Mi chiamo Maria Cecilia Biagi, anche se per tutti sono sempre stata semplicemente Cecilia. Sono una farmacista e un po’ per caso sono venuta a conoscenza di un laboratorio di genealogia organizzato dall’Archivio di Stato di Prato a cui ho deciso di iscrivermi per ripercorrere la storia della mia famiglia.
Oggi sentiamo spesso parlare di cervelli in fuga e abbiamo gli occhi pieni di immagini terribili di barconi stracolmi di migranti, ma l’uomo è stato da sempre in cerca di un mondo migliore dove potersi affermare o se non altro alla ricerca di quel minimo di sostentamento che possa garantire una vita dignitosa.
Ho sempre sentito parlare, nei racconti che sono stati tramandati nella mia famiglia, della lunga emigrazione dei miei nonni e del mio babbo in Corsica. La storia di questa migrazione si lega a un oggetto, un “prezioso cimelio” da sempre conservato nel salotto di casa nostra.
Si tratta di un vassoio che sulla superficie aveva un dipinto raffigurante Calvi, un piccolo comune situato nella parte nord-ovest della Corsica e che mia nonna era solita indicarmi perché lì aveva vissuto per molti anni.
I nonni, partirono da Luciana (Vernio) negli anni ’30 del Novecento, e appena arrivati in Corsica, furono ospitati da una nipote che là già viveva ed aveva, insieme al marito, un panificio e una bottega di generi alimentari. I nonni si cimentarono in vari lavoretti e anche mio padre, che era solo un bambino, dava il suo contributo: prima di andare a scuola inforcava la sua bicicletta con un grande paniere di vimini per fare le consegne del pane.
Il nonno lavorava alla costruzione delle strade e la nonna era a servizio in una famiglia di un medico, un certo dottor Crudeli.
Quegli anni furono di grande emancipazione per la famiglia considerando che da un piccolo paesino di montagna come Luciana di Vernio (Prato) si erano spostati in un’isola dove il mar Tirreno li divideva dalla loro patria. Gli occhi della nonna e di mio padre si illuminavano quando rievocando quegli anni trascorsi all’estero. Inoltre tutto ciò permise loro di raggranellare un po’ di risparmi e di comprare, una volta tornati in Italia, la casa in cui io sono nata.
Nella mia ricerca genealogica ho anche scoperto che il babbo della mia nonna, il mio bisnonno Beniamino Moncelli, aveva già percorso quella rotta nel lontano 1899 perché al momento della nascita di sua figlia Cecilia è la levatrice, la signora Olga Pacini, che va a dichiararla all’Ufficio di Stato Civile di Vernio e sull’atto di nascita è riportato che il padre è assente perché si trova in Corsica a lavorare.
Evidentemente la valle del Bisenzio non offriva molte opportunità: la pastorizia e la castanicoltura, attività tipiche del luogo, non erano sufficienti a sfamare la famiglia.
Questo fenomeno di migrazione verso la Corsica ha interessato molte famiglie della Val di Bisenzio e ancora oggi, nei mesi estivi, nel piccolo borgo di Cavarzano, non è raro incrociare macchine con targhe francesi e soprattutto corse.
Stesse scene si possono vedere anche nella vicina frazione di Fossato (Vernio), interessata anch’essa da un’importante emigrazione verso Marsiglia.
Nella mia soffitta custodisco ancora gelosamente il baule che aveva accompagnato i miei nonni durante la traversata per mare: erano lì raccolte le poche cose che possedevano e soprattutto era carico di tante speranze!
In qualche modo la valle del Bisenzio e la Corsica si intrecciano insieme alle storie delle loro genti.
Mi chiamo Maria Cecilia Biagi e ho deciso di ripercorrere la storia della mia famiglia. Di rimettere insieme i racconti di mia mamma e della nonna che purtroppo non ho potuto conoscere
Pochi atti di nascita e un muro di confine divideva i miei nonni materni.
La nonna, Giulia Mengoni, era stata registrata col numero 1606 nel volume dei nati del Comune di Prato; il nonno, Vincenzo Maggini, col numero 1619: nati nello stesso giorno di Santo Stefano del 1884.
Come se non bastasse, le loro case erano anche confinanti, nella zona di Filettole (Prato).
Hanno trascorso l’infanzia insieme e so che il nonno le aveva giurato che l’avrebbe sposata da grande. Certe volte tra bambini si dicono le cose un po’ per gioco, ma loro due invece l’hanno fatto davvero. So che è stato un amore un po’ contrastato da parte della famiglia Maggini perché consideravano la nonna Giulia una “fabbrichina”, una lavoratrice in fabbrica, e quindi non in grado di apportare un aiuto nel lavoro dei campi.
Nonostante ciò, nel 1915 si sposano. Hanno prima due bambine che però muoiono perché il nonno aveva contratto la malaria nel suo trasferimento in Maremma per lavorare come carbonaio. Successivamente hanno altre due bambine a cui danno gli stessi nomi di quelle prematuramente scomparse: Lina, la più grande, e Loretta Dina Maria la minore, che altri non è se non la mia mamma.
Prima della nascita di Loretta tutto filava liscio o almeno come in tutte le famiglie: fra alti e bassi. Dopo il parto però la nonna Giulia si ammala; mi si raccontava che le era stato riscontrato un “doppio vizio mitralico e aortico”. Oggi si direbbe che era affetta da stenosi. Consultando il registro degli infermi nel fondo Ospedale Misericordia e Dolce dell’Archivio di Stato di Prato ho potuto avere conferma di quella che era la sua diagnosi nel 1928.
Passano tre lunghi anni segnati da fame e sofferenze: la nonna è malata e non è in grado di accudire le sue bambine che quindi vengono affidate alle cure degli zii. Il nonno, il loro padre, è preoccupato nel vedere la moglie sempre più sofferente e nel non sapere mai dove siano le bambine, soprattutto la più piccola.
Aveva dovuto affrontare anche il baliatico recandosi a Vaiano, una località della Val di Bisenzio (Prato), in pieno inverno con quel fagottino che reclamava latte a più non posso.
Nonostante tutte le cure e le premure, in una gelida sera di Dicembre, più esattamente il sei del 1928, detto anche l’anno della tormenta, Giulia lo lascia solo con il suo dolore e con due bambine piccole: Lina di sei anni e Loretta di tre. Posso solo immaginare la disperazione di quest’uomo.
Non di poco conto fu anche l’impegno economico che dovette sostenere: donne di servizio, sparizione di corredo, gioielli e quant’altro di commestibile si trovava in casa.
Le medicine al tempo erano tutte a pagamento e il nonno aveva il conto aperto con il Dr. Giuseppe Bottari, titolare della farmacia di Piazza Duomo.
In tutto questo una signora, dama di carità moglie dell’allora direttore generale del Fabbricone, la signora Cardelli, gli propone il lavoro di guardia giurata notturna. Un lavoro di responsabilità, con tanto di porto d’armi ma che garantiva loro il sostentamento. Nel frattempo i fratelli e le cognate gli proponevano le soluzioni più disparate per sistemare le bambine, tra cui quelle di mandarle in qualche istituto, ma lui al pensiero di doversene distaccare optò per un secondo matrimonio, forse più per dar loro una figura femminile che per altro.
La “matrigna”, ma non voglio chiamarla così ma bensì la nonna Rosina è stata una donna amorevole che ha accolto le bambine, Lina e Loretta, come se fossero sue e a quell’epoca trovare un marito con un lavoro stabile e che ti permetteva di non gravare più sulla famiglia d’origine non era cosa da poco.
Vincenzo continuò comunque a prendersi cura delle sue figlie, e tra un impegno e l’altro coltivava la sua grande passione: quella per il giardinaggio e il pezzettino di terra che curava con più amore era la tomba della sua amata Giulia.
Io ho vissuto la sofferenza che ha contraddistinto la vita di Loretta, mia madre: quella mancanza che l’ha accompagnata in tutti i suoi giorni. Non posso fare a meno di ricordare che in punto di morte aveva un gran sorriso e che di sicuro era rivolto al pensiero della sua mamma.
Questo breve scritto lo dedico a lei.
Un suggerimento a chi leggerà queste poche righe: raccontate sempre le storie delle famiglie, tramandatele, perché sono il nostro tessuto, la trama su cui noi poi mettiamo i fili. Per me è stato molto bello ripercorrere a ritroso la storia della mia famiglia; è stato come ricomporre un puzzle, far riaffiorare alla memoria tanti ricordi che credevo sopiti.
La mia ricerca parte da storie di tanti anni fa, storie tramandate e sentite in casa, in famiglia, racconti quasi sussurrati a me e ai miei fratelli dal mio babbo nel corso della sua vita; storie non sempre facili da raccontare, ma intense e vere; storie che hanno segnato profondamente tutta la mia famiglia. Mi chiamo Saverio Cecconi, sono nato e vivo a Prato e queste sono le storie della mia famiglia, che ho provato a documentare con la ricerca in archivio.
È il 1935. Il regime fascista promuove la campagna nazionale “Oro per la patria”. I Cecconi, contadini di un podere a Casale, frazione della piana pratese, non hanno niente di valore da consegnare all’incaricato locale, tranne un vecchio registro di conti della tenuta, un tempo di proprietà della cittadina comunità domenicana di San Vincenzo. Mio nonno decide di donare questo quaderno, così prezioso per la famiglia, perché al suo interno, si dice, ci sono annotazioni di mano di Caterina de’ Ricci (1522 – 1590), santa mistica domenicana, che ha vissuto tutta la sua esperienza religiosa proprio nel citato monastero e alla quale da sempre i pratesi sono devoti.
Mi metto alla ricerca di una possibile ricevuta che attesti la consegna del documento e sfoglio i sei grossi volumi attestanti le consegne di preziosi della campagna fascista tenuti dall’allora Cassa di Risparmio di Prato e oggi conservati presso l’Archivio Storico Diocesano di Prato: purtroppo, lo spoglio non ha esito positivo. Il territorio di Casale presenta poche ricevute rispetto al numero della popolazione. La fine del registro di Santa Caterina de’ Ricci rimane nebulosa.
Nel frattempo mi appassiono alla ricerca e decido di conoscere meglio le mie radici, i Cecconi. Sono in pensione: ho del tempo da dedicare a questo nuovo interesse. Nello stesso Archivio Diocesano comincio a consultare gli Stati delle anime della parrocchia di Casale, per verificare la presenza della famiglia, nello scorrere delle generazioni, su questo territorio. Senza troppe difficoltà riesco a documentare come i Cecconi siano qui attestati ininterrottamente dal 1683. La prima famiglia rintracciata è quella di Francesco di Domenico Cecconi, grazie allo Stato delle anime della parrocchia di S. Biagio a Casale del 1683. Sempre scorrendo gli Stati delle anime noto anche che i Cecconi hanno lavorato in vari poderi; fra questi ce n’è uno tenuto ininterrottamente dai miei antenati dal 1721 al 1816, all’inizio di proprietà delle monache di San Vincenzo e, conseguentemente alla soppressione degli inizi del XIX secolo, passato in mano ai frati conventuali.
E prima? Decido allora di fare un salto in Archivio di Stato a Prato: qui, quasi per caso, in una filza seicentesca della comunità di Prato mi imbatto in un elenco delle bocche, divise per popolo del 1642.
Trovo quello che cerco e anche di più. Domenico Cecconi, con 18 persone a carico, è lavoratore dei Ceppi.
Questa informazione è fondamentale per proseguire e arricchire la mia ricerca familiare, consentendomi di avere dettagli inaspettati e di superare i limiti cronologici legati ai documenti tradizionalmente usati per la ricerca genealogica. I Ceppi sono un’istituzione territoriale di assistenza, nata dalla fusione cinquecentesca di due enti medievali, il Ceppo Vecchio, fondato da Monte di Turingo Pugliesi nel 1282, e il Ceppo Nuovo, voluto da Francesco di Marco Datini nel 1410. Questa istituzione ha una grande patrimonio fondiario, che dà in locazione.
La documentazione prodotta da quest’ente è ancora oggi custodita proprio a Palazzo Datini, sede dell’Archivio di Stato di Prato. Grazie ai contratti di allogagione ricostruisco il lungo rapporto di fiducia tra i Ceppi e i miei antenati, che gestiscono dagli inizi del Cinquecento loro proprietà, dislocate nella campagna posta a sud-ovest della città: Paperino, Sant’Ippolito in Piazzanese, Galciana, Iolo, Casale, Tavola.
Decido di consultare i registri dei battesimi, matrimoni e morti di queste parrocchie, conservati stavolta in Archivio Diocesano a Pistoia. L’albero genealogico che riesco a tracciare presenta più di 300 nominativi, a partire dal 1483.
Nel completare e consegnare la storia della mia famiglia non voglio, né posso tralasciare un ultimo tassello, grave e doloroso, quasi appena accennato e sempre con pena e pudore ancora una volta dal babbo.
Si tratta di un grave episodio accaduto alla sorella di mio padre nel 1944, a Tobbiana di Prato, in località Goraccia, dove i Cecconi gestiscono un podere. Mia zia Iolanda è una bella ragazza, poco più che ventenne, conosciuta da tutti in paese per il suo impegno costante tra le fila dell’Azione Cattolica in parrocchia. È ben nota anche la sua vocazione religiosa: entrata per probandato tra le benedettine di San Clemente, durante i mesi più drammatici dello svolgersi della guerra, torna a casa, a Tobbiana, ritenuta rifugio più sicuro nei confronti del monastero cittadino. Qui, invece, è vittima di una tentata violenza da parte di militari nazi-fascisti. I soldati tengono sotto la minaccia delle armi tutta la famiglia; la ragazza, da sola, riesce a difendersi, ad impedire lo stupro. Le conseguenze sono drammatiche: picchiata a sangue e quasi ridotta in fin di vita, è costretta a un lungo ricovero. Le cure sono molteplici e costose, sostenute totalmente dai familiari, che spendono tutto il patrimonio messo da parte: una cospicua somma, destinata in prima istanza proprio per comprare il podere da loro lavorato. L’acquisto sarà solo rimandato; Iolanda, ristabilitasi, prende i voti religiosi prima tra le Spigolatrici della Chiesa, poi nella Pro Verbo di monsignor Danilo Aiazzi. Zia Iolanda custodirà per tutta la vita con grande dignità e riservatezza la disgrazia accadutale e le sofferenze sopportate.
Anche su quest’evento ho voluto indagare e provare a rintracciare documentazione storica. Nell’Archivio Diocesano di Prato ho trovato il resoconto dell’episodio di “eroismo e crudeltà” redatto per la curia dall’allora parroco di Tobbiana, come pure, nel fondo Fantaccini, tutta la corrispondenza in merito all’accaduto tra il prelato e il comando tedesco e l’invio di informazioni da parte di monsignor Fantaccini al parroco di Tobbiana.
Ancora, nel fondo Aldo Petri, presso la cittadina Biblioteca Lazzerini, si ricorda come nel primo anniversario della fine della guerra mia zia sia stata insignita, assieme ad altri, di “attestato di eroismo”. Si chiariscono i non detti del babbo, comprendo, ora più che mai, scelte e decisioni familiari e quanto queste decisioni abbiano voluto tutelare me e i miei fratelli; la stima, già grande, per zia Iolanda diventa infinita!
Ora è arrivato il momento di consegnare la storia della famiglia Cecconi a mio figlio, ai miei fratelli e alle loro famiglie, perché solo con la consapevolezza del nostro passato, possiamo comprendere al meglio il presente e guardare fiduciosi al futuro.