e le cognate gli proponevano le soluzioni più disparate per sistemare le bambine, tra cui quelle di mandarle in qualche istituto, ma lui al pensiero di doversene distaccare optò per un secondo matrimonio, forse più per dar loro una figura femminile che per altro.
La “matrigna”, ma non voglio chiamarla così ma bensì la nonna Rosina è stata una donna amorevole che ha accolto le bambine, Lina e Loretta, come se fossero sue e a quell’epoca trovare un marito con un lavoro stabile e che ti permetteva di non gravare più sulla famiglia d’origine non era cosa da poco.
Vincenzo continuò comunque a prendersi cura delle sue figlie, e tra un impegno e l’altro coltivava la sua grande passione: quella per il giardinaggio e il pezzettino di terra che curava con più amore era la tomba della sua amata Giulia.
Io ho vissuto la sofferenza che ha contraddistinto la vita di Loretta, mia madre: quella mancanza che l’ha accompagnata in tutti i suoi giorni. Non posso fare a meno di ricordare che in punto di morte aveva un gran sorriso e che di sicuro era rivolto al pensiero della sua mamma.
Questo breve scritto lo dedico a lei.
Un suggerimento a chi leggerà queste poche righe: raccontate sempre le storie delle famiglie, tramandatele, perché sono il nostro tessuto, la trama su cui noi poi mettiamo i fili. Per me è stato molto bello ripercorrere a ritroso la storia della mia famiglia; è stato come ricomporre un puzzle, far riaffiorare alla memoria tanti ricordi che credevo sopiti.
Il desiderio di approfondire la storia della mia famiglia mi ha accompagnato da quando ero ragazzo, ma per vari motivi sono riuscito solo dopo molti decenni a realizzarlo.
Sapevo che la famiglia Croce era originaria di Pettorano sul Gizio, grazioso paese a pochi chilometri da Sulmona, e dalle tombe dei miei antenati che riposano lì nel piccolo cimitero avevo potuto ricostruire date e parentele. I bisnonni Enrico e Giulia, i loro quattro figli e i due nipoti, mio padre e mia zia, sono tutti sepolti a Pettorano, dove riposano anche altri parenti con lo stesso cognome. Del trisnonno conoscevo il nome, Giuseppe, il fatto che fosse stato un personaggio piuttosto conosciuto nell’ambito della borghesia agraria abruzzese ottocentesca e che aveva sposato due sorelle, Isabella, che morì poco dopo il primo parto, e Agata, figlie di Bartolomeo Ricciardelli di Pescocostanzo, altro nome di spicco tra i proprietari terrieri d’Abruzzo. Un’altra figlia di Bartolomeo, Elisabetta, moglie di Pietrantonio Sipari di Pescasseroli fu la madre di Luisa, che dal matrimonio con Pasquale Croce ebbe nel 1866 Benedetto.
Di questi antenati mi mancavano però i dettagli relativi alla loro vita e alle loro esistenze e quel ritardo di tanti anni nell’intraprendere la mia ricerca mi aveva ormai precluso la possibilità di chiedere i loro ricordi ai diretti testimoni di quell’epoca, ormai scomparsi.
La scoperta del Portale Antenati è stata quindi decisiva per completare il primo passo nella ricostruzione della famiglia nell’Ottocento, permettendomi di colmare alcuni vuoti e di ricostruire legami totalmente sconosciuti con altri paesi prevalentemente abruzzesi, tanto da diventare un’appassionante caccia al tesoro alla ricerca di nuovi rami inesplorati. Attraverso l’esame di tanti registri di stato civile dal 1809 al 1865, disponibili per la maggior parte dei comuni dell’Aquilano oggetto della mia ricerca, sono riuscito a ricostruire un’infinità di tasselli mancanti al quadro iniziale che avevo. Insieme a quelli di Pettorano sono stati essenziali per la ricerca i registri di stato civile di Sulmona (purtroppo sprovvisti di indici che avrebbero reso la ricerca più rapida) e di molti comuni limitrofi. Sono stati consultati anche i registri di molti comuni della provincia di Chieti, in cui spesso si arriva a coprire gli anni fino alla fine dell’800 e in alcuni casi ai primi del ‘900. Oltre alla ricerca dei dati anagrafici e di parentela proveniente dalla consultazione dei registri di nascita, di morte e di matrimonio, è stato fondamentale l’aiuto di documenti settecenteschi conservati nei “Processetti di matrimonio”, che venivano allegati agli atti per consentire la celebrazione.
Successivamente, una volta completata la parte più vicina a noi, l’oggetto della ricerca si è spostato verso il passato. Purtroppo una buona parte dei documenti antichi di Pettorano è andata persa nel tempo, sia i registri parrocchiali fino alla metà dell’Ottocento che i documenti dell’Archivio Comunale sono stati distrutti da incendi e l’unica ampia fonte di informazioni sono gli atti, prevalentemente notarili, conservati presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila.
Anche le fonti bibliografiche sul paese sono scarsissime, ma non mancano alcune trascrizioni di documenti del ‘400 e ‘500 relativi a Pettorano, i cui originali sono in alcuni casi ormai irreperibili. In particolare, mentre un Catasto Onciario del 1447, che elencava i nomi delle famiglie del paese, non faceva alcuna menzione dei Croce, la trascrizione di un Rivelo del 1577 (un censimento dei beni di proprietà ecclesiastica) citava varie volte il nome di Stefano di Croce, proprietario di alcuni beni confinanti ai possedimenti della Chiesa.
Dalla collocazione temporale di quest’uomo, l’unico tra i tanti citati ad avere un cognome a me familiare, è partita la ricerca negli atti notarili conservati presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila, che grazie al prezioso lavoro di chi in quel Archivio lavora e di chi vi compie studi storici, ha permesso di ricostruire l’intera storia.
Stefano di Croce, il mio undicesimo avo, era un piccolo proprietario di terreni e animali a Pettorano. La sua origine non era probabilmente di quel paese, visto che nel Catasto quattrocentesco non vi era traccia della famiglia, ma probabilmente la sua permanenza a Pettorano era di vecchia data, visto che nei documenti non si faceva cenno alla sua provenienza come avveniva generalmente con i forestieri. Il suo cognome, “di Croce” o “de Cruce” era di origine patronimica come molti in Abruzzo, visto che Croce era un nome di battesimo piuttosto diffuso fino a tutto l’Ottocento in queste zone e indicava dunque il capostipite della famiglia. Solo nel ‘700 si cominciò a chiamare la famiglia con il cognome attuale omettendo il “Di” iniziale.
Di Stefano ho trovato molti documenti, che lo qualificava come massaro piuttosto benestante e testimoniano un’intensa attività di compravendita di terre e animali. Nel suo testamento del 1614, un documento perfettamente leggibile e interessantissimo per ricostruire i dettagli della famiglia, si citavano i due figli che vivevano con lui (altri due erano prematuramente scomparsi), un nipote, la nuora, per la quale Stefano lasciava una somma di denaro per l’acquisto di una gonnella. La famiglia, con figli e nipoti, viveva in un’unica casa, ubicata nelle vicinanze del castello di Pettorano, nella zona in cui alcuni dei Croce hanno vissuto fino a tutto l’Ottocento, e possedeva 400 pecore affidate con il testamento ai due figli Nicola e Pietro Antonio.
L’enorme numero di documenti reperiti presso la sezione di Sulmona dell’Archivio di Stato dell’Aquila (oltre 500 quelli esaminati relativi alla famiglia Croce dal ‘500 all’ 800) ha permesso di ricostruire l’intera storia della famiglia, anche grazie a molti testamenti, utilissimi perché contengono spesso molte informazioni personali che invece mancano negli altri tipi di atti notarili.
È stato così possibile accertare che i Croce, divisi in vari rami fin dal Settecento ma sempre profondamente radicati in paese, hanno sempre mantenuto il legame con l’originaria attività derivante dal possesso di armenti e proprietà agricole, ma spesso unendo ad essa l’esercizio di professioni, come dimostra la presenza di vari notai, avvocati, medici e speziali.
Solo nel Novecento i Croce abbandonarono Pettorano, mantenendo come unico legame con quel territorio il bel palazzo ottocentesco con lo stemma della famiglia che accoglie chi arriva in paese e altri più antichi adornati con lo stesso simbolo. Mio nonno Augusto, nato nel 1897 e ultimo di quattro figli, andò a studiare a Napoli e dopo essersi laureato in ingegneria e aver sposato mia nonna Ester, intraprese un’attività lavorativa che lo portò a trasferirsi in varie città del Mezzogiorno. I loro figli, chiamati Enrico e Giulia come i nonni, nacquero in Calabria ma entrambi studiavano all’Università di Napoli. Mio padre Enrico, dopo un matrimonio sfortunato, decise di accettare un trasferimento di lavoro a Perugia, dove io e mio fratello siamo rimasti a vivere.
Altri Croce si trasferirono invece a Roma e nel Lazio durante il secolo scorso, e il piccolo paese, come è successo tante volte nel corso della sua storia, è rimasto muto testimone di una lunga storia.
La completezza della ricerca, arrivata a coprire dodici generazioni, e l’abbondanza di informazioni storiche sulla famiglia e sul territorio, mi hanno spinto alla pubblicazione di quest’articolo affinché i risultati raccolti non venissero coperti dalla polvere del tempo e rimanessero a disposizione di chiunque fosse, oggi o in futuro, interessato a quelle zone.
La mia passione per la genealogia è nata dalla sofferenza. Dalla sofferenza di mia mamma Antonietta strappata alla sua città – Reggio Calabria – e ai suoi affetti e dalla mia sofferenza di bambina cresciuta senza poter contare sull’affetto dei nonni, senza potersi confrontare con le proprie radici.
Mia mamma leniva la sofferenza raccontandoci della sua infanzia e della sua città, descrivendone i colori, la luce abbagliante, i profumi di mare e di gelsomino, il sapore delle arance e delle annone rubate sugli alberi. Il suo racconto proseguiva con la descrizione di mia nonna, affacciata al balcone sullo stretto a controllare l’Etna, la sua paura dei terremoti, l’amore per i cavalli, e poi di mio nonno bambino segnato dal dolore per la perdita della mamma morta di anemia dopo un parto gemellare (li ho poi trovati nei registri di stato civile quei due bambini morti piccolini di cui nessuno ricordava più il nome). E poi ancora il bisnonno dai capelli rossi e dagli occhi azzurri, alto come un vichingo, retaggio della dominazione normanna, e gli altri bisnonni di cui si sapeva solo che erano braccianti impegnati nella raccolta e lavorazione del bergamotto da inviare a Parigi per produrre i profumi.
Ed era sempre sofferenza quella di mio padre Diego che, a differenza di mia madre, non raccontava niente della sua famiglia, ma teneva stretto nel cuore il ricordo di suo padre, morto giovane per un incidente sul lavoro proprio sotto casa, dopo aver superato indenne le due Guerre mondiali e le fatiche degli anni di lavoro in Africa. E anche il suo silenzio, al pari dei racconti di mia mamma, mi costringeva a cercare per sapere…
Nell’adolescenza ho finalmente visto Reggio Calabria e quella luce e quei profumi, così diversi dal grigiore della città di Bergamo e la magnifica vista sullo stretto, mi sono rimasti per sempre nella mente. Il desiderio di risalire indietro nel tempo per conoscere le persone che mi avevano preceduto, per sapere come erano e come vivevano si è fatto più forte e ho incominciato a raccogliere le poche fotografie rimaste, i fogli matricolari con l’indicazione delle caratteristiche fisiche dei miei nonni, i ricordi dei parenti.
La vita ha voluto che lavorassi per molti anni negli uffici di stato civile della mia città acquisendo quelle abilità necessarie per decifrare le informazioni dei registri e dei documenti antichi. La digitalizzazione dei documenti di stato civile del portale ANTENATI e dei registri parrocchiali della diocesi di Reggio mi ha permesso di ricostruire la storia della mia famiglia fino alla fine del 1500, perché a saperli leggere i registri antichi dicono molto di più di date e nomi. Raccontano di sofferenze, di gioie, di cambiamenti, raccontano delle guerre, dei terremoti devastanti, delle emigrazioni.
Infine, come ultimo tassello della mia ricerca, l’analisi del DNA che ha confermato la forte componente mediterranea della mia famiglia, aggiungendo una notevole componente mediorientale e, in piccola parte, asiatica e nord-europea permettendo di andare ancora più indietro nella conoscenza del viaggio che i miei antenati hanno compiuto per arrivare in Calabria.
Spero di lasciare alle mie figlie (entrambe con i capelli rossi proprio come il mio bisnonno) la consapevolezza delle proprie radici e la conoscenza degli uomini e delle donne che le hanno precedute perché raccolgano il testimone nella grande staffetta della vita.
Il mio nome è Patrizia, penso che per capire a pieno quello che siamo sia necessario sapere ciò che eravamo. Oltre al cognome che si tramanda di padre in figlio (il mio è Mantovani) si tramandano i tratti somatici, il carattere, le abilità; il nostro DNA porta scritto quello dei nostri antenati, in noi c’è un po’ di tutti loro. La mia gente ha vissuto in piccoli paesi della bassa Lombardia, al confine con l’Emilia ed il Veneto. Queste sono terre di agricoltura di campi da zappare e coltivare. Le case piccole di solito con due stanze, arredate con pochi ed essenziali mobili in legno, la stufa a legna per cucinare e scaldarsi; l’elettricità non c’era, si usavano lampade ad olio e candele. Il gabinetto era situato in un capanno di legno fuori poco distante dall’abitazione. La dieta era povera si mangiavano zuppe di patate e fagioli ‘al tucin ‘con l’immancabile polenta.
Il consumo di carne era poco frequente, qualche salume arricchiva la cena. Nel mese di Dicembre, quando veniva ucciso il maiale, si facevano salumi per tutto l’anno ed era una festa per tutta la comunità. D’estate la dieta era più varia. Si mangiavano i frutti dell’orto che tutte le famiglie coltivavano, le uova del pollaio e si consumava molto pesce che veniva pescato nelle ricche acque dei canali e dal grande fiume Po. Il bucato si faceva in un paiolo sul fuoco e nelle “ suioli ” mastelle metalliche che venivano usate anche per fare il bagno. Nel paiolo veniva messa acqua con un pezzo di sapone di Marsiglia e della cenere, il tutto veniva fatto bollire e poi vi ci si immergeva il bucato. Nei rigidi inverni le braci della stufa venivano utilizzate, messe in padelline per riscaldare il letto con il “Prete “. All’imbrunire nelle sere d’estate dopo cena, ci si ritrovava tra vicini di casa tutti fuori, grandi e piccoli, a conversare, raccontarsi storie, a fare “ filò “. Si formavano grandi gruppi, o piccoli gruppetti, come le donne che rammendavano o ricamavano in circolo attorno alla luce fioca delle lampade. Gli spostamenti avvenivano per lo più in bicicletta o su carretti trainati da cavalli o da asini. Le strade principali erano ghiaiate, solo le piazze erano di ciottolato. I miei antenati erano povera gente, braccianti agricoli al servizio di possidenti e bovari ”buar” addetti alla cura della stalla e del bestiame. Ho sempre avuto un legame famigliare forte e le vicende singolari di famiglia si tramandano da generazioni. Vi racconto alcune vicende famigliari tramandate fino a me.
Ermelinda Brudi e Gaetano Mantovani, i miei trisnonni, dei quali ho trovato sul sito Antenati l’atto di matrimonio e l’atto di nascita di lei, risalendo così ai miei quadrisavoli, Ottaviano Giuseppe Budri e la moglie Carolina Piva e Cova Modesta con Angelo Mantovani dei quali nessuno aveva memoria.
Ermelinda e Gaetano sposi il 15 maggio del 1900 erano braccianti agricoli, abitavano in una piccola casa con un orto ed un pollaio abitato da sette/ otto galline che probabilmente rappresentavano tutta la loro ricchezza, ed erano un sostentamento importante per tutta la famiglia. I ladri, tutti gli anni in inverno, mettevano in difficoltà la famiglia, rubando tutte le galline. Gaetano ed Ermelinda, in occasione delle feste Natalizie, si recavano a fare visita alle varie famiglie dei parenti di lui a Bergantino (RO), suo paese natale. Ogni famiglia che veniva a conoscenza del furto subito, gli faceva dono di una gallina e così al ritorno a casa a Poggio Rusco avevano ripopolato il pollaio.
Un’ altra vicenda tramandata riguarda la nascita di uno dei loro cinque figli. A settembre era il tempo della mietitura del gran turco. Ermelinda e Gaetano lavoravano nei campi. Il lavoro era frenetico. Ermelinda, al nono mese di gravidanza, dopo pranzo non si sente molto bene, avvisa suo marito e si incammina verso casa. Sulla lunga strada ghiaiata, Ermelinda riconosce i dolori del parto. Man mano che proseguiva, i dolori si facevano più forti. Sola ed esausta, si adagiò su di un cumulo di ghiaia al margine della strada per prendere fiato. Un passante con un carretto si fermò per soccorrerla. Il signore si offrì di accompagnarla a casa, ma quel bimbo aveva fretta di affacciarsi al mondo e quel passante si improvvisò allevatrice ed aiutò Ermelinda a dare alla luce il suo bambino. Quel bambino era mio bis nonno Italo. Un giorno, il ventenne Italo, tornando in licenza da militare, e percorrendo la strada che portava a casa sua, chiese un passaggio ad un anziano signore che conduceva un carretto. Il signore lo fece salire e cominciarono a dialogare. Italo aveva voglia di sentire discorrere nel suo dialetto. Ad un certo punto quel signore gli disse “ set bagaet tanti an fa chi propria chi o dat na man a na dona a far nasar so fiol” (sai ragazzo , tanti anni fa proprio in questo punto, ho aiutato una donna a partorire suo figlio). Italo sentì un brivido e disse “Alora vu a si Bruno” (allora lei è il signor Bruno, nome di fantasia perché negli anni è andato perso il nome). Il signore sussultò, lo guardo e con aria sorpresa e chiese come facesse a saper il suo nome. Italo ribattè “perché cal putin a sera mi!” (perché quel bimbo ero io).
Italo, bracciante agricolo, si sposò con Bice Trazzi; sarta e donna di casa. Di lei si conoscono i nomi dei genitori: Saule Trazzi e Angela Benfatti . Cercando sul sito Antenati nella sezione “Trova i nomi”, ho trovato l’atto di nascita di Saule e quello dei suoi sette fratelli. Inoltre, ho trovato anche il nome dei loro genitori: Erminio del 1852 e Generosa Panazza . Se chiudo gli occhi, li vedo di domenica nella loro casa, tutti seduti a tavola; quei due giovani ed i loro otto bambini. I miei bis nonni Italo e Bice, che ho avuto l’onore di conoscere, hanno avuto tre figlie ed un figlio maschio mio nonno, Silvano Mantovani. Con mio nonno ho avuto un rapporto speciale, di simbiosi, di intesa. E’ stato il mio nonno del cuore, quello preferito. Silvano, nato nel 1926 , ha frequentato la scuola fino alla quinta elementare poi ha cominciato a lavorare nei campi. Con il nascere delle industrie, lavorò come operaio nello zuccherificio del suo paese, Sermide. Si sposò nel 1948 con Lina. Le sue grandi passioni: la pesca ed il ballo liscio. Silvano se ne è andato nel 1992, quando io ero appena diventata maggiorenne. Ha lasciato sola la nonna Lina Saccomandi figlia di Giovanni Lino e Lea Roncati. Lina, di origine ferrarese nata a Pilastri, mondina da sempre. Lina lavoratrice instancabile, tagliatrice di canapa industriale, faceva grandi fascine e poi a piedi nudi immergeva le fascine nei maceri, in modo che la lavorazione per ottenere corde e fibre per realizzare sedie fosse più semplice. Questo faticoso lavoro era svolto soprattutto da donne per risparmiare sulla manodopera, in quanto le donne costavano il 20-30 % in meno del salario di un uomo.
Delle origini di mia nonna Lina ho trovate pochissime informazioni ma continuerò a cercare. Dai miei nonni è nato un solo figlio, mio padre Franco 1950 che, come da tradizione, porta anche il nome di suo nonno Italo. Franco Italo, mio padre, barbiere dall’età di quattordici anni, si trasferì a Milano per maggiori opportunità lavorative. Franco si sposa cinquanta anni fa con Marisa Bianchi 1953 di Sermide (MN) figlia di Vittorio e Erta Vertuani. I due vissero a Milano per dieci anni, lui barbiere e lei operaia. In quegli anni, nascemmo io e mio fratello Andrea. Nel 1980 tutti tornammo a Sermide, paese natale dei miei genitori, per riunire la famiglia ai nonni. La mia ricerca, oltre alla mia curiosità, è stata anche incentivata da un diario trovato in un cassetto scritto da mio nonno Vittorio, dove raccontava brevemente la sua vita. Vittorio Bianchi nacque nel 1921 a Sermide (MN.) Frequentò la scuola fino alla quinta elementare e, a tredici anni, iniziò a lavorare come custode di vitelli. Partì per il militare e poi scoppiò subito la guerra. Così fu mandato in Africa, “ sotto le bombe” come diceva lui. Fu fatto prigioniero in Algeria e portato in America, dove raccontava che, allo sbarco, le persone si affollavano al porto, per vedere l’arrivo degli Italiani; perché si diceva avessero la coda. Nei suoi racconti puntualizzava ch’ erano loro gli strambi.. diceva: “ mangiano il gran turco che noi diamo come cibo alle galline”. Tornato a Napoli dopo cinque anni in America , vi rimase altri cinque anni come prigioniero di guerra. Liberato con il tempo tornò a casa; tutto ai suoi occhi era cambiato, chiedendo trovò la casa dove abitava la sua famiglia, cosi dalla strada vide il padre che…….. lo lascio leggere direttamente dalle sue parole…
La lingua italiana non ha un termine che possa esprimere il concetto di nostalgia per qualcosa o qualcuno che non si è mai conosciuto, o un luogo che non si è mai visitato. Dobbiamo allora cercare la ricchezza di altre lingue lontane e difficili, come il finlandese kaukokaipuu o il giapponese natsukashii che evoca qualcosa di bello e lontano. Quest’emozione vagamente irrazionale che infrange le barriere dello spazio e del tempo da sempre mi lega a mio nonno Carmelo, lasciando che percepisca come ricordi quei frammenti di vita ormai lontana che ho ricostruito negli anni dai racconti familiari e dalle ricerche genealogiche. Se sono nata in un preciso luogo è proprio grazie a te che tanti anni prima lo avevi scelto per formare la tua famiglia, là dove esigenze di lavoro ti avevano portato, lontano dalla tua famiglia di origine. Un’altra coppia forestiera avrebbe scelto quella stessa cittadina del Lazio subito dopo la guerra ma la tua breve esistenza si era già tragicamente spenta.
Era esattamente il 26 novembre del 1900 quando nascevi tu, centoventi anni fa, a Patti in provincia di Messina, quinto figlio di Antonino (di Giuseppe e Angela Rottino) e Concetta Furnari (di Antonino e Angela di Nardo), in quella via dietro il Castello che oggi ha nome via Magretti e che nella mia visita a Patti di tre anni fa, come attirata da forze invisibili, casualmente mi portò a scegliere il mio albergo proprio in quella via.
Della tua infanzia pattese non so nulla purtroppo, né conosco i motivi che intorno al 1904 spinsero la tua famiglia a trasferirsi nella vicina Sant’Agata di Militello dove nacquero i tuoi fratelli Salvatore e Antonino. Qui avrai frequentato la scuola e da qui giovanissimo hai scelto quale sarebbe stata la tua carriera: a 18 anni ti sei arruolato nei Carabinieri Reali, mi chiedo ancora quale scuola allievi Carabinieri avrai frequentato, ho ancora lacune in questo primo periodo della tua vita ma presto avrò le tue lettere, preziosi documenti che ho studiato riga per riga per ricostruire la carriera, i luoghi in cui hai vissuto, le persone che sono entrate nella tua vita e tanto care sono state per te che avevi una parola affettuosa per tutti. Dal 1929 al 1934 ti ritrovo così già ben avviato nel tuo lavoro, ti stai facendo onore nel grado di appuntato, ormai vivi a Roma ma non so esattamente da quando, provo a immaginare come doveva essere il tuo lavoro nella Roma fascista: eri già lì nel 1924, a indagare sul caso Matteotti? Chissà, me lo sono chiesta tante volte e con un po’ di pazienza lo scoprirò.
Cosa succede dunque in questi cinque anni per farti scrivere quasi una lettera al giorno e descrivere le tue giornate? Semplice, ti sei innamorato di Benedetta, che chiami semplicemente Bettina. Ti ingegni in ogni modo per non farle sentire troppo la nostalgia inevitabile di quel rapporto a distanza, tu a Roma e lei in Sicilia ad aspettarti ad ogni licenza, su di lei concentri le tue attenzioni, la tieni un po’ sulla corda con una vena di gelosia, le scrivi frasi spiritose per farla ridere un po’ ma poi diventi dolce e appassionato. Con quest’altalena di emozioni ma con l’incrollabile fede nell’amore eterno che le giuri e che mai tradirai passeranno gli anni del vostro fidanzamento per arrivare infine a quel 1 dicembre 1934 in cui pronuncerete il fatidico sì nella vostra Sant’Agata di Militello e dal giorno successivo sarete nella vostra nuova casa a Civita Castellana: per mettere su famiglia ci voleva più tranquillità ed il delicato incarico che svolgevi a Roma era poco compatibile con questo desiderio.
Saranno i vostri anni più belli, quelli che vedranno la nascita dei vostri figli, Antonio (mio padre) che nella migliore tradizione siciliana porta il nome di entrambi i suoi nonni, e Franco. Ma sui giorni belli, tanto sospirati, passerà presto una nuvola nera: l’Italia entra in guerra nel giugno del 1940, hai ormai quasi 40 anni, una famiglia, due figli, il tuo lavoro in provincia, per un soffio avevi scampato la chiamata alle armi in occasione della prima guerra mondiale e forse all’inizio ti culli un po’ nella speranza che magari anche stavolta riesci a evitare la guerra, in fondo non sei più giovanissimo per la vita in trincea.
La guerra è iniziata ma per il momento sembra lontana, su altri fronti, non ci tocca ancora ma tu comunque non abbassi la guardia: i primi ricordi di bambino di mio padre sono legati ad una grande mappa che sembra tenessi in casa e sulla quale segnavi l’avanzare dei vari fronti e le alterne sorti dei combattenti. Poi la situazione precipita, da una lettera si intuisce che sei stato richiamato e in breve tempo ti ritrovi al fronte a scrivere a casa, è il 1942. Non puoi scrivere dove sei ma chi legge lo sa, in una lettera datata agosto del 1943 sei appena rientrato da una licenza e scrivi che il tuo rientro al fronte si è svolto senza difficoltà, la nostalgia della famiglia si fa sentire fortissima ma il tono è rassicurante. In Italia meno di un mese prima era caduto il fascismo e Mussolini era stato arrestato, quasi sicuramente eri a conoscenza della situazione difficile che stava attraversando il nostro paese e dell’incertezza totale che regnava sui vari fronti nei quali erano impegnate le nostre forze armate. Sarei pronta a scommetterci che nella tua mente sempre attiva tu un piano B magari lo stati già elaborando ma la prontezza di spirito non è bastata, a te come alle migliaia di IMI che nelle prime ore dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943 sono caduti prigionieri dei tedeschi.
Fu l’alba del 9 settembre che ti vide catturato nei pressi di Pristina, nell’allora Albania (oggi Kossovo) ed anche allora, sul treno che ti portava in Germania, su un elegante biglietto da visita con il tuo nome, stilasti una lista di nomi (quasi sicuramente tuoi commilitoni che con te hanno condiviso quel triste viaggio) e con l’incerta grafia di chi non conosce il tedesco tentasti più volte di scrivere Witzendorf, prima destinazione e campo di smistamento verso altri campi più propriamente di lavoro.
Nello Stalag in cui ti mandano continui a scrivere, mentre cerchi di rassicurare la famiglia sul tuo stato di salute domandi apertamente perché le tue lettere non ricevono risposta e temi il peggio per chi è rimasto a casa. Già, ma casa dov’è adesso che l’Italia è invasa dai tedeschi? Dove sono tua moglie ed i tuoi figli, saranno tornati in Sicilia? I dubbi ti torturano.
E’ il giorno di Natale del 1944, alla mensa hanno servito il pranzo che per quel giorno sembra essere appena più commestibile del solito; tornato nella baracca, la nostalgia di casa ti fa prendere in mano la penna ancora una volta e scrivi rivolgendoti direttamente ai tuoi figli.
La tragedia che ti ha strappato per sempre all’affetto dei tuoi cari avviene il 21 febbraio del 1945, nella fabbrica di munizioni vicino Oranienbaum (Munitionsanstalt Kapen), un sito ben nascosto nel folto della Foresta Nera, vicino al fiume Elba. Solo pochi giorni prima Dresda, distante circa 170 chilometri, era stata quasi rasa al suolo in uno dei più devastanti bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il fronte orientale stava per cedere definitivamente sotto i colpi inferti dall’avanzata sovietica, i primi campi di concentramento in quell’area furono liberati già nel mese di aprile e fa rabbia, proprio tanta rabbia, che per poco più di due mesi non si sia potuto scrivere un lieto fine per questa storia.
Nel dopoguerra la Germania orientale, come noto, cadde sotto l’influenza sovietica; l’ex- fabbrica di munizioni per l’esercito, come molte aziende compromesse con il regime nazista e lo sforzo bellico, fu riconvertita in un’industria chimica, la Chemiewerk. Con la caduta del muro e la riunificazione delle due Germanie il sito fu abbandonato e solo in anni recenti bonificato per essere poi inglobato nel più ampio progetto della Riserva Naturale denominata Biosphärenreservat Mittlere Elbe.
Mi chiamo Antonella Malosto, figlia di Sante e Clementi Carla. Vivo nella provincia di Verona. Le storie e i racconti di famiglia mi hanno sempre appassionato. Ho iniziato, da piccola, a raccogliere in fogli, blocchi notes, quaderni, cartelline, ogni informazione che mi giungeva dai miei genitori, dagli zii, dai nonni o da conoscenti. La ricerca genealogica ha, perciò, camminato al mio fianco per molti anni concretizzandosi, negli ultimi, in una vera passione per i testi antichi. I primi dati di aggancio, con il passato, li ho ereditati da mio zio Italo Malosto. Lui ha tenuto i contatti, via email, anche con i parenti del ramo di mia nonna (la mamma di mio padre si chiamava Bisson Gemma) trasferitisi in Argentina. Con la morte dello zio mi sono sentita in debito verso quel passato che lui non era riuscito a tracciare con completezza. Ho deciso di continuare e di arrivare fino a dove era possibile. Ho iniziato tracciando l’albero genealogico della famiglia e procedendo a ritroso concentrandomi, prima di tutto, sul ramo “Malosto”. All’inizio mi sono soffermata, anche, su un dettagliato panorama etimologico-storico legato ai significati del cognome (Mal-osto significante cattivo oste, oste che tratta male i suoi clienti). (Quando erano più consanguinei le fonti li nominavano Mal’hosti). Ho preso in considerazione tutte le aree, in Italia, in cui si era diffuso, aiutandomi con i motori di ricerca online. Ho approfondito la comparsa dei cognomi nella storia italiana, realizzando che la loro ufficialità è stata sancita con il Concilio di Trento che, nel 1564, dichiarava l’obbligo per i parroci di tenere un registro ordinato dei battesimi, con nomi e cognomi. Pertanto, il cognome, fino ad allora, lo si poteva trovare solo nei ranghi più nobili delle gerarchie. Venezia fu tra le prime città italiane ad inserire i cognomi tra il 1100 ed il 1200. Ho consultato più testi tra cui “I cognomi di Verona e del veronese di Giovanni Rapelli” e “Cognomi e mestieri di Walter Basso” allargando i bacini di conoscenza. Per continuare poi con la consultazione di più siti di ricerche araldiche legate a possibili rami di nobiltà e relativi stemmi che la famiglia poteva vantare: queste ricerche hanno dato, successivamente, esito negativo o parziale. Ho scoperto anche varianti del cognome che da Malosto è diventato Malosti, Mallosto, Malhosto, Malostro, Malossi, Malosso, soprattutto nelle fonti più antiche in cui il retaggio del latino era ancora presente.
Poi il cammino si è diretto verso il territorio in cui mio padre aveva sempre riferito, che aveva origine la sua famiglia: Orgiano/Sossano in provincia di Vicenza. Purtroppo, nel 2013, l’Archivio di Stato di Vicenza non era stato ancora inserito nel portale Antenati del Mibact, perciò lavorando, ho iniziato a comuni interessati per capire come mi sarei dovuta muovere per ricevere informazioni sui miei antenati. Alcuni comuni premettevano che le richieste erano a pagamento. Altri comuni mi rispondevano che era sufficiente fissare un appuntamento per la consultazione delle fonti. Questo si è protratto per molto dovendo usare solo ritagli di tempo libero. Ricordo con chiarezza quando mi sono seduta su un tavolo del comune di Sossano e ho potuto visionare i primi registri del 1800. Non avevo mai visto un registro di quel periodo. Mi sono sentita travolgere da un’emozione unica. Leggere per la prima volta il mio cognome in un testo così antico, vedere che tutto era scritto a mano, con cancellature ed evoluzioni successive dei dati nel foglio, mi ha fatto desiderare di essere stata nel loro tempo. Per abbracciarli e ringraziare tutte quelle persone per esserci state. Ecco Malosto Sante, nato a Sossano in Contrada Monti, al numero 22, di Venerdì 1 Novembre 1872, era uno dei miei avi. Ancora non sapevo come agganciarlo alle mie conoscenze ma ho tracciato un primo anello con i figli che, sono comparsi nelle famiglie Malosto e residenti, in quel periodo, a Sossano. Le ricerche successive hanno deviato il mio cammino verso l’archivio storico della diocesi di Vicenza, in Via Duomo n° 10 perché, le parrocchie del territorio, mi rispondevano che tutto era stato raccolto in un unico luogo. Inoltre le carestie, pestilenze, guerre, e inondazioni, che avevano provato il territorio tra il 1500 ed il 1600, avevano fatto perdere molta documentazione.
Il certificato di matrimonio di mio nonno Malosto Pietro con Bisson Gemma, avvenuto presso il comune di Rovolon, il 29 ottobre 1936, mi è giunto via email. I tanti spostamenti successivi, presso l’archivio di Vicenza, mi hanno permesso di scoprire che la mia discendenza diretta proveniva da un altro Malosto Sante, cugino del primo che avevo scoperto a Sossano. Questo mio avo, era nato a Orgiano lunedì 30 luglio 1866 e si era coniugato con Calafà Catterina Maria. Era il mio bis nonno. Dopo molti altri spostamenti nel territorio, ed utilizzando le fonti di cui ero venuta a conoscenza, grazie alla biblioteca di Orgiano, ho scoperto progenitori morti in guerra e presenti nei monumenti di Sossano e Orgiano (Ulindo e Giuseppe).
Nel contempo era divenuto necessario studiare e approfondire anche la scrittura dei testi antichi. Molti documenti mi risultavano indecifrabili. È stato molto utile il testo Leggendo e trascrivendo un vecchio documento di Elda Forin Martellozzo per decifrare lettere, significati, usi e abbreviazioni adottate. Ho tracciato anche una mappatura del territorio e della dislocazione delle abitazioni dei miei avi grazie al preziosissimo libro scritto da Don Ignazio Muraro, Orgiano- cenni storici, che ha descritto con precisione il tessuto sociale di quel periodo, quasi fotografando minuziosamente il paese e i suoi abitanti. Ho scoperto, con ulteriore emozione, che il luogo esatto da cui è nata la mia famiglia era la contrada Pilastro di Orgiano. Negli anni ho poi allargato il territorio con Sossano “I loschi e Sossano tra il XVI e XVIII secolo” inserendo altre conoscenze. Il processo a Paolo Orgiano di Claudio Povolo ha aggiunto altri progenitori, risalendo fino alla metà del 1500. Utile e chiaro nelle descrizioni anche Orgiano tra il duecento e trecento: attraverso i Libri Feudorum di Maria Grazia Bulla Borga, che ha contribuito all’arricchimento degli incastri.
Oggi il mio albero genealogico procede a ritrovo dal 2020 al 1550 circa contando più di 400 persone che portano il cognome Malosto. Ho inserito comunque anche i dati dei relativi consorti anche se con cognomi diversi. Sono essenzialmente nel veneto ed in Brasile. Il contatto con chi è emigrato in Brasile l’ho tracciato con l’aiuto dei contatti di facebook. Sono venuta a conoscenza di un gruppo “Familia Malosto” che mi ha permesso di inserire tutti i collegamenti con le famiglie dei progenitori che erano emigrati nel 1888 con la motonave Adria. Ora, gli indicatori dello stato civile, dicono che per la provincia di Vicenza, sono ancora in corso le attività di digitalizzazione, mi dispiace molto. Attendo con trepidazione questa possibilità online sia per la consultazione veloce e la possibilità di non dover fare spostamenti dalla propria residenza ma soprattutto per il completamento dei dati già in mia conoscenza o per acquisire nuove fonti.
Scoprire le mie radici e la loro memoria storica ha creato, in me, un’intensa suggestione. Come un patrimonio che aspettava solo di essere scoperto. La testimonianza di ciò che è stato è diventata anche nostalgia. Tutte quelle persone “comuni” che hanno oltrepassato il loro mondo conosciuto senza far rumore! Quei braccianti che abitavano in quei casoni di paglia e fango e mangiavano pane e uva. In una miseria unica hanno solcato le nostre identità. É grazie a loro che oggi noi siamo. Non è solo un onore per me, è il ritrovarmi. È il ricordarci che la nostra essenza è preziosa e viene da lì. Nella raccolta delle fonti ho cercato di essere precisa e di fare un lavoro di ricerca e catalogazione più accurato possibile nel desiderio di essere di aiuto a quanti intendono approcciarsi a questo meraviglioso cammino. O intendano utilizzare le mie strategie di ricerca, alla riscoperta delle loro origini. Per me, i risultati ottenuti erano insperati quando ho iniziato il cammino e tutt’ora lo sono se penso a tutte quelle persone ritrovate. Ho legato un filo a me ma contemporaneamente anche a tutte loro. Storie individuali ma condivise da altre famiglie e unite alle vicende del paese. Sono emerse relazioni che mi hanno avvicinato alle trasformazioni delle diverse epoche. Tutto è stato appassionante e coinvolgente. Dentro alla piccola storia di ognuno dei miei avi c’era un’intera società che vi ruotava. Sono in me e continueranno ad esserci. Ero orgogliosa prima di essere una “Malostina”, come mi chiamavano da piccola, ma ora, a ragione, lo sono ancora di più.
Nel frattempo, per tutte le motivazioni citate, ho iniziato con la provincia di Verona e sto ricostruendo l’albero genealogico della famiglia di mio marito, i Pizzoli.
Grazie! Al Portale Antenati per aiutare a realizzare i sogni di tante famiglie e avermi dato questa possibilità.
La mia famiglia materna è quella dei Patrizi di Bellegra. Io da laureato in Teologia (S.T.B.) e studente in diritto canonico ero interessato ad approfondire la storia degli ecclesiastici della casa ed a seguito di una serie di ricerche storiche presso le seguenti fonti:
Archivio dell’Abbazia Territoriale di Subiaco Archivio Segreto Vaticano
Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede
Archivio di Stato di Roma – sede di Sant’Ivo alla Sapienza
Archivio Segreto Vaticano
Archivio Storico Diocesano di Palestrina
Archivio Storico Diocesano di Roma
ho scoperto che era stato proprio il clero ad elevare una famiglia di retaggio contadino.
Il portale Antenati – Gli Archivi per la Ricerca Anagrafica è stato fondamentale per il reperimento dei dati anagrafici, in modo da studiare, attraverso gli atti di nascita, matrimonio e morte, le date, le parentele e le professioni degli avi. Principalmente contadini o possidenti, solitamente con molti figli, dei quali almeno uno per generazione era destinato alla carriera ecclesiastica, questo anche per mantenere un antico beneficio giuspatronato, poi dissoltosi con l’unità d’Italia.
La famiglia Patrizi di Civitella, poi Bellegra dal 1881, si stabilì nel feudo dell’Abbazia di Subiaco dalla prima metà del Seicento con Lorenzo (morto nel 1650 ca.) e poi suo figlio Benedetto.
Dal XVIII secolo i Patrizi erano agricoltori, i cui beni vennero accresciuti nel 1719, con il beneficio giuspatronato ecclesiastico sotto il titolo di Santa Maria della Pace, fondato da un parente, tal Francesco Pesce, e del quale la famiglia era titolare per concessione dell’abate commendatario di Subiaco. Il beneficio obbligava a quaranta messe annue in suffragio del fondatore e garantiva al titolare una casa di sette vani e tre ampi rigogliosi appezzamenti in Civitella e dintorni.
Il primo titolare fu l’arciprete don Piacentino Patrizi (nato a Civitella nel 1705). A seguire don Lorenzo Patrizi (Civitella 1762 – Roma 1842), figlio di Sebastiano Patrizi e Antonietta Cappella. Studente del Seminario di Subiaco, dopo il chiericato si trasferì a Roma per seguire i corsi di diritto all’archiginnasio della Sapienza e iniziare il praticantato legale. Nel 1789 venne ordinato presbitero. Assunto presso il Sant’Uffizio, visse le invasioni francesi di Roma del 1798 e del 1808 ove erano stati soppressi gli Stati della Chiesa, devastate le Congregazioni Romane e deportati a Parigi gli archivi della Santa Sede. Divenuto archivista del Sant’Uffizio, don Lorenzo riorganizzò con grande sforzo l’archivio. Grazie all’operato di Mons. Marino Marini, delegato pontificio a Parigi, i documenti vennero progressivamente restituiti all’Apostolica Sede. Don Lorenzo gestiva il beneficio giuspatronato di famiglia da Roma, mediante disposizioni ai famigliari e al clero di Civitella. Con lui, i terreni crebbero e diedero frutto, arricchendo sia la famiglia Patrizi che l’Abbazia di Subiaco. Si spense dopo quasi cinquant’anni di ininterrotto servizio alla Curia Romana.
Il beneficio, dunque, passò al nipote don Giuseppe Patrizi (Civitella 1809 – Roma 1846), presbitero dal 1832, anch’egli si era trasferito a Roma per studiare diritto canonico e svolgere l’incarico di maestro di camera del card. Angelo Mai. L’archiginnasio della Sapienza gli conferì la laurea ad honorem e la docenza in diritto canonico nel 1841, ma morì a 36 anni.
Nel 1848 suo nipote Pietro Patrizi (Civitella 1832 – Bellegra 1900) ereditò il titolo del beneficio, che gli rese possibile il pagamento del seminario e l’ordinazione presbiterale, nel 1857. Don Pietro, come i suoi avi, prese la strada di Roma e del diritto canonico. Sotto il pontificato di Pio IX e Leone XIII fu avvocato della Curia Romana, minutante della Congregazione del Concilio e cameriere d’onore di Sua Santità. Dopo il 1870 e la presa di Roma, provò a mantenere intatto il beneficio giuspatronato dalle leggi sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico; ciononostante il beneficio venne confiscato e immesso nel demanio statale nel 1881.
Oltre all’impegno di curia, l’importanza di Mons. Pietro si deve all’interessamento che ebbe verso il nipote Nazareno, anch’egli avviato alla carriera ecclesiastica, ma stavolta senza l’ausilio del beneficio né di alcun altro patrimonio. Mons. Nazareno Patrizi (Paliano 1866 – Roma 1958) svolse il seminario minore a Palestrina, sussidiato dal card. Antonio Saverio de Luca e, dispensato dal seminario minore, studiò con lo zio don Pietro, nel domicilio romano di quest’ultimo.
Il chierico Nazareno seguì i corsi di Teologia alla Gregoriana e di utroque iure all’archiginnasio della Sapienza, laureandosi nel 1895. Nel 1897 e nel 1901 fu segretario di ablegazione presso le corti spagnole ed austro-ungariche, riportando il cavalierato di Isabella di Cattolica e l’onorificenza di ufficiale dell’ordine imperiale di Francesco Giuseppe I. Era, inoltre, canonico della cappella papale dei Ss. Celso e Giuliano dal 1899. Pio X lo annoverò tra i suoi cappellani segreti d’onore nel 1903 e lo incaricò di pubblicare, nel 1905, il volume “La dotazione imprescrittibile e la legge delle guarentigie”. Nel 1909 divenne avvocato rotale.
Abile diplomatico e conoscitore del francese e dello spagnolo, era incaricato d’affari dei vescovi argentini. Il suo amico di gioventù Benedetto XV, al secolo Giacomo della Chiesa, gli propose la nunziatura apostolica del Cile, nel 1914. Mons. Nazareno rinunciò, rimanendo a svolgere il proprio ministero a Roma, quale avvocato rotale e cappellano segreto di Sua Santità. Nel 1919, per Benedetto XV, scrisse un poemetto dal titolo A Benedetto XV nella sua festa onomastica del 25 luglio 1919.
A Bellegra fondò la Congregazione della Ss.ma Addolorata, un culto che egli istituì nella cappella di Santa Lucia, oratorio privato della famiglia Patrizi, associandolo alla Pia Unione Primaria del Ss.mo Crocifisso di San Marcello al Corso. Restaurò le cappelle dei Santi Francesco e Tommaso da Cori e coadiuvò, nell’agosto 1929, i festeggiamenti per il bicentenario della morte di Tommaso da Cori, presso il convento di S. Francesco, cui dedicò la lirica Sacro Ritiro Francescano. Nel 1933 partecipò come giudice (testis rogatus) al Sinodo Diocesano. Pio XII lo elevò al rango di cameriere segreto nel 1939 e di prelato domestico nel 1941.
Nel 1951, Mons. Nazareno Patrizi diede alle stampe la sua ultima pubblicazione: Il mese di giugno ad onore del Sacro Cuore. Il suo animo poetico si concluse, invece, con il componimento Vecchie memorie, pubblicato postumo.
Oltre agli ecclesiastici, nei primi anni del Novecento un ramo della famiglia, con a capo Vincenzo Patrizi, si stabilì a Roma, per motivi lavorativi. Vincenzo Patrizi (Civitella 1871 – Roma 1918) morì a causa dell’epidemia di “spagnola”. Suo figlio, Costanzo Patrizi (Bellegra 1898 – Roma 1971), era soldato di leva di prima categoria (matr. 23716) dal 16 marzo 1917, nel Primo Reggimento Artiglieria da Montagna; disertò dal Regio Esercito il 17 settembre 1919, perché arruolatosi nelle Legioni Fiumane. Riportò la medaglia di cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto e la medaglia commemorativa della marcia di Ronchi. Successivamente fu impiegato dell’INA e fondò la Cassa Rurale e Artigiana di Bellegra. Suo figlio primogenito, Sergio Patrizi (Bellegra 1924 – Roma 1999), commendatore al merito della Repubblica Italiana, era segretario superiore di prima classe, impiegato presso il Ministero dei Trasporti italiano. Lo stesso Sergio si era formato al seminario minore di Subiaco, ma decise di non proseguire verso il presbiterato.
Il risultato della ricerca si è dimostrato ricco di materiale storicamente sì interessante quanto, finora, inesplorato ed ha condotto alle seguenti pubblicazioni:
D. Bracale, Mons. Nazareno Patrizi. Da Bellegra alla Corte Pontificia. Con Excursus: Araldica di Bellegra e pubblicazione dei componimenti di Mons. Nazareno Patrizi A Benedetto XV nella sua festa onomastica del 25 luglio 1919 e Sacro Ritiro Francescano, Roma 2020, isbn 979-12-200-6224-4.
D. Bracale, Patrizi di Bellegra. Presbiteri al servizio della Curia Romana dal XVIII al XX secolo, seconda edizione, Roma 2020, isbn 979-12-200-6279-4.
D. Bracale, Vecchie memorie. Album di figure e luoghi di Bellegra. Con pubblicazione del componimento inedito di Mons. Nazareno Patrizi: Vecchie memorie, Roma 2020, isbn 979-12-200-6611-2.
Non solo ritrovarsi in tanti, ma anche vivere in un castello per tre giorni un’esperienza assolutamente unica e bella di cui conservare con amore e stupore il ricordo e che è stata possibile grazie alle ricerche genealogiche iniziate sul sito degli Antenati e proseguite nelle parrocchie
“Mi posso accontentare? Non so, vorrei vedere gli archivi di Scandolara del 1700, magari c’è qualche altra sorpresa!”
Avevo finito così il mio racconto precedente.
In attesa di nuove scoperte, nel frattempo a settembre 2018, abbiamo organizzato un piccolo incontro tra cugini conosciuti e cugini nuovi. Non eravamo molti, una quindicina, ma credo che ci sia stata emozione da parte di tutti! Qualcuno lo conoscevo già, qualcuno erano più di 50 anni che non lo vedevo, altri, anche se vicini, non li avevo mai visti, ma l’emozione più forte è stata conoscere i due nuovi cugini veneti, nipoti del fratello del trisnonno: è stato amore a prima vista, come se ci fossimo sempre conosciuti! Noi tutti durante l’incontro abbiamo deciso di non “accontentarci” e di andare avanti.
Così ho cercato di approfondire a Scandolara e con l’aiuto del sito consigliato dal portale (familysearch) ho trovato una persona, Andrea Sartorato, che aveva avuto una nonna di nome Bianca Pizziolo e abitava vicino alla zona interessata.
Fortunatamente, Andrea, curioso quanto me, aveva già fatto ricerche per conto suo, anzi era andato anche alla parrocchia di Scandolara ed era riuscito a trovare notizie a partire da circa la metà del ‘700, anche se non sapeva assolutamente se c’erano legami fra di noi.
Ci siamo studiati gli interessanti documenti ed ecco apparire la morte nel 1786 di Giovanni Pizziolo, che dovrebbe essere il bisnonno del mio bisnonno Valentino ed anche la morte di suo padre Sebastiano, nel 1767.
Dico dovrebbe perché non abbiamo documenti per provare la cosa, però abbiamo tante somiglianze a distanza di anni
Riusciamo a capire che, nel 1785 circa, la famiglia si è divisa; una parte dei figli di Giovanni, probabilmente di secondo letto e più piccoli, è rimasta a Scandolara, invece il mio avo Francesco si è trasferito a Mogliano-Carpenedo-Mestre e si è creato la sua famiglia, ma questa è una storia già raccontata. La famiglia rimasta a Scandolara continua con la vita dei campi e col tempo, si divide di nuovo, fino ad arrivare a metà dell’800; qualcuno va in Brasile, qualcuno si trasferisce a Cittadella,
qualcuno rimane ancora lì. Fra quelli che rimangono a Scandolara, c’è un altro Giovanni e da lui arriva Bianca, nonna di quell’Andrea che ha trovato i documenti.
Purtroppo agli inizi del ‘900 arriva la tragedia con la prima guerra mondiale: infatti, 4 dei giovani Pizziolo, perdono la vita, chi sulle Dolomiti, chi sull’Isonzo. La vita però continua e generazione dopo generazione arriviamo a dopo la seconda guerra mondiale, quando nel 1949 nasce Corrado.
Perché Corrado è importante per la mia storia e per il raduno? Perché è stato lui che ha voluto questo incontro allargato, prendendo l’occasione delle mie nozze d’oro, e ci ha dato i luoghi dove farlo. Infatti è il vescovo attuale di Vittorio Veneto ed il vescovado ha sede nel Castello di San Martino.
Alla luce delle scoperte e con molta titubanza, provo a mettermi in contatto con lui e trovo, sì il vescovo, ma anche soprattutto l’amico e cugino, che dopo la prima sorpresa per questa storia, che ha svelato quasi completamente le vite dei Pizziolo degli ultimi 300 anni circa, si appassiona alla cosa e propone di riunire tutti i rami in Veneto, terra di origine.
Lanciamo l’idea, io con i miei del ramo dell’Italia centrale, lui con i suoi del ramo veneto e, sicuramente, cogliendo l’occasione per rivedersi o per conoscersi, si aggregano in tanti! E mentre l’anno prima eravamo una quindicina, questa volta siamo 10 volte tanto! Pescara, Firenze, Bologna, Roma, Mestre, Udine, Lussemburgo e naturalmente molti dei paesi intorno a Treviso, mezza Italia e non solo, rappresentata! Siamo talmente tanti che mons. Corrado deve spostare la sede dell’incontro nel seminario vescovile! Però noi che veniamo da lontano alloggiamo nella zona del Castello dedicata all’ospitalità.
Che dire? Un luogo con più di 1000 anni alle spalle, mura antiche che hanno visto la storia della regione e che hanno ospitato, per 11 anni, anche papa Luciani.
Giorni passati a conoscersi o a farlo meglio. Conoscere una realtà mai pensata e diversa da quella a cui si è abituati, risate per i vari inconvenienti capitati, come mangiarsi un panino in una fattoria o macchine che non partono o treni saltati e poi nuove amicizie, tanti abbracci e la promessa di rivedersi per conoscersi un po’ di più.
Promessa che vorremmo mantenere nel prossimo settembre, ma se non sarà quest’anno, sarà sicuramente il prima possibile.
Tutto il frutto delle ricerche sul Portale e di quello che possono aggiungere nella vita di ognuno è riassunto molto bene nelle parole che ci ha regalato, durante l’incontro, mons. Corrado e che chiudono degnamente il cerchio di questi anni:
“Carissimi,
l’evento che stiamo vivendo è stato organizzato un po’ alla garibaldina, pensando a un numero molto ridotto di partecipanti, In realtà ci troviamo molti di più, al punto che facciamo fatica a starci. E se questo è senz’altro un inconveniente, possiamo anche però, vederlo come frutto della voglia di ritrovarsi insieme, incuriositi e desiderosi di vedere la faccia, sentire la voce e conoscere l’esperienza di altre persone nelle cui vene scorre, in una certa misura, un legame di sangue che ci precede e ci unisce.
Sapere che tanti anni fa quelli che ci hanno preceduto abitavano in un’unica casa e costituivano un’unica famiglia, è un pensiero che certamente ci colpisce e ci meraviglia. Conoscere anche solo superficialmente i motivi e i percorsi attraverso i quali gli antenati che ci hanno preceduto si sono sparsi in luoghi diversi, a volte anche molto lontani, non è soltanto una semplice curiosità, ma in un certo senso, entra a far parte della nostra stessa esperienza personale e familiare; è qualcosa che sentiamo nostro, sicuramente in modo assai diverso rispetto a quello che conosciamo leggendolo nei giornali o sentendolo raccontare da altre persone pur vicine a noi.
La vicenda di Valentino che entra nelle ferrovie meridionali e sposa Maddalena Salvarezza, spostando tutta un’asse della famiglia Pizziolo nell’Italia centrale; la vicenda familiare di Sebastiano Francesco che si sposa quattro volte e si sarebbe sposato ancora se i figli, ormai genitori a loro volta, non l’avessero dissuaso; la vicenda di Virginio, Martino, Luigi, Ulderico e ancora di un altro Luigi, sempre Pizziolo, che persero la vita nella grande guerra; la vicenda di Giuseppe, maestro del paese per 40 anni; la vicenda di Mario, calciatore della Fiorentina, stimatissimo da parte del mitico Vittorio Pozzo e campione del mondo nel 1934 a cui fu negata la medaglia d’oro perché non poté giocare la finalissima in quanto gravemente infortunato nella semifinale; la vicenda di Anselmo, Milena, Maria e Angela, nonché di Guido che, più o meno negli stessi anni, consacrarono la vita al Signore, dando testimonianza esemplare della loro vita religiosa…Tutte queste vicende e molte altre che potremmo ricordare, entrano a far parte della storia della nostra famiglia.
È molto bello, se ci pensiamo, magari non le avevamo mai conosciute, ma sentendone parlare, sentiamo che, poco o tanto, ci appartengono: sono la nostra storia!
Grazie quindi di essere venuti e venuti numerosi. Grazie a questa ricerca che ha messo in moto tutto questo e che ci ha permesso di conoscerci anche con quanti neppur sapevamo che esistessero. D’ora in poi, anche se non ci frequenteremo molto, sarà sicuramente di conforto sapere che in qualche parte d’Italia o del mondo, i Pizziolo continuano a portare avanti la loro vita e la loro famiglia. Sapendolo, pensiamo a loro con simpatia e affetto, sperando che la loro vita sia buona, onesta e serena.
Vittorio Veneto 12 ottobre 2019”
E io aggiungo… grazie al lavoro di chi inserisce tutti gli archivi storici sul Portale degli antenati e ci ha dato la possibilità di ritrovarci.
Sono stato spinto a ricercare notizie sulla famiglia paterna dai generici racconti che mio padre mi faceva da bambino sul suo nonno svizzero, che lui aveva conosciuto e che si chiamava Amanzio, e su sua nonna, il cui nome era Vittoria, che invece era di Vallo della Lucania. Per cercare notizie ho consultato il portale Antenati, altri documenti in rete sull’esercito del Regno delle Due Sicilie, e il fondo Libretti di vita e costume dei militari del Regno delle Due Sicilie, conservato presso la sede distaccata di Pizzofalcone dell’Archivio di Stato di Napoli. Dalle mie ricerche ho ricavato le seguenti notizie.
Il mio trisavolo Amante Kohler nacque a Messen, nel Cantone di Soletta (Svizzera) l’11 marzo 1820. Nel 1840 circa venne a Napoli e si arruolò nell’esercito delle Due Sicilie.
Dagli atti consultati risulta che fu un ufficiale, 1° tenente del Reggimento dei Veterani Svizzeri, che partecipò a diverse campagne militari ed ebbe anche due decorazioni di guerra. Il suo nome risulta anche a pagina 430 dell’Almanacco Reale del Regno delle Due Sicilie stampato nel 1857, dove si conferma che fu ufficiale, prima del 2º Reggimento Svizzero “de Sury d’Aspermont” e successivamente, durante la campagna del 1860-61, del Reggimento dei Veterani Svizzeri.
Dall’estratto del foglio matricolare risulta anche che alla fine del 1858 aveva due figli ed era sposato. Sua moglie era la marchesa Teresa Andreassi, nata a Napoli il 20 settembre 1823, di cui sono riuscito a individuare l’atto di nascita. Amante Kohler morì a Gaeta il 15 marzo 1861, due giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia, al termine dell’assedio della città da parte dei Piemontesi; aveva partecipato anche alla battaglia del Volturno.
Morì probabilmente di tifo o per le ferite riportate. Su Antenati ho individuato il suo atto di morte. Dei suoi due figli ho trovato notizie solo di uno, Amanzio Kohler, il mio bisnonno che, da un atto di nascita di una sua figlia Ersilia, intuisco che fosse nato nel 1858 o 1857, in quanto dichiara di avere 38 anni nel 1896. So che la sua professione era usciere di banca, e dai racconti di mio padre, la banca potrebbe essere l’American Express, filiale di Napoli. Si sposò con Maria Vittoria Pignataro, nata a Vallo della Lucania (Salerno) il 21 ottobre 1860. Ebbero tre figli: due femmine, Maria ed Ersilia, e un maschio, Luigi Kohler che era mio nonno, di cui presento una foto all’età di circa 30 anni, nel 1914.
Della mia famiglia non conosco altre notizie: mi mancano notizie sul fratello\sorella di Amanzio, sulla sua nascita, sul luogo dove vissero a Napoli Amante Kohler e Amanzio Kohler anche se ho vaghi ricordi, dai racconti di mio padre, che ormai non c’è più, di una dimora a Napoli in vico Satriano nella zona di Chiaia.
Nei ruoli matricolari ho trovato invece notizie almeno di un altro Kohler, ossia di un certo Vittorio o Vittore Kohler, capitano, nato a Soletta nel 1808, che potrebbe essere il fratello di Amante.
Ringrazio il Portale Antenati per avermi dato la possibilità di ricostruire tante notizie della mia famiglia e condivido il racconto di quanto ho potuto ricostruire anche nella speranza che altri utenti del Portale possano aiutarmi ad avere ulteriori notizie della mia famiglia e della famiglia Andreassi nel sec. XIX.