Anni fa raccontavo a mio figlio episodi di famiglia riguardanti persone che non aveva mai conosciuto, così lui mi chiese di scrivere appunti su di loro e sul legame che ci univa.
Mi aspettava un grande impegno: avrei dovuto ricordare, catalogare, riordinare e soprattutto rendere comprensibili i dati prodotti a chi (ai posteri?) avesse voluto rileggerli.
Cominciai timidamente con un editore di testi capace di inserire organigrammi che potessero somigliare ad un albero genealogico; ma intanto perché non servirsi dei social e dei motori di ricerca per trovare qualcosa sulla rete che potesse rendermi il lavoro più veloce?
Un software online mi consentì di individuare e memorizzare circa 1500 profili di persone della famiglia, di cui almeno la metà non più in vita. Le notizie su ciascuno di loro non erano sempre certe o complete, ma comprendevano almeno sei generazioni passate e presenti.
Le conseguenze di questo approccio furono emozionanti: il motore di ricerca, insieme ai contatti individuati e successivamente confermati sui social network, alimentavano la mia adrenalina al pari di un gioco, di una scommessa, in cui vincevo la conferma delle mie congetture con alta probabilità: la ricerca era diventata una dipendenza necessaria alle mie conoscenze, soprattutto quelle del passato.
Allo stesso tempo, continuavo ad alimentare il mio bisogno di sapere anche con altri mezzi: un cugino aveva una raccolta di documenti relativi ai nostri nonni e agli zii scomparsi; nel cassetto personale di mia madre avevo ritrovato un numero imprecisato di “preci funebri” con i dati anagrafici e la foto di defunti, conoscenti, amici e parenti, che mi avrebbero aiutato nelle connessioni storiche; cominciai a far visita agli archivi anagrafici dei Comuni di nascita dei miei antenati; scoprii che alcuni erano andati distrutti a causa di incendi, che ad altri mancavano i dati anteriori al 1850.
Contattai online l’Archivio di Stato di Salerno, provincia d’origine della famiglia, che aveva indicizzato le liste di leva in un periodo storico limitato, ma forniva informazioni solo sul genere maschile con riferimento ai genitori dell’iscritto.
Albero genealogico della famiglia Di Cunzolo
Rintracciai i discendenti degli avi che attraversarono l’Oceano tra l’Ottocento e il Novecento: li contattai, li abbracciai in Italia, li accolsi nel calore della mia casa, mostrai loro i luoghi degli antenati, raccontai e lasciai che si raccontassero…
All’Archivio di Stato, accompagnata da mia sorella, cercai con successo un dossier sulla vita militare di nostro padre Lucio: a cento anni dalla sua nascita e a trenta dalla morte mi chiedevo perché non gli avessi mai rivolto le domande di cui oggi avevo necessità di risposte.
Da quel momento mi resi conto di aver coinvolto nel gioco anche lei: insieme avremmo potuto ricostruire le nostre radici e regalare a figli e nipoti il prodotto della nostra fame di conoscenza.
Le risposte a tante domande, e purtroppo non a tutte, sono contenute in un volume, Romanzo dei miei spiriti, pubblicato appena un mese fa, che mi piace considerare un dar conto della mia esistenza …
Giuseppe Pavone all’età di 9 anni con la sciabola del bisnonno
Colgo l’opportunità, che il Portale Antenati offre, di delineare la propria ricerca genealogica, condividendo come richiesto i tre punti cardini della ricerca stessa: motivazioni, fonti consultate, risultati. Preciso però che questi tre punti, almeno per me, vanno intesi in senso dinamico perché nel procedere della ricerca hanno assunto contenuti via via più ampi per divenire le componenti di un percorso volto a rintracciare e posizionare le tessere di quel mosaico mio personale che ha per nome Identità.
Motivazioni
La motivazione iniziale alla mia ricerca genealogica è stata certamente quella, comune a tutti, di rintracciare le mie radici. Ma appena appresa l’esistenza dei vari consanguinei, dei loro dati anagrafici, degli eventi cui parteciparono o in cui furono coinvolti, dei luoghi in cui vissero o agirono, delle altre persone che poterono incontrare nel loro percorso di vita, quella iniziale motivazione si è specializzata in brama di conoscenza storica, politica, geografica, urbanistica, sociale, psicologica.
Fonti consultate
Le fonti consultate sono state ovviamente quelle note e che si riassumono nella tradizione orale, nei documenti e fotografie personali o conservati negli Archivi pubblici (di Stato e comunali) e privati innanzitutto ecclesiastici, nei materiali reperiti nel web.
Per quanto riguarda la tradizione orale, essa ha l’indubbio fascino di “mantenere in vita” persone e fatti spesso però confusi e intrecciati tra di loro nel tempo e nello spazio. Infatti, nella mia famiglia si favoleggiava che fosse stata conferita una specifica onorificenza al mio trisnonno paterno in Palermo mentre avrei poi scoperto che gli era stata sì assegnata una onorificenza ma diversa e a Napoli, mentre quella specifica fu assegnata in Gaeta a suo figlio e mio bisnonno, nato a Palermo: insomma la tradizione orale aveva col tempo “fuso e confuso” persone, luoghi e onorificenze in un “mescolanza” che dovetti “decodificare”. L’abilità del ricercatore deve essere quindi identica a quella dell’investigatore il quale, avendo a disposizione un insieme di dati sparsi e talvolta anche contraddittori o errati, è capace di seguire una traccia che lo porterà alla verità dei fatti. E grazie a tale abilità (che ho scoperto di possedere navigando negli archivi cartacei e informatici) potei rintracciare presso la Sezione Militare dell’Archivio di Stato di Napoli un importantissimo faldone riguardante mio trisnonno Filippo Pavone deceduto nel 1848, che all’epoca era stato registrato erroneamente con l’intestazione “Pavone Giuseppe – pensione di grazia alla vedova – anno 1843”. L’intestazione lasciava intendere che si trattasse di un’altra persona deceduta 5 anni prima, però mi aveva incuriosito il fatto che ci fossero alcuni dati che potevano in qualche modo rimandare al mio trisnonno e cioè il cognome, il fatto che la pratica riguardasse un trattamento pensionistico, il nome Giuseppe che poteva essere un’alterazione di Giuseppa, la figlia maggiore del mio trisnonno, e l’anno 1843, la cui ultima cifra poteva essere stata l’erronea trascrizione di un 8 e che poteva quindi coincidere con quello della morte del mio trisnonno. Il mio intuito non si era sbagliato, il faldone contiene infatti un’articolata pratica di concessione della pensione di giustizia, integrata per meriti di servizio da quella di grazia sovrana concessa di sua mano da re Ferdinando II alle tre figli nubili di mio trisnonno Filippo, la cui maggiore era appunto Giuseppa.
4 settembre 1848, Atto di morte di Filippo Pavone
Circa gli Archivi, che ho consultato in molteplici città d’Italia e presso diversi enti pubblici, privati, ecclesiastici, militari, devo purtroppo registrare una diversità di regole e comportamenti dei preposti il che in qualche caso ha rallentato notevolissimamente il procedere della ricerca se non addirittura averla fermata impedendomi, per il momento, di risalire ad epoche precedenti alla fine ‘700. Il Portale Antenati ha reso invece alquanto più facile e veloce la ricerca, grazie al fatto che alcuni nominativi di mio interesse sono stati già indicizzati. Altre importantissime fonti sono state poi i testi specifici di storia che ho consultato volendo ricondurre la mia storia familiare nel contesto delle varie epoche. Infine l’essermi recato nei luoghi dove i miei antenati furono mi ha consentito di immergermi psicologicamente ad occhi chiusi nelle loro realtà, compresi i cimiteri che hanno dato il loro contributo alla ricerca.
Particolare menzione devo comunque dare al gigantesco archivio microfotografico dei Mormoni (correttamente Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni), disponibile anche gradatamente nel Web, di cui mi sono utilmente servito fin dall’inizio della ricerca recandomi presso una loro sede romana e rintracciando basilari registrazioni di atti di mio interesse.
Risultati
Per quanto riguarda il risultato delle ricerche, come ho già detto si tratta in realtà di un percorso conoscitivo, pertanto l’albero genealogico, che per molti costituisce certamente un valido risultato della propria ricerca magari con abbondanza eccessiva di nomi e date, per me rappresenta soltanto uno schema grafico riassuntivo, e in divenire, atto a rappresentare le discendenze e non altro.
Durante questo mio percorso ho vissuto diverse esperienze particolari, descritte nel Diario, e tra queste ne cito di seguito due. Presso la biblioteca del Museo centrale del Risorgimento in Roma sono conservati nel medesimo faldone gli unici memoriali esistenti sulle gesta di unità borboniche durante la campagna di difesa militare del settembre-novembre 1860 contro le truppe d’invasione garibaldine e sabaude. Si tratta dei memoriali relativi al 14° Battaglione Cacciatori e al 1° Reggimento Granatieri della Guardia; ebbene nel primo era tenente poi capitano mio bisnonno Benedetto Pavone e nel secondo suo fratello, il sergente maggiore Carlo Pavone, poi attendente di Benedetto.… immaginate cosa possa aver io provato al cospetto di tali memoriali i quali, mentre per qualsivoglia studioso sono semplicemente i manoscritti di due unità borboniche, per me costituiscono una assoluta particolarità essendo io l’unica persona ad entrambi collegato per motivi di sangue, insomma è come se i due memoriali mi avessero aspettato per oltre un secolo silenziosamente in un faldone d’archivio per consegnare a me solo l’eredità storica di due fratelli miei consanguinei. Inoltre, l’aver trascritto, pubblicato e fatto catalogare nelle principali Biblioteche nazionali i due memoriali, ha risposto al desiderio dei loro estensori di trasmettere ai posteri una testimonianza di veridicità storica che a loro non fu permesso di rendere nota e in tal senso ho percepito di aver svolto una missione che ha travalicato la ricerca genealogica strettamente personale. Una seconda particolarità è quella che nel diario di guerra di mio padre egli vi annotò l’inedita fucilazione di 9 militari italiani a Napoli, da parte dei militari tedeschi, dove egli fortunosamente ebbe salva la vita per non essere stato “scelto” per essere fucilato… la particolarità sta nel fatto che la fucilazione ebbe luogo a ridosso della parete di un edificio in via Cesario Console dove in epoca borbonica esisteva l’alloggiamento militare di mio trisnonno; insomma mio padre che non conosceva alcunché di mio trisnonno e della sua abitazione ebbe salva la vita a ridosso di quella preesistente abitazione… Voglio pensare che sia stata una semplice quanto improbabilissima casualità o una “protezione a distanza di quasi un secolo?
Dal punto di vista storico la ricerca genealogica mi ha permesso di approfondire delle vicissitudini relative all’intero periodo del Regno delle Due Sicilie, grazie all’appartenenza dei miei antenati all’esercito borbonico sia come militari sia come funzionari ministeriali ed avendo essi partecipato ad eventi ben particolari. Sintetizzando, mio trisnonno Filippo, nativo di Gaeta, dopo l’arruolamento in un corpo di élite nell’esercito borbonico quando il Re era esiliato in Sicilia, fu attivo nella difesa delle istituzioni durante i moti del 1848 prima a Palermo, dove scampò dalla morte in un assalto a postazioni di rivoltosi, poi a Napoli dove il 15 maggio, al comando di una Compagnia di granatieri della guardia, si distinse tanto da ricevere la decorazione di cavaliere di diritto dell’Ordine di San Giorgio della Riunione (questi fatti e anche il suo nome sono riportati in vari testi storici). Mio bisnonno Benedetto, invece, al comando di una Compagnia del 14° Battaglione Cacciatori partecipò alla campagna d’autunno del 1860 contro Garibaldini prima e i Sabaudi dopo, sino all’ultimo combattimento di fanteria del 12 novembre dove si distinse venendo decorato con l’onorificenza di cavaliere dell’Ordine di Francesco I. Questi ed altri eventi mi hanno suggerito e permesso di specializzarmi nello studio dell’esercito borbonico e di acquisire diversi volumi di approfondimento delle vicende storiche incontrate nelle mie ricerche d’archivio e familiari. In particolare, le carriere di mio bisnonno e dei suoi tre fratelli, uno sottufficiale dei Granatieri della Guardia e due funzionari dei Ministeri di Guerra e di Marina, e i fatti cui parteciparono, mi hanno permesso di approfondire l’organizzazione generale delle forze armate borboniche nel corso di oltre cento anni.
Un aspetto particolare ha assunto poi l’aver seguito, finché possibile, le sorti di mio trisnonno Filippo e del suo fratello maggiore primogenito Gregorio, appartenenti ad una famiglia molto agiata di Gaeta e di “nobiltà civile”. Pur non essendo più in vigore il maggiorasco, che assicurava ai primogeniti la successione dei beni, il patrimonio rimase a Gregorio, mentre Filippo fu avviato alla carriera militare, sebbene in un corpo di élite come si addiceva ad un rampollo di agiatissima famiglia. Filippo iniziò quindi a Palermo una carriera alquanto pericolosa, perché già si era in tempo di guerra contro la Francia di Napoleone e Gaeta diveniva possedimento napoleonico (da qui si comprende la fedeltà della mia famiglia ai legittimi Borbone). Gregorio rimase a Gaeta a gestire i beni familiari e si sposò ma morì non molto tempo dopo il matrimonio e sua moglie Angela Liberto e successivamente la figlia Cecilia si ridussero a lavori umili, presumibilmente per sopravvenute difficoltà economiche. Invece Filippo, per il quale era stata scelta una vita alquanto difficoltosa, risaliva la scala sociale sposando una agiata giovane appartenente a una altolocata famiglia palermitana e i suoi vari figli maschi ne seguirono l’esempio. Tutto fu poi “rimescolato” con l’Unità d’Italia allorquando i legami tra famiglie di militari borbonici, creati da Benedetto e i suoi fratelli, persero qualunque efficacia e il mio casato entrò nella “normalità”.
Per parte di madre la famiglia d’origine era concentrata nella cittadina tosco-emiliana di Sambuca Pistoiese e in particolare nella frazione di Stabiazzioni che, con altre frazioni, fa ancora capo alla parrocchia di San Pellegrino al Cassero. La famiglia era composta di piccoli proprietari terrieri con gli uomini che integravano le entrate economiche facendo i braccianti mentre mio nonno, come dalle ricerche effettuate, svolgeva anche il mestiere di artigiano nel settore della lavorazione della paglia nella cittadina di Montale dove, per qualche anno, ebbe anche un negozio.
Ma la scoperta più sensazionale è stata aver rintracciato presso l’Archivio centrale dello Stato l’incartamento relativo al conferimento il 4 marzo 1888 a mio nonno Geremia Gherardini della medaglia d’argento al valor civile per aver salvato il 1° agosto 1887 due suoi compaesani dall’annegamento nel fiume Limentra, in località Stabiazzoni del Comune di Sambuca Pistoiese, e questo con manifesto pericolo di perdere lui stesso la vita. Della concessione, da parte di S.M il Re su proposta del Ministero dell’Interno dopo il parere favorevole di apposita commissione e indagine prefettizia di Firenze, venne altresì data menzione nella Gazzetta Ufficiale del Regno del 12 marzo 1888, n. 60.
Messomi quindi in contatto col sindaco di Sambuca Pistoiese, si è deciso di intitolare un sito della cittadina a Geremia Gherardini – Medaglia d’argento al Valor Civile (1856-1915).
Come risultati di sintesi posso accennare ad alcuni miei scritti. La Cronaca familiare in cui descrivo la storia vissuta dei miei antenati sino a mio padre; un Diario in cui annoto giorno dopo giorno, da oltre 25 anni, i singoli passi delle mie ricerche e delle appassionate fantastiche esperienze vissute. Con la Cronaca e il Diario ho potuto quindi dare una dimensione narrativa della ricerca. A questi due scritti associo poi alcune miei testi di storia militare borbonica (catalogati presso le principali Biblioteche di Stato e che riguardano il 14° Battagliane Cacciatori, il 1° Reggimento Granatieri della Guardia, Le truppe estere dell’esercito borbonico dal 1743 alo o1861 ed un prossimo Albo d’onore della Campagna militare 1860) relativi a fatti cui parteciparono i miei diretti ascendenti e collaterali. Aggiungo poi: uno schedario sintetico dei vari componenti l’intero gruppo familiare, diretto e collaterale; una raccolta di fascicoli (quando possibile) per ciascun nominativo contenenti documenti e foto; una raccolta di corrispondenza epistolare (quando non esisteva internet) e di e-mail verso e da enti, familiari e persone; una raccolta di documentazione di supporto; una biblioteca specialistica, soprattutto inerente l’Esercito e la Marina delle Due Sicilie.
Nel comporre ed aggiornare la mia Cronaca familiare ho scoperto e colto un patrimonio umano che mi ha arricchito d’identità; ho potuto così riscontrare in me gli elementi distintivi dei miei antenati. In mio trisnonno Filippo, per la difesa dell’autorità di Stato durante i moti del ’48 a Palermo e Napoli; in suo figlio Antonio, per l’appartenenza tecnica alla Marina Militare; nell’altro suo figlio Michelangelo, per la funzione dirigenziale ministeriale; nel suo terzo figlio, e mio bisnonno, Benedetto, per la fedeltà all’Istituzione di appartenenza ma non oltre il limite umanamente accettabile; e naturalmente nei miei genitori Francesco e Ilda, per la formazione da loro impartitami e che ringrazio d’aver ricevuto.
Ma il vero risultato della mia ricerca genealogica è stata la rivelazione della mia identità di casato e di persona, una identità presente in me da sempre seppur inconsapevolmente, come si può notare nella foto che mi ritrae a 9 anni con la sciabola da ufficiale di mio bisnonno Benedetto in quella residuale abitazione siciliana ottocentesca dove egli morì e dove erano conservate le sue carte.
Concludo questo mio contributo volendo indicare la chiave di accensione che mise in moto la macchina della mia ricerca, ovvero l’aver conosciuto il compianto barone Roberto Maria Selvaggi, all’epoca segretario della Real Casa Borbone Due Sicilie, autore della fondamentale opera Nomi e volti di un Esercito dimenticato. Gli ufficiali dell’Esercito napoletano del 1860-61 (Napoli, Grimaldi & C., 1990), dove è riportato il nome del mio bisnonno quale tenente del 14° Battaglione Cacciatori dell’esercito borbonico. Egli, oltre a farmi speciale dedica al suo volume, mi segnalò all’allora responsabile della Sezione militare dell’Archivio di Stato di Napoli il quale, a sua volta, mi fece “seguire” dall’instancabile e prezioso archivista Achille Di Salle nelle ricerche riguardanti finalmente mio bisnonno e mio trisnonno e in definitiva nel corretto e proficuo percorso della ricerca che da allora ha avuto uno sviluppo corretto e straordinario e che non ha fine.
Giovanni Aldieri al parco Sempione nel 1946
La passione per le ricerche genealogiche sul mio cognome Aldieri è iniziata circa dieci anni fa, stimolata da ricordi di racconti fatti in gioventù da parenti e conoscenti. Spesso pensavo alle mie origini, a chi fossero i miei antenati.
Poiché il web s’ingigantiva di notizie di tutti i generi, storiche e attuali, iniziai la ricerca su Google Libri, per avere notizie sulla storia del mio cognome paterno, Aldieri.
Con sorpresa scoprii che il mio cognome era addirittura esistente nella sua dicitura esatta in un documento pubblicato in Testi dei “Servi della Donna di Cafaggio”: ricordanze di S. Maria di Cafaggio, Firenze (1295-1332), ricordanze di S. Maria del Poggio, Pistoia (1296-1353), Inventario di ex-voto d’argento all’Annunziata di Firenze (1447-1511) della madonna di Cafaggio[1]:
Il documento risaliva alla fine del 1200 e raccontava l’ammissione in convento di una signora di Firenze, tale “Monna Lapa” vedova di Francesco Aldieri.
Con questo, si accese una lampadina che illuminò le mie ricerche: pensavo con eccitazione che il mio “nomen” Aldieri avesse antichissime origini. Pensavo a quel “quondam” Francesco Aldieri, così ricco da lasciare in eredità 300 fiorini piccoli ricavati dalla vendita di un magazzino alla sua vedova, Monna Lapa, che guarda caso era andata in sposa in un periodo che vide anche la nascita di tale Durante de Alagheriis, poi nominato Dante Alighieri. Questo fatto ingigantì il mio desiderio di saperne di più, anche se le origini della mia famiglia Aldieri affondavano tutte nel Regno di Napoli. Di questo venni a conoscenza dal mio primo avo Ernesto Aldieri, al quale venne raccontato da suo padre, secondo avo, Ciro Aldieri di Giovanni, guardia comunale di San Giovanni a Teduccio. Mio nonno Ernesto raccontò anche di essere venuto a conoscenza dell’esistenza di una famiglia Aldieri di origini Toscana, che fondevano cannoni dalla quale provenivano alcuni Aldieri (Ferdinando?) del medesimo comune.
In Google scoprii tantissime notizie su persone con il mio cognome, che rimandavano a derivazioni con origini antichissime. Gli studiosi di onomastica lo farebbero derivare dalla cognomizzazione della professione di un capo tribù barbaro (bravo lanciere) di origine danese o germanica, che si era insediata nell’Italia settentrionale.
Non pago, continuai nelle ricerche su Google Libri e scoprii che un tale Leonardo Aldigerio (Aldieri), originario dell’Italia settentrionale era diventato il capo popolo rivoluzionario della ribellione di Messina del XIII secolo «si trova nella città dello Stretto una famiglia dal cognome inconsueto nell’isola, certamente non indigeno: quello degli Aldigerii o Aldieri. Il rappresentante più illustre di questa famiglia è appunto Leonardo[2]».
Fu in quella occasione, risalente all’anno 2012-13, che scoprii il portale Antenati: non fu solo una lampadina che si accese, ma fu un faro che mi illuminò! Avevo acquisito un tale numero di notizie riguardanti il mio nome, che volevo assolutamente capire da dove venissi: Firenze o Napoli?
Iniziai una lenta ma continua consultazione dei registri dello Stato civile, a cominciare dai registri nell’Archivio di Stato di Firenze, ma non trovai nulla, se non nel registro dei Blasoni delle famiglie toscane descritte nella Raccolta Ceramelli Papiani dell’Archivio di Stato di Firenze, organizzato per la ricerca come database web: lì scoprii uno stemma nobiliare riferito ad una famiglia Aldieri di Firenze, senza nessuna storia allegata .
Famiglia Aldieri nel 1954
Una parente mi ricordò di una nobile famiglia fiorentina Aldieri, che era stata nominata più volte da mia nonna paterna, ma la ricerca degli eventuali rami nobiliari non mi interessava. Comunque, in Toscana e in Umbria scoprii numerose persone con questo nome Aldieri, e scoprii pure che diverse famiglie toscane usavano questo nome da aggiungere al loro per darsi una vanitosa discendenza dal sommo poeta Dante Alighieri: come per esempio un tale Giovanni Aldieri della Casa funzionario del Monte Pio di Siena (ora Monte dei Paschi di Siena), che è nominato nel primo prestito della storia fatto da quell’antica banca; oppure un Prelato domestico di due Papi, Aldieri di Carlo Aldighieri Biliotti Tornabelli.
La ricerca del mio ramo originario in Napoli mi attirava maggiormente e scrissi per avere notizie allo Stato civile del Comune di Napoli, il quale mi fornì importanti documenti che mi re-inviarono al mio secondo avo, Ciro Aldieri. Le mie ricerche proseguirono poi sui registri depositati presso l’Archivio di Stato di Napoli, che mi furono utili per avvicinarmi ulteriormente al mondo dei miei antenati: scoprii ad esempio corrispondenze con i racconti di mia nonna paterna riguardo agli Aldieri dei quartieri Chiaia e San Ferdinando e di altri quartieri in Napoli, ma non con quelli di Castellammare di Stabia.
La svolta decisiva avvenne con la scoperta dell’attività di indicizzazione dei registri di Stato civile da parte di Family Search, come mi venne comunicato da un funzionario dell’Archivio di Stato di Napoli.
Mi iscrissi come indicizzatore in quella organizzazione e dapprima imparai a leggere le scritture dei funzionari dell’epoca, poi mi spinsi più in là e cominciai a indicizzare con l’apposito programma. Ero affascinato e proseguivo nell’opera con grande commozione: leggevo e scrivevo di persone che erano esistite e avevano avuto una vita, leggevo della nascita e purtroppo la morte di neonati o persone giovani, e per ognuna di queste mi chiedevo come fossero, e quale fosse la causa per una scomparsa in così tenera età. Talvolta lo capivo dalle scritte sui documenti dello Stato civile: provavo dolore, tenerezza, gioia per una nascita, rivedevo con l’immaginazione quei papà, gli sposi raggianti di felicità, oppure le levatrici o ancora i testimoni dei decessi; cercavo di immaginarli e li vedevo quando si recavano negli uffici dello Stato civile per le dichiarazioni di rito. E’ stata una grande lezione di vita per me, ora settantacinquenne.
Francamente qui si è fermata la mia ricerca perché i documenti fotografati si fermano all’anno 1865, e ho scoperto che il mio secondo e terzo avo, Ciro e Giovanni, abitavano a San Giovanni a Teduccio, un quartiere della periferia orientale di Napoli, fino al 1925 Comune autonomo.
Pare che i registri di quel Comune (ora città di Napoli) verranno pubblicati entro il 2019 assieme a quelli di Napoli successivi al 1865.
Lo spero vivamente! Sono qui in attesa di completare questa mia ricerca del ramo paterno della mia famiglia e nel contempo sto lavorando su quello materno ma i registri della Provincia di Novara o quella di Vigevano ante Unità d’Italia non sono stati ancora pubblicati. Ho in programma di andare in visita al Cimitero di Vigevano, dove sono sepolti il mio secondo e terzo avo materno.
Io leggo, e sono appassionato di storia, di personaggi importantissimi del passato, sui quali avevo letto e riletto le gesta eroiche, immaginato cento battaglie, ma mai mi ero avvicinato così alla storia delle persone. La lettura di questi registri mi ha emozionato, fatto rivedere ogni persona che ho trascritto. Sono entrato nella storia: ognuna di quelle persone mi ha trasmesso un poco della sua vita; inoltre, conoscere come era composta la società dell’epoca è stata una scoperta incredibile!
Vi ringrazio per avere creato questo portale Antenati, per averci dato la possibilità di trovare le nostre origini, di avvicinarci così tangibilmente a chi eravamo.
Grazie
Giancarlo Aldieri
NOTA BIBLIOGRAFICA
[1] E. M. Casalini O.S.M.- I. Dina- P. Ircani Menichini, Testi dei Servi della Donna di Cafaggio : ricordanze di S. Maria di Cafaggio, Firenze (1295-1332), ricordanze di S. Maria del Poggio, Pistoia (1296-1353), inventario di ex-voto d’argento all’Annunziata di Firenze (1447-1511), Firenze, Convento della SS. Annunziata, 1995, p. 11 v e 18 r.
Trisavolo Vincenzo Palleschi, nato a Paliano nel 1839, figlio di Angelo Maria di Fontana
Tra i tanti doni che ho ricevuto da mio Padre, uno che sento come particolarmente prezioso è la passione che mi ha trasferito per le storie di chi ci ha preceduto. Storie con la lettera minuscola, che probabilmente non hanno cambiato il mondo, ma che comunque hanno lasciato un segno in noi, come noi lo lasceremo sui nostri figli e nipoti, forse anche più in là, se qualcuno di loro erediterà la nostra di passione.
Ho cominciato con mio padre a studiare le storie di famiglia più di quaranta anni fa, quando Internet non c’era ancora e il database più importante era l’elenco telefonico. I primi rami del nostro albero genealogico sono cresciuti così, parlando al telefono con sconosciuti con il nostro stesso cognome. La privacy non si sapeva neanche cosa fosse, all’epoca, ma soprattutto c’era sempre questo piacere del ricordo che abbatteva la diffidenza, e apriva il cuore a racconti e confidenze.
Oltre il telefono, c’era la ricerca ‘sul campo’, che allora voleva dire fare un bel po’ di chilometri tra biblioteche e parrocchie. Ricordo ancora l’emozione quando trovammo l’atto di morte del mio quadrisavolo Angelo Maria “e Terra nuncupata Fontana Regni Neapolis”, nell’archivio parrocchiale di Paliano. Una grandissima emozione. Anche quando il Parroco si scordò di noi, e ci chiuse dentro la Chiesa. Non c’erano i cellulari, riuscimmo per miracolo (eravamo nel posto giusto) a trovare un telefono, per farci liberare.
Poi è arrivato Internet, e tutto è cambiato. Papà se n’è andato troppo presto, e così il genealogista di famiglia sono diventato io; la posta elettronica e Facebook hanno preso il posto del telefono, e i primi dati – spesso trascrizioni, molto parziali, dei registri degli Archivi di Stato hanno cominciato a essere messi a disposizione.
Atto di Nascita di Vincenzo Bartolozzi Giovanni Palleschi
Sto seguendo il progetto del Portale Antenati ormai da diversi anni, ma fino a poco tempo fa, almeno per gli archivi relativi alla mia storia famigliare, non c’era alternativa ai microfilm di Family Search. Poi sono arrivati i registri di Roma, dai quali ho scoperto che mio Nonno Vincenzo aveva un secondo nome che era… un cognome. Rimarrà probabilmente sempre un mistero perché sia stato chiamato così. E poi le piccole cose che danno soddisfazione: due rami della Famiglia, che si sono sviluppati a Milano e a Napoli. In entrambi i luoghi si ricordava vagamente un antenato ferroviere: l’ho trovato nei registri di Taranto, Domenico Antonio, ferroviere, anche lui nato a Fontana, nel 1845.
Oggi, grazie anche al Portale Antenati, il mio albero genealogico ha più di 50.000 individui (in massima parte morti), i vari rami della Famiglia sono stati quasi tutti ricondotti ai lontani comuni antenati di Fontana Liri, con una linea diretta che percorre 15 generazioni.
Ma ad ogni progresso, piccolo o grande che sia, non posso non pensare: “Chissà Papà come sarebbe stato contento”.
E poi mi commuovo. Ma anche questo l’ho preso da Papà.
Secondo Stuani
I cassetti dei nonni, si sa, sono sempre pieni di fotografie e ricordi gelosamente custoditi. Vengono aperti in rare occasioni e il loro contenuto fugacemente condiviso per non intaccarne la sacralità.
I nostri nonni, quelli di inizio secolo, non sono riusciti a stare al passo con i nostri tempi, dove anche la foto di quello che si mangia ogni giorno viene esposto e commentato al mondo intero.
Le loro fotografie sono numericamente molto inferiori, ed anche per questo motivo hanno ognuna una storia. Un forte legame con la storia della famiglia.
Se siamo stati fortunati, e curiosi, ci siamo fatti raccontare i ricordi che quelle immagini sbiadite facevano loro venire in mente. Si è venuti così a conoscenza degli aneddoti che riguardavano l’occasione nella quale venne scattata la foto.
A volte quei cassetti si aprono in occasioni tristi, ad esempio dopo un decesso, e allora ecco che ci si accorge di quante informazioni abbiamo perso, di volti e momenti che non avranno più un nome o una storia, perché non siamo stati abbastanza curiosi o attenti ai racconti dei nostri vecchi.
È una storia simile, quella che voglio raccontarvi: la storia di una mia fotografia trovata in un cassetto della nonna.
Vi è ritratto il busto di un uomo, dai capelli e baffi bianchi, con il viso scavato dalle rughe del tempo, a testa alta e lo sguardo fiero … e con una medaglia appuntata al petto.
Chi era questo signore? Che medaglia portava? Che storia aveva da raccontare?
I nonni non ci sono più per dircelo. Mio padre riconosce solo che quello è un suo bisnonno, il padre di sua nonna paterna, niente altro.
Cosa potevo quindi fare per soddisfare la mia curiosità? Come poteva quella fotografia aiutarmi a scoprire un pezzo di storia di un mio antenato?
Non sapevo niente di medaglie, di genealogia, di Archivi di Stato, di atti dello stato civile e militare … era tutto un mondo nuovo per me, ma sarebbe diventato un impegno quotidiano che, nel tempo libero, come un hobby appassionante, mi avrebbe portato a scoprire da dove venivo.
Presi quella foto e la prima cosa che pensai fu di digitalizzarla e rendere l’immagine più nitida possibile con l’aiuto di programmi di elaborazione fotografica.
Questo lavoro rese i contorni della medaglia più delineati, rendendone possibile l’identificazione. Scoprii che esistono collezionisti di medaglie, gruppi di appassionati sui social e con loro condivisi quella fotografia, ottenendo immediato riscontro sulla sua natura.
Si tratterebbe di una medaglia al valore civile, una onorificenza che viene assegnata a chi nella vita civile si rende protagonista di atti di eroismo. La cosa si faceva interessante e la curiosità aumentava ancora di più.
La medaglia era di questo mio avo? Cosa aveva fatto per meritarsela?
Bisognava scoprire chi era, da dove veniva, cosa faceva.
Iniziare una ricerca genealogica fu la naturale conseguenza di questa mia voglia di sapere.
I primi passi furono difficili, bisognava imparare come procedere, come raccogliere i dati e come analizzarli ed elaborarli.
Bisognava anche superare lo scoglio dei familiari e parenti che ti dicevano di non perdere tempo a scavare i morti che tanto non possono dirti niente, di trovarmi un hobby più interessante ed utile.
Sono un testardo, e se si cerca di mettermi i bastoni tra le ruote non si fa altro che spronarmi ad andare avanti ancora più deciso.
Così, tra studi online e negli archivi, nell’attesa di ricevere atti dai comuni, ed anche attraverso alcuni errori che mi hanno portato verso altri rami genealogici, sono riuscito infine a tracciare il passato della mia famiglia ed avere una chiara visione del mio albero.
Ho saputo chi era questo mio antenato:il trisavolo Stuani Secondo, contadino, nato a Bozzolo provincia di Mantova, in data 1° ottobre 1865. Restava da scoprire la sua storia, e quella della medaglia.
Venni a conoscenza del fatto che ogni atto di concessione di onorificenza veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e che, conoscendo il nome del decorato, si poteva fare una veloce ricerca avanzata online, perché tutte le copie della Gazzetta Ufficiale sono digitalizzate e pubblicate in rete.
Cosi feci, sperando che le due cose combaciassero.
Fu cosi, e quindi nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dell’anno 1888, edizione numero 60 del 12 marzo, trovai il decreto di conferimento della medaglia d’argento al valore civile (tra gli altri) a Stuani Secondo contadino in Marcaria (MN) fregiato da sua Maestà nell’udienza del 4 marzo 1888 in premio di coraggiose e filantropiche azioni compiute con evidente pericolo della vita.
Bene, era proprio lui il decorato, la medaglia che in quella foto porta al petto è proprio la sua. Sono riuscito a costruire un aneddoto della storia di famiglia grazie anche alla possibilità che ci dà la tecnologia moderna.
Restava comunque un lato oscuro , cioè sapere quale fu quella azione coraggiosa che portò al conferimento della medaglia. Forse i nonni ne erano a conoscenza, forse no, e magari sarebbe piaciuto anche a loro conoscere questa storia.
Come ho detto prima, io sono un testardo, e quindi non mi andava di lasciare questa cosa in sospeso.
Doveva pure esserci traccia di questo fatto da qualche parte. Provai a scrivere al Comune di Marcaria, all’Archivio di Stato di Mantova, a cercare online qualsiasi riferimento, senza ricevere però risposte da nessuno.
Un giorno, per caso, ho saputo dell’esistenza di un archivio che raccoglieva tutte le copie antiche dei quotidiani locali della provincia mantovana e ho scoperto, inoltre, con mio ulteriore enorme stupore, che queste copie erano tutte digitalizzate e pubblicate online. Era l’ultima speranza di scoprire cosa fosse successo, e ho cominciato così un lungo e paziente lavoro di lettura, foglio per foglio, giorno per giorno, articolo per articolo, giornale per giornale, fino a quando la mia caparbietà e pazienza sono state premiate.
Ho trovato così, infine, nella «Gazzetta di Mantova» del 16 marzo 1888 quel trafiletto tanto sperato che mi ha permesso di chiudere il cerchio su questa vicenda: “Il contadino Secondo Stuani il giorno 26 giugno del 1887, in Marcaria, con gravissimo rischio della propria vita, riusciva a trarre a salvamento una donna e due bambini travolti dalle acque del fiume Oglio.”
Una grande gioia, ed immensa soddisfazione, essere riuscito dopo mesi e mesi di studi e ricerche nel mio intento!
Ora spero che quei due bambini tratti in salvo siano cresciuti e che abbiano raccontato questa avventura ai loro figli e nipoti, che sia stata tramandata ai loro discendenti, e che capiti magari proprio a loro di leggere queste righe riconoscendo la loro storia in questo racconto.
Dedico quindi specialmente a loro questa bella storia, ed a tutti voi lettori spero di aver trasmesso la voglia di continuare sempre a cercare fino in fondo, senza arrendersi mai, qualsiasi strada per far luce su eventi di storie familiari.
Buona ricerca!!!
Vincenzo Lamanna (Canosa di Puglia, 1878 – Canosa di Puglia, 1919)
Questa storia inizia in un pomeriggio del febbraio 2014, quando – scorrendo la homepage di facebook – sono venuto a conoscenza del Portale Antenati, e si svolge interamente in Puglia, a Canosa.
Fino ad allora la conoscenza dei miei antenati terminava con i parenti più prossimi e mi sono sempre chiesto quali fossero i rapporti di parentela con gli zii e i cugini di secondo grado, senza trovare mai risposte certe, anche perché erano venute a mancare le memorie storiche della famiglia, i nonni.
Date, nomi e racconti, di cui ero venuto a conoscenza da bambino durante le chiacchierate con i miei nonni, erano rimasti chiusi nei cassetti della memoria.
Mi sono messo così alla ricerca dei miei avi sul Portale Antenati e ho trovato gli atti di nascita dei miei nonni.
Una volta trovati questi preziosi documenti ho dovuto affinare la ricerca, tornando indietro nel tempo, ma è stato anche necessario imparare a leggere quei documenti, che risalgono a centinaia di anni fa, immedesimarsi in quel che poteva essere la vita a quel tempo e capire che l’importanza che diamo oggi a certi eventi non è la stessa che si dava a quei tempi.
Così le prime settimane, dopo il lavoro, ho trascorso ore e ore sul Portale, cercando di trovare tutti i miei avi, alternando emozioni positive, quando trovavo qualcosa di interessante per la mia ricerca, e negative, quando gli atti sul monitor del computer non restituivano i risultati sperati, e quindi mi sarei dovuto nuovamente mettere alla ricerca.
Da allora sono passati ormai quattro anni e il mio albero genealogico è un rigoglioso albero di oltre 300 anni con circa 1000 persone tra parenti, affini e attinenti, suddivisi in 12 generazioni.
Continuando la mia ricerca, ho completato l’analisi dei dati presenti sul Portale Antenati e mi sono rivolto a vari Archivi di Stato, ora per richiedere i catasti onciari, ora per richiedere i dati dei distretti militari, ora per richiedere atti di processi penali.
E così, in questa interminabile ricerca, vengono fuori conferme ad alcuni racconti familiari e sorprese che mai nessuno aveva raccontato!
La prima scoperta è che mia nonna paterna aveva una sorella di cui non avevo mai sentito parlare. Ne scopro l’esistenza scorrendo gli indici decennali dei nati a Canosa di Puglia e leggendo il nome Lamanna Nunzia di Vincenzo. Sarebbe facile trovare conferma se l’atto fosse disponibile, purtroppo però non ho modo di cercare l’atto.
Il primo indizio è che questa bambina portava il nome uguale a quello della nonna materna. Il secondo indizio è che nelle mie ricerche non ho mai trovato un omonimo di Vincenzo.
Allora ho provato a chiedere informazioni alla cognata di mia nonna, ma sostiene che a lei non sia mai stato detto dell’esistenza di questa bambina.
Tuttavia, la conferma che quella bambina sia effettivamente la sorella di mia nonna, mi è arrivata da alcune cartoline spedite dal padre Vincenzo quando si trovava al fronte, nelle quali manda i saluti alla moglie e alle figlie Savina e Nunzia. È lei!
Purtroppo Nunzia morirà a 5 anni nel 1919. Tuttora mi chiedo come mai mia nonna non abbia mai raccontato la storia di questa sua sorella minore, ma credo non troverò mai risposta a questa domanda..
L’altra ‘storia nella storia’ genealogica che ho scoperto era un racconto di mio nonno materno, il quale sosteneva di non aver partecipato alla prima guerra mondiale perché alla visita di leva, sostenuta all’età di 16 anni e mezzo, era risultato troppo basso e per questo schernito dall’ufficiale medico che lo fece salire su un banco gridando a tutti i presenti: “Guardate che soldati caccia l’Italia!”.
Quando mio nonno raccontava questo episodio appariva, ai miei occhi di bambino, un “omone” di oltre un metro e settanta.
Ho cercato nel distretto militare la sua visita di leva e lì risulta che il giorno della visita di leva era alto 1 metro e 42 e per questo venne riformato per difetto di statura.
Dopo 6 mesi però divenne l’ ”omone” che ricordo, si sposò ed ebbe 8 figlie e 19 nipoti, morendo alla veneranda età di 98 anni.
È stata una fortuna che lui sia cresciuto con calma: prima di tutto per lui e poi per noi discendenti, perché a quest’ora, se fosse partito per la guerra, avremmo potuto non essere mai nati.
E poi ho scoperto tante altre piccole storie di vita quotidiana che, raccontate dopo secoli, emozionano.
La ricerca, e di conseguenza la storia della mia famiglia, continua…!
Angelo Gabusi. Fotografia identificativa di un abbonamento alla linea tramviaria di Brescia, di cui è visibile il timbro (primi mesi del 1918)
Il cognome Gabusi conserva nelle sue radici un legame stretto con la terra. Il nome latino della verza invernale, capuceus, si abbrevia in capus, si trasforma in campus, varia in gambus, si abbrevia in gabus.
Gabusia indicava all’inizio dell’età moderna, il luogo in cui sorge una cascina a nord di Pontevico (Brescia). È chiaro il riferimento al campo coltivato, all’ortaglia, tanto che ancora oggi, in dialetto bresciano il Gabüs è il cavolo cappuccio.
Quale il significato della trasformazione di un ortaggio in un cognome? Potrebbe essere un’allusione, a nostro giudizio, alle condizioni modeste e alle umili origini di una famiglia. Chiunque abbia praticato ortocoltura o abbia osservato uno dei tanti orti domestici del nostro territorio sa che la verza invernale è l’ultima verdura a restare a dimora. Raccolta quella, nessun ortaggio resta più da consumare fino alla primavera. Si può anche intuire che all’origine Gabüs, Gabusi o Gabusio fosse un soprannome di contrada e magari un’allusione ironica a un carattere caparbio e testardo, viste le caratteristiche dell’ortaggio, resistente alle intemperie invernali.
Una traccia significativa del cognome compare in una sentenza del fondo Ufficio del Territorio, conservato presso l’Archivio di Stato di Brescia. È l’anno 1577 quando il Capitano di Brescia, magistrato della Serenissima decide, in sentenza, il contenzioso fiscale fra Giovita Gabusio e il Comune di Flero:
23 Gennario 1577
Professava il Comun di Flero, che Giovita Gabusio de Prato di Valle Trompia fosse tenuto al pagamento del Colonato, e Testa nel Comun medesimo ove esso abitava, e però fu disputata la causa avanti il Capitano di Brescia, venne deciso, che mostrando esso Giovita, che contribuisca dette Gravezze nella valle suddetta, non abbia ad esser tenuto pagar cosa alcuna al Comun medesimo suddetto (S. Rossetti – T. Sinistri – A. Superfluo, Blasonario bresciano, appunti, Montichiari, Zanetti Editore, 1990, p. 17).
Proviene, Giovita, non dalla Valle Trompia, come erroneamente indicato nel documento, ma dalla Valle Sabbia, dove si trova il Comune di Prato, oggi Belprato di Livemmo.
Il documento è posteriore di alcuni anni alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), che decide le sorti della Repubblica di Venezia contro l’Impero ottomano e a cui partecipano mille bresciani. È uno sforzo enorme quello a cui la provincia viene sottoposta, non solo per il numero di uomini necessario, ma anche per le ingenti risorse finanziarie. Dalla Valle delle pertiche partono diversi cittadini alla volta di Lepanto: da Levrange, Lavenone, Nozza, Casto, Bagolino. Osserva un commentatore che la Valle Sabbia offrì all’impresa armi, denaro, ferro, e paghe militari: villaggi e borgate del piano arruolarono a decine e centinaia i loro giovani nel reggimento bresciano.
Lascia una traccia importante questo breve scritto, non solo perché attesta la pervasività dell’amministrazione dei tributi della Serenissima, in un momento peraltro particolare, ma anche perché attesta l’origine di un cognome nella Valle delle pertiche e la sua comparsa a Flero già nel Cinquecento.
Ancora prima della sentenza del 1577, altri Gabusi sono citati negli atti della Parrocchia di S. Andrea di Barbaine. Leggiamo così che, nel 1503, Comino e Turrino Gabusi di Belprato sono i delegati del loro Comune per stilare l’inventario dei beni appartenenti a quattro chiese della zona.
La Valle delle pertiche, al tempo della dominazione veneziana, è terra prospera e autonoma. È ricca di pascoli, boschi e giacimenti di ferro sfruttati sin dai tempi più remoti. Significativo notare la dedica a San Marco della chiesa di Livemmo, chiaro segno di quella dominazione della Serenissima che, secondo molti commentatori, è la fortuna delle famiglie del paese e dei dintorni perché permette lo sviluppo dei più svariati commerci e, di conseguenza, l’apertura di questa piccola valle, racchiusa fra il Mella e il Chiese, al mondo sterminato dominato da Venezia .
È interessante, oggi, osservare come il cognome Gabusi si concentri in luoghi ben definiti della provincia, e in particolare come esso sia costantemente presente con più nuclei familiari in tutta l’area della valle del Chiese, sino alla provincia di Mantova, lungo una chiara direttrice nord-sud.
Seguendo il corso del fiume, troviamo infatti tale cognome nell’area delle Pertiche, a Gavardo, a Ciliverghe e Mazzano, a Montichiari, a Medole nel Mantovano.
Un altro nucleo significativo del cognome si rintraccia infine ancora più a sud, fra Parma e Bologna.
Non ci si deve stupire, perché la traiettoria dalla montagna alla pianura lungo il corso del fiume Chiese affonda le radici nell’antichità. Proprio dalla pianura bresciana e mantovana fra il Mella e il Chiese i mitici pastori della poesia virgiliana, discorrendo delle loro alterne fortune, guardavano la sera scendere dai monti che appaiono all’orizzonte. Nos patriae finis et dulcia linquimus arva. È il destino scritto nelle terre di montagna, quello di muoversi verso la pianura, perché, raggiunta l’agiatezza, si cerca di acquisire terre meno impervie. Perché lo richiede il ciclo delle stagioni e l’allevamento degli armenti. Perché si è attanagliati dalle fatiche e dalla miseria: muoversi per il mondo, lasciare la vita dura della montagna, raggiungere città e paesi dove l’industria ha portato benessere. Sempre da questa valle troviamo che molti Gabusi ad inizio del secolo scorso salirono sui transatlantici che salpavano per il Nord America e per l’Argentina.
E così emigra in Argentina Gabusi Caterina, sbarcata a Buenos Aires nel 1890. Così Gabusi Celeste, 24 anni di Belprato di Livemmo sbarca a Buenos Aires nel 1949. E ancora Gabusi Francesco, muratore di Sabbio Chiese, sbarca a New York nel novembre 1903. Lo accompagna sullo stesso piroscafo un omonimo compaesano, Gabusi Gianmaria, che raggiunge lo stesso giorno la grande città del Nord America. Altri ancora, Gabusi Giuseppe, nato a Brescia, e Gabusi Pietro, nato a Pavia, raggiungono Buenos Aires negli anni Venti del Novecento. La rotta migratoria transoceanica porta uomini e donne con la loro storia, la loro origine, ad incontrare altri luoghi e altri popoli del mondo.
Un cassetto, archivio contadino
Dice Nuto Revelli, nell’introduzione al Mondo dei vinti, che ogni famiglia contadina ha sempre un archivio in cui si conservano le stesse cose. Sono gli atti relativi alle case e alla terra, venduti e comprati, ereditati, spesso contesi, alle tasse pagate, a una pratica mai fatta per una pensione mai ottenuta, per cui, però, si era certi di aver diritto.
Immancabile, continua Revelli, è il segno della guerra. L’immagine di un caduto, il diploma di un reduce delle due guerre del Novecento, sono tracce immancabili rinchiuse nelle case contadine.
Le due guerre sono state, per le generazioni nate fra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, di impatto violento con il mondo. Sono state il motore di un primo sradicamento di uomini cresciuti in un universo rurale chiuso verso l’esterno. Ricostruire l’epopea di ognuno di questi uomini – seguire le tracce lasciate nei registri di leva, della mobilitazione del ’15-’18 e del ’40-’45, dell’espatrio quando si prendono le vie della Svizzera della Germania o delle Americhe per lavorare, significa seguire la traiettoria complessa di uomini che per la prima volta si spostano nel nostro paese e nel mondo, con l’incertezza di poter far ritorno ai propri affetti. Sono piccole odissee popolari, ognuna diversa perché soggettiva ma ognuna uguale all’altra, perché collettiva. Masse intere di uomini e donne vivono lo stesso dramma, la stessa epopea. Cambia la psicologia collettiva, cambia il mondo, la società diventa di massa.
Restano per la prima volta, in questi eventi, le tracce tangibili dei ceti popolari, destinati, prima di allora a scomparire nella polvere della storia, senza un nome, senza un segno che di sé lasciasse memoria. Perché quest’ultima – la memoria di sé ai posteri – era un privilegio dei possidenti. L’invenzione della fotografia e la sua diffusione nelle contrade contadine, ad opera di fotografi ambulanti, cambia per sempre il mondo dei ricordi e dei racconti familiari, cambia il modo di fare e leggere la storia dei ceti popolari.
Abbiamo provato a ricostruire la vita di uno di questi uomini travolto dalle guerre del Novecento, attraverso i documenti della burocrazia militare, dell’anagrafe e dei registri parrocchiali.
È un Gabusi di Flero, si chiama Angelo Alessandro ed è nato nell’aprile del 1888. Delle origini antiche di questo nome si è già detto. Racconteremo ora la sua storia, annotata negli archivi che citavamo e ancor di più nel poco e prezioso materiale raccolto e conservato, per tre generazioni, nell’archivio di famiglia: un cassetto dove alla rinfusa si conservano un piccolo corpus fotografico di immagini di piccolo formato, alcuni documenti notarili, un diploma del Ministero della guerra, una cartolina del patronato, e un articolo del «Giornale di Brescia». È scritta tutta qui la vita di Angelo, muratore, zappatore nel settantasettesimo reggimento fanteria, manovale alla Sant’Eustachio e all’Om.
Per la sezione All’origine: le pertiche abbiamo consultato:
E. Caffarelli – C. Marcato, I cognomi d’Italia: dizionario storico ed etimologico, Torino, UTET, 2008.
A. Gnaga, Vocabolario topografico – toponomastico della provincia di Brescia, Ateneo di Brescia, 1936.
P. Guerrini, Miscellanea bresciana di studi, appunti e documenti con la bibliografia giubilare dell’autore, Brescia, Pavoniana, 1954 (Memorie storiche della diocesi di Brescia, 21).
D. Mutti, Le cascine bresciane, il mistero del nome, Brescia, Edizioni di Storia Bresciana, 1991.
C Pasera, Combattenti bresciani alla guerra di Cipro e alla battaglia di Lepanto 1570-1573, Brescia, Commentari dell’Ateneo 1954.
S. Rossetti – T. Sinistri – A. Superfluo, Blasonario bresciano, appunti, Montichiari, Zanetti Editore, 1990.
N. Revelli, Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi, 2005.
G. Sanga, Dialetto e Folklore, ricerca a Cigole. Trascrizioni musicali di Giorgio Ferrari, Milano, Silvana, 1979.
R. Seymur Comvay, Dov’era il podere di Virgilio?, in «Atene e Roma», n.s., VII (1926), 3, pp. 170-186.
Per la ricerca del cognome Gabusi fra i migranti oltreoceano, è stato consultato il sito del Centro internazionale studi sull’emigrazione italiana http://www.ciseionline.it.
Eugenio Luzietti (Orciano di Pesaro, 1842) e Teresa Rossetti (Roma, 1850) insieme ai loro sette figli. In primo piano (a partire da destra) Virginia e Bianca, le sorelle della corrispondenza
È tutto cominciato con una piccola scatola di legno o meglio, la scatola di legno ha svegliato in me un desiderio sopito che ho sempre avuto: quello di conoscere la storia della mia famiglia.
La scatola in questione conteneva delle lettere, una corrispondenza di inizio secolo scorso tra la mia bisnonna materna Virginia e i suoi fratelli Bianca e Agostino, emigrati in America. Leggerle è stato molto commovente: la tenerezza, l’affetto, la nostalgia dell’Italia da parte di chi si trovava oltreoceano e le sofferenze patite a causa della guerra da chi si trovava qui in Italia.
Ho cominciato a chiedere notizie a mia mamma e alle mie zie, ho scritto una lettera all’indirizzo americano indicato nella corrispondenza e mi sono iscritta ad un sito dedicato alla ricostruzione di alberi genealogici, nel quale ho inserito i pochi dati che avevo a disposizione.
La lettera di Bianca alla sorella Virgina (25 aprile 1945)
Purtroppo la lettera mi è tornata indietro poiché il mittente è risultato sconosciuto; e così sono passati alcuni anni. Un giorno da un utente dello stesso sito ho ricevuto un graditissimo messaggio: era un nipote di Bianca che mi scriveva dalla California e mi diceva che forse eravamo imparentati! Da lì è cominciato uno scambio di messaggi e foto e siamo arrivati alla conclusione che siamo realmente parenti. Grazie a lui abbiamo rintracciato anche un’altra nipote di Bianca e un nipote di Agostino ed insieme abbiamo ricostruito la parte del nostro albero genealogico che abbiamo in comune.
Ci siamo anche incontrati e sentiamo profondamente di appartenere alla stessa famiglia, magari un po’ dispersa per il mondo.
La febbre di ricerca ha continuato a divampare in me, e questa volta ho trovato un prezioso aiuto nel Portale Antenati, grazie al quale sono riuscita a ricostruire molti tasselli mancanti per la parte materna. Laddove non arrivavano i documenti del Portale, ho contattato comuni e parrocchie ma, nonostante la gentilezza di impiegati comunali e parroci, la mia ricerca delle origini si è fermata al trisavolo materno, Eugenio.
Invece, per quanto riguarda sua moglie Teresa, la mia trisavola, devo continuare la ricerca presso gli Archivi vaticani (e chissà che non riesca a dimostrare l’appartenenza alle famose “sette generazioni romane”).
Angelo Tiezzi (Sinalunga, 1869) Vetturino
Ho cominciato la ricerca anche da parte paterna: ho appreso della profonda storia d’amore tra la mia bisnonna Fermina e Nicola, ho anche saputo che hanno avuto diversi figli ai quali non hanno potuto dare il loro cognome poiché vivevano more uxorio e, a quei tempi, era impensabile una convivenza fuori dal matrimonio.
Ho appreso le professioni svolte dai miei antenati: vetturino, caffettiere, vignaiolo, calzolaio. Ho cercato anche gli indirizzi dove questi abitavano e, ove possibile, sono andata a vedere gli edifici, immaginandoli abitare lì al loro tempo. Ho scoperto che le mie origini partono da Roma e si dividono tra la Toscana, le Marche e il Lazio da parte materna e, la Puglia e la Basilicata da parte paterna. Sto orientando la mia ricerca in due direzioni: la prima risalire il più possibile indietro nel tempo e la seconda, contattare i discendenti, conoscerli e scambiare con loro informazioni… ho ancora molto lavoro da fare!
Da sempre amo la storia. Mi incuriosiscono i fatti, le vicende, il modo in cui le cose, le persone e i luoghi cambiano nell’arco dei secoli. Quando un fatto storico m’incuriosisce, la prima cosa che faccio è informarmi, scavare nel passato e scoprire il più possibile sommergendomi tra libri, vecchi giornali e ovviamente internet per saperne di più.
Ho sempre avuto questa fame di sapere, di conoscere ciò che era nascosto tra le infinite pieghe del tempo. Così qualche tempo fa, mentre studiavo la storia dei grandi personaggi, i fatti di cronaca, il cambiamento dei meravigliosi luoghi del mondo ho capito finalmente ciò che cercavo davvero: conoscere la mia storia. La storia della mia famiglia.
Le persone, oggi, sono sempre più distratte dai molteplici impegni della vita quotidiana e nella maggioranza dei casi non hanno tempo per approfondire le vicende dei propri antenati, e sembra quasi che la conoscenza di chi li ha preceduti non faccia parte della propria cultura. E’ stata proprio la voglia di far luce sul passato che mi ha spinto a trascorrere ore tra archivi pubblici, parrocchie e su questo portale online per sfogliare manoscritti, registri e documenti vecchi di secoli.
Le domande che mi tormentavano erano:
Chi erano i Luzi in passato? Che vita avevano vissuto? Avevano combattuto guerre? Superato grandi avversità? Erano letterati, nobili, soldati o semplicemente braccianti che si guadagnavano il pane lavorando duramente la terra? Che aspetto avevano? Dove vivevano ? Qual è stata la loro storia?
Ho iniziato circa 3 anni fa questa mia ricerca, dapprima tartassando mia nonna di domande per conoscere nomi, luoghi e alcuni dati che mi potessero essere utili per scoprire stralci di vita e curiosità sulla mia stirpe che, altrimenti sarebbero rimasti nascosti per sempre. In fondo, chi altri avrebbe mai risvegliato il passato dei Luzi dal suo torpore, se non un appassionato di storia antica come me?
La nonna è stata fondamentale nella mia ricerca, e per questo non potrò far altro che ringraziarla migliaia di volte. Mi ha raccontato curiosi aneddoti sul mio bisnonno Federico, il decorato di guerra, alto e slanciato dagli occhi azzurri come il ghiaccio, e di sua moglie, la mia bisnonna Aurora, che ha lasciato questo mondo da ultra centenaria. Ed è da questi due curiosi personaggi che sono partito.
Dapprima ho cercato quanti più documenti storici avesse in cantina la nonna, poi ho iniziato a cercare sul Portale degli Antenati del Ministero dei Beni Culturali. Qui, sono state tantissime le curiosità e le informazioni utili su nascite, morti e matrimoni che mi hanno permesso di andare avanti.
Ho scoperto che il mio bisnonno era il più piccolo di dieci fratelli di cui nessuno sapeva niente. Di questi purtroppo, 5 erano morti in tenera età, probabilmente dopo aver contratto malattie. Uno di essi, Augusto Luzi, era morto giovanissimo al fronte in seguito alle ferite riportate sul campo di battaglia e un altro, Gaetano, era partito dopo il matrimonio per l’allora lontana Riccione e non aveva rivisto più i genitori e i fratelli. Era solo l’inizio e già mi stavo confrontando con l’elevata mortalità infantile, con la distruzione della guerra e il dolore di un addio strappalacrime.
Niente però mi ha scoraggiato e ho proseguito nella ricerca. Ricostruire il proprio albero genealogico, infatti, è un po come salire un scala al buio: devi trovare lo scalino andando a tentoni prima di poter appoggiare saldamente il piede.
Luigi Luzi (Urbino, 1859 – Monteccicardo, 1940)
Dopo aver scritto all’anagrafe del comune di e all’Archivio di Stato di Urbino (Pallino di Urbino è la zona d’origine dei miei antenati) ho scoperto con grande sorpresa che il mio trisavolo, padre di quel soldato slanciato dagli occhi azzurri come il ghiaccio, aveva il medesimo nome del mio amato nonno scomparso qualche anno fa, Luigi.
Questo fatto, ha emozionato tutta la mia famiglia, che nei mesi successivi mi ha aiutato tantissimo a continuare questa mia ricerca telefonando a parenti lontani o accompagnandomi, anche solo per curiosità, negli archivi parrocchiali o nelle biblioteche pubbliche di Pesaro e Urbino per ricostruire la nostra stirpe. Questa ricerca genealogica ci ha unito ancora di più come famiglia e alla fine credo che regalerò una copia di questo mio albero genealogico ai miei cari.
Così sono venuto a conoscenza che la mia trisavola Valentina era un’esposta (era stata abbandonata dai suoi genitori in un convento urbinate) ed era passata di balia in balia prima di trovare una famiglia sposando il mio trisavolo Luigi. Aveva perso numerosi figli mentre lavorava come bracciante nei campi. Che vita dura deve aver vissuto, mi sono detto. In quel momento mi sono sentito unito a lei spiritualmente, emozionato, empatico verso ciò che aveva dovuto passare e questo mi ha spinto a non fermarmi.
Oggi sono a conoscenza che un mio avo di quinta generazione aveva il nome di Cristoforo (simile al mio che è Christian) e che suo padre Domenico, era nato negli ultimi anni del Settecento, e ancora, che forse alla lontana, sono anche imparentato con un mio caro amico!
Non mi bastava sapere quando erano nati i miei avi, dove o quando erano morti, volevo conoscere anche altri aneddoti…mi sono così spinto anche a scrivere ai Centri documentali del Ministero della Difesa Italiana per ottenere gli stati di servizio militare e le liste di leva, scoprendo anche alcuni aspetti fisici dei miei avi. Un esempio? La strana bruciatura sulla tempia destra del mio “quadrisnonno” o la ferita riportata da un mio avo a seguito di una zampata di cavallo durante il militare.
Ogni cosa che imparo oggi, apre mille domande a cui voglio dare risposta perché la curiosità mi divora letteralmente. Ora, so che sono tanti gli scalini che ancora devo salire, tanta la pazienza da impiegare e il lavoro da svolgere, ma io non mi fermo, voglio sapere sempre di più e arrivare più indietro possibile. Perché? Perché se è vero che il passato non fa l’uomo che sei, è vero anche che aiuta ad essere più consapevoli della propria vita e della fortuna che il tempo, con il suo scorrere incessante, ci ha regalato.
Ora, dopo aver ringraziato mille volte il Portale degli Antenati per avermi consentito di ritrovare la mia famiglia del passato, vi lascio, per partire alla volta della Basilicata. L’obiettivo? Trovare ogni informazione possibile sugli antenati materni.
La ricerca si prospetta ardua, ma decisamente emozionante!
Adelaide Pizziolo in Leonelli (Vasto, 1871 – Ortona, 1936)
La ferrovia adriatica o, come si chiamava allora verso la fine dell’800, Strade Ferrate Meridionali, è stata la protagonista per molti anni della mia famiglia. Una protagonista silenziosa ma che ha influito su fidanzamenti, matrimoni, morti di nonni e bisnonni.
Sto vivendo quello che ho scoperto un po’ come una favola. Parlo di favola perchè, non solo ho trovato tutto quello che volevo sapere e sono arrivata fino agli inizi del ‘700, ma ho trovato anche il ramo femminile, così come i vicini di casa che avevano i miei antenati nel 1791!! Inoltre ho trovato diversi cugini che non sapevo di avere: questa ricerca mi ha coinvolta pienamente, diventa un po’ come la storia delle ciliegie, una cosa tira l’altra!
Certamente, ho avuto un po’ d’aiuto fuori dal sito degli antenati, ma se non avessi cominciato da lì…
Con l’aiuto del portale sono riuscita a risalire indietro di 6 generazioni, ho trovato rami collaterali legati, a volte, anche doppiamente. Più di 60 cognomi collegati con noi e i pochi parenti che avevo sono triplicati. Tante regioni coinvolte, rami in Liguria, in Toscana, in Veneto, Abruzzo, Marche persino in Brasile e chissà in quanti altri luoghi …
L’intera storia si può raccontare in due modi…
Luigi Pizziolo (Mestre, 1871 – Mestre, 1953)
Si può iniziare sicuramente con “C’era una volta” nel 1868 circa, un giovanotto di nome Valentino Pizziolo…
In alternativa, possiamo anche cominciare dalla metà del 700, quando a Scandolara, Giovanni e Caterina misero al mondo Francesco (quadrisavolo). Intorno al 1790 Francesco decise di trasferirsi a Carpenedo per fare il sensale e lì si sposò con Caterina detta Moma, una donna di Mogliano. Da lei ebbe almeno 11 figli, tra i quali, nel 1791, Giovanni. Vivevano sulla strada per Mogliano Veneto, vicino al canale Bazzera, anzi proprio il Canale, forse, faceva da confine alla proprietà.
I loro confinanti e vicini di casale erano i Forcellato, anticamente mugnai a Zelarino e poi osti a Carpenedo. Suppongo che, proprio grazie a questa vicinanza, il mio trisnonno, incontrò la moglie.
Giovanni dopo una prima vedovanza, si risposò con Caterina, dalla quale ebbe almeno quattro figli, tra cui Valentino nel 1840. Caterina veniva da un paese sotto al Grappa, Solagna, e si trovava a Carpenedo con gli zii che erano, appunto, i vicini di casale di Giovanni e osti nel paese.
Intorno al 1868, Valentino riuscì ad ottenere un lavoro come montatore di macchine ferroviarie presso le strade ferrate meridionali e fu così mandato sulla linea adriatica verso Foggia.
Laggiù divenne amico di Pasquale Salvarezza, anche lui dipendente delle ferrovie, che gli presentò sua sorella Maddalena e si sposarono.
Le ferrovie, però, lo spostarono subito a Vasto ed è lì che nacquero i primi due figli, un maschio ed una femmina. Dopo qualche tempo, con il progredire della sua posizione, Valentino fu rimandato a Foggia, dove nacquero altri tre figli maschi.
Giuseppe Pizziolo (Foggia, 1877 – Pescara, 1965)
Purtroppo la vita, nel 1886, gli tolse la moglie di solo 44 anni e dopo poco fu mandato a Bologna. Non sapendo come fare, mise i figli in collegio e partì per quella nuova destinazione, ma a Foggia non tornò più, perché appena due mesi dopo la moglie, morì anche lui a 47 anni non ancora compiuti, e fu sotterrato proprio a Bologna.
I cinque figli studiarono in collegio: i maschi, eccetto uno, entrarono in ferrovia e si stabilirono a Castellammare Adriatico. La femmina si sposò con un geometra figlio di un ferroviere ed andò a vivere ad Ortona. I quattro maschi si sposarono tutti con figlie di ferrovieri e restarono a Castellammare, almeno per un po’.
Lo zio Pasquale, nel frattempo aveva sposato una ragazza di San Benedetto del Tronto, figlia di ferroviere. Lei e la sorella Teresa si erano trasferite a Castellammare, dove quest’ultima aveva sposato Achille, un ferroviere originario della zona: questi sono i miei bisnonni da parte femminile.
Alcuni figli di Pasquale, a loro volta sposarono alcuni dei figli di Achille e un ramo di questi adesso si trova in Brasile.
Il primo figlio di Valentino, Giorgio mio nonno, anche lui in ferrovia, conobbe così, attraverso lo zio Pasquale, la sua futura moglie Michelina, figlia proprio di Achille e Teresa. Da lei ebbe nove figli, fra i quali mio padre e, con questo, siamo arrivati ad oggi.