Un quadro macchiaiolo con cavalli al pascolo, semplicemente firmato “Giulia” dalla mia bisnonna materna, è stato la molla che mi ha lanciato nella ricerca genealogica. Volendo annotare dietro la tela il cognome dell’autrice e non quello del marito, ho telefonato all’anagrafe di Fiesole; mi hanno detto che si chiamava Pellegrini e che era pisana. Obiettivo raggiunto, poteva finire tutto qui, con una lieve picconata alla fiorentinità garantitami da mio padre. Già la sapevo incrinata da sua mamma valdarnese, che mi aveva cresciuto in via Masaccio, e dalla mitica bisnonna Giannina Aliboni (con la ò aperta), livornese di Antignano, al secolo Maria Giovanna. Morta suicida per essersi fatta e mangiata – lei diabetica ma ottima cuoca – un intero latte alla portoghese di sei uova, una sera che era stata lasciata sola in casa.
Tanti fatterelli di questo genere mi frullavano in testa insistentemente in una camera dell’ospedale Don Gnocchi mentre cercavo di riprendermi da un grave incidente di percorso, qualche anno fa. Tra un tentativo e l’altro di fuga in pigiama, mi misi ad annotarli sul portatile così come me li ricordavo; illudendomi che a mia figlia avrebbero potuto interessare, caso mai ci avessi lasciato le penne. Erano pieni di errori, ovviamente, per quanto riguardava date e parentele, perché scritti con niente sottomano da poter controllare e con la testa in stato semi-confusionale per la batosta. Comunque, ignoravo bellamente di trovarmi in quel preciso momento al centro del soppresso comune di Caselline e Torri, in parte divenuto poi Scandicci: questo lo realizzo adesso dal Portale Antenati. Ebbene proprio lì i miei avi paterni erano stati contadini per generazioni: parrocchia di San Martino alla Palma, per la precisione. Un ameno borgo collinare che casualmente da anni attraverso, ogni tanto, quando la Firenze Pisa-Livorno è intasata in modo grave. Giocondo Baccetti, di Luigi, classe 1829, padre di almeno quattro figli morti entro l’anno di età e infine del buon Adolfo, quest’ultimo insufficiente a mantenere da solo la tradizione mezzadrile. Inurbandosi al momento giusto, trova un impiego statale nel caos della dipartita di Firenze capitale. Custode in un museo e marito (per chissà quale congiuntura) della ghiotta e stizzosa bisnonna livornese. Lui invece mitissimo, dopo il pensionamento si dedicò a quotidiane passeggiate in campagna, da cui tornava a casa tutti i giorni stremato. Scommetto che andava verso San Martino alla Palma, ma da via Passavanti era un bel camminare.
Altro universo quello degli Aliboni di Antignano, frazione delle dimensioni ottimali per elargire non troppo di rado qualche soddisfazione sul Portale. Gli uomini quasi tutti marinai oppure scalpellini, che facevano a pezzi la panchina del Tirreniano lungo la costa di Calafuria, per la costruzione dei palazzi livornesi (Andrea, babbo della Giannina, era tra costoro). Le donne invece tutte lavandaie, suppongo al servizio delle famiglie della Livorno bene. Doveva esistere, nella zona, un “botro” con acqua particolarmente copiosa e pulita. Tante le famiglie Aliboni ad Antignano, che per orizzontarmi ho dovuto ricopiarle dal censimento del 1841 dentro a un file Excel; il mio ramo è risultato quello di Valente, nato prima del 1740. Grande sorpresa avervi trovato direttamente collegato il “tenente castellano” del paese: Girolamo Mariani, classe 1777, di nazionalità còrsa. Nonno materno di Andrea, era a capo dell’ultimo drappello di cavalleggeri granducali alloggiati nel castello costruito ai tempi di Cosimo I. Mariani e Maestracci erano le famiglie corse immigrate, strettamente imparentate tra loro, sulle quali non dispero di riuscire a trovare più precisi collegamenti con l’isola di origine.
Tornando alla quiete dell’entroterra toscano, sempre dal lato paterno c’è mia nonna Tea Niccolini (ma si firmava Théa per vezzo), un tesoro di donna nata a Terranuova Bracciolini nel 1898. Essendo dicembrina, trovava ragionevole ringiovanirsi di qualche settimana dichiarando un anno solare in meno. Ma anche così, le sarebbe rimasto addosso il puzzo d’Ottocento (sua la definizione), quindi con disinvoltura di anni se ne levava due. Donna a suo modo moderna, mediocre ai fornelli ma provetta nel crawl, che aveva imparato da giovane nell’acqua fangosa dell’Arno. Si diplomò all’Accademia di Belle Arti e per la vita si dette alla miniatura, sotto la guida di sua zia Maria Niccolini che aveva fatto da apri-pista a Firenze trent’anni prima. Erano rispettivamente figlia e sorella di Giovanni: un fornaio del 1870 che tradì una dinastia di poveri calzolai vissuti per almeno cinque generazioni al riparo delle mura terranuovesi, fin da un altro Giovanni del primo Settecento. ‘Piciullo’ il loro soprannome, tramandato di padre in figlio qualsiasi fosse il vero nome (spesso: Tito). Ma è la mamma della Tea che ora interessa, su cui io sapevo pochissimo perché morì giovane: Pia, dei Franciolini di piazza Santa Felicita, finora l’unico pezzo genuinamente fiorentino di questa storia. Penso che fossero loro ad ospitare Tea negli anni dell’Accademia, e da ciò il legame con suo zio Raffaello Franciolini. Proprio zio non era ma quasi, a quanto vedo rovistando nel Portale. Estroso personaggio, commerciante di cappelli e chincaglierie, si fece costruire dal Coppedè la palazzina liberty sull’angolo di via Giotto, casa e laboratorio. Sposò una Borrani nipote dell’omonimo pittore (ma non quella che piaceva a lui, la sorella Elettra) e la portò a vivere in via della Cernaia accanto ai Pineider… e qui inizierebbe un altro immenso groviglio di parentele acquisite che non saprei a parole come gestire.
Cerco quindi di chiudere il cerchio con la mia famiglia materna: da una parte il nonno Mario Paoletti, chimico nelle industrie tessili di Prato ma soprattutto eccellente fotografo. Figlio di Flaminio, ispettore scolastico giunto a Firenze da una famiglia contadina della campagna pisana, zona di San Benedetto a Settimo nei pressi di Cascina. Anche nel suo caso, fu per attrazione della meteora di Firenze capitale? Sui registri di San Benedetto risalgo indietro zoppicando per un paio di generazioni, poi ci sono problemi di archiviazione dei files che non ho ancora capito come affrontare.
Su mia nonna Fiorenza (nonna Enza o zia Flò, a seconda dei punti di vista) incombe invece una famigliona di quelle toste: i Frascani, originari di San Casciano Val di Pesa. Con una serie di notai, giudici e camerlenghi, ti fanno arrivare senza batter ciglio fino a un Bartolomeo di Filippo, di metà Seicento. Con Francesco vi fu l’immigrazione a Firenze, dopo la laurea in Medicina a Pisa nel 1815. Residenza: nell’allora via del Cocomero, accanto all’omonimo teatro (il Niccolini di oggi). “Medico in Firenze popolarissimo”, lo definì Ferdinando Martini, fu assiduamente al lazzeretto fiorentino durante l’epidemia di tifo del 1817 e durante quelle di colera del 1835 e 1855 (Paoli 1874, Cenno biografico del dott. Francesco Frascani letto davanti al feretro nella cattedrale fiorentina il 5 febbraio 1874). Padre di prole numerosa e altrettanto prolifica, ebbe per moglie dapprima la pisana Eleonora Pellegrini, poi una modista di via Calzaioli, alla cui ultima figlia, Clementina Frascani, fece sposare il figlio del fratello di Eleonora, Giuseppe Pellegrini. Con buona pace delle regole sulla consanguineità, visto che ne nacque Giulia, da cui questa storia è partita: futura moglie di Gino, nipote diretto dello stesso Francesco e di Eleonora in quanto figlio di Ranieri Frascani (smooth operator di giorno alle Dogane, ma di sera attore “amabile e disinvolto” al Cocomero). Gino Frascani fu un bravo ostetrico, come suo cugino Vittorio, noto sindaco di Pisa e massone omaggiato anche del nome di una via nel quartiere di Pisanova. Gino invece è stato recentemente riesumato alle cronache non per le proprie doti mediche (suo l’opuscolo intitolato “Donna, partorirai senza dolore”), né per aver costruito l’ospedale ginecologico per ragazze madri del Salviatino, ormai fatiscente nelle esilaranti riprese del cult “Amici miei” di Monicelli. Bensì per aver ospitato decine di ebrei in fuga nella sua Villa Primavera, come si apprende dal blog di Richard Brook/Bruch.
Ancora memore della bontà del latte appena munto dalle ultime discendenti dell’esercito di mucche con cui Gino cinquant’anni prima alimentava i pargoli del suo ospedalino, non mi resta che ringraziare Carole Vaillant, lontana parente francese di cui ignoravo l’esistenza, spuntata all’improvviso dai meandri di Geneanet. Con grande pazienza aveva già ricostruito buona parte della saga dei Frascani. E’ lei che mi ha fatto conoscere il Portale Antenati e quello dei battesimi di Santa Maria del Fiore.