Il racconto riguarda una figura di famiglia: Giacomo Schirone, uno dei due fratelli del nonno paterno, dunque zio di mio padre, che si chiamava come lui. Nato nel 1900 (ma i documenti indicano la data del 21 gennaio 1901) fu sempre socialista; perseguitato dal fascismo, esule in Francia, combattente in Spagna, antifascista nel dopoguerra e fino alla fine. Come filosofia di vita, fu anticlericale e razionalista.
Non è stato facile rimettere a posto tutti i tasselli di una vita pienamente vissuta in modo attivo e partecipe degli eventi azionali e internazionali, dagli anni giovanili fino alla fine. Tanti i dettagli d’archivio, gli appunti personali, i manoscritti, le tracce della sua ricca attività politica e culturale che, insieme, restituiscono corpo e voce a Giacomo, dignitosa figura di sarto barese, fine e accurato. Internazionalista per le idealità di tutta la vita, compagno di Nenni, combattente in Spagna (unico barese – documentato – che abbia partecipato alla Guerra Civile), punto di riferimento dei giovani di Bari, Milano, Marsiglia.
Cultore di eleganza anche da partigiano.
È una ricerca che vuol superare l’esposizione di una biografia affettiva per diventare memoria collettiva e far luce su una vicenda personale e fittamente intrecciata con la Storia del Novecento. Un esempio di vita, coerente e avventurosa.
Nonostante lo scarso livello di scolarità, Giacomo coltiva una curiosità intellettuale dapprima verso il pensiero socialista, fino a scelte politiche che misero più volte a repentaglio la sua vita e l’incolumità di chi gli era accanto. Da qui la decisione di partire (era la notte di ferragosto del 1923) clandestino, verso la Francia. Da Marsiglia poi la sua militanza lo porta alla scelta del combattente in Spagna, nelle Brigate Internazionali di Carlo Rosselli, al fianco di Nenni e Di Vittorio.
Aderisce alla nascita del Partito d’Azione; sempre in prima linea, lo troviamo sia al 1° Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale che nella ricostituzione della Camera del Lavoro (entrambi svoltisi a Bari nel gennaio 1944).
È presente nel tragico corteo del 28 luglio del ‘43 a Bari (strage di via Niccolò dell’Arca); massone per affinità con il pensiero razionale e di fratellanza; anticlericale fino alla fine: attraverso Giacomo veniamo a conoscere anche la vita degli esuli, nonché il pensiero di un grande razionalista spagnolo, Francisco Ferrer, che Giacomo poi divulgherà nella vita culturale barese del dopoguerra.
La sua vicenda, politica e umana, viene raccontata anche attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, compresi giornalisti che ne tracciarono un appassionato profilo all’indomani della scomparsa (16 settembre 1980).
Alla morte di mio padre Amedeo Ferrari, all’età di 95 anni, da un cassetto è venuta fuori una foto dove lui era circondato da figli, nipoti e pronipoti e d’un tratto ho realizzato che con la sua scomparsa nessuno avrebbe più raccontato le vecchie storie di famiglia che sarebbero state presto dimenticate. Ho cercato di raccogliere informazioni sulla storia della famiglia, originaria di un piccolo paese dell’Abruzzo montano di nome Borrello e ora sparsa in varie città italiane, e di metterle per iscritto per poterle tramandare ai figli e ai nipoti.
Il materiale documentale e fotografico disponibile era veramente scarso e le prime difficoltà si sono subito palesate nel costruire un albero genealogico attendibile: i dati erano discordanti tra loro a seconda della fonte orale di provenienza, inoltre molte caselle dell’albero restavano vuote.
È a questo punto che mi sono imbattuto nel Portale Antenati e, utilizzando i vari registri, i singoli certificati di nascita, matrimonio e morte, quasi tutti i dati mancanti al mio albero genealogico sono diventati chiari e soprattutto disponibili. Da ogni singolo nominativo è stato possibile risalire ai genitori, al coniuge, ai figli e così via per tutto il periodo dell’800.
Senza la consultazione del Portale Antenati non avrei mai saputo che il mio bisnonno Emidio Mariani in realtà si chiamava Emilio Albino Mariani e grazie a questa precisazione è stato possibile consultare i relativi certificati e notare che egli si era sposato tre volte dopo essere rimasto vedovo.
A differenza di mio nonno Vincenzo Ferrari, emigrato in America e deceduto nel crollo di una miniera di ferro in Pennsylvania, del mio bisnonno materno Alfonso Evangelista non ero riuscito a trovare traccia tra gli emigranti pur essendo certo che egli avesse trascorso molti anni in Argentina.
Dal Portale Antenati ho appreso che il nome esatto era Giuseppe Alfonso Evangelista e nella lista dei Passeggeri, che si imbarcarono da Napoli per Buenos Aires, il suo nominativo si trovava alla lettera G come Giuseppe Alfonso Evangelista. Se non avessi saputo, tramite il Portale Antenati, del secondo nome non l’avrei mai trovato.
Per far conoscere le storie più significative della famiglia narro la vicenda dello zio Arturo, di indole mite, il quale compì un singolare viaggio della speranza. Nel 1938, a 19 anni, fu chiamato al servizio di leva in qualità di fabbro per ferrare i muli del reparto artiglieria.
All’epoca la leva durava 24 mesi, ma allo scadere del secondo anno, nell’estate del 1940, l’Italia entrò in guerra e Arturo fu inviato a combattere in Jugoslavia, per circa tre anni. Il 10 settembre 1943, dopo l’armistizio di Cassibile, venne catturato dai soldati tedeschi e deportato in Germania al campo di concentramento di Buchenwald nel settore Stalag 5, non distante da Berlino.
Finalmente nel 1945 l’Armata Rossa arrivò anche a Buchenwald e i Sovietici liberarono tutti i prigionieri trasferendoli in Polonia e dopo altri sei mesi arrivarono a Innsbruck dove furono definitivamente liberati.
Arturo con l’ennesimo treno percorse la linea ferroviaria che corre lungo la costa adriatica e finalmente trovò un passaggio su una vecchia Balilla lungo la strada della valle del fiume Sangro attraverso una distruzione che non aveva mai pensato potesse raggiungere quelle contrade tanto isolate. I ponti sul fiume erano stati distrutti e l’auto dovette avanzare lungo la sterrata che si arrampicava sui monti ma alla fine anche questa risultò interrotta a circa sette chilometri da Borrello.
Era tardo pomeriggio, Arturo sperava che la sua famiglia fosse stata risparmiata e a passo svelto, quasi di corsa si avviò verso il paese, era l’imbrunire quando raggiunse la località chiamata Piano del Verde, rallentò l’andatura e trasse un respiro di sollievo, i campi dei suoi familiari erano stati seminati: alcuni di loro erano ancora in vita e tra poco li avrebbe riabbracciati. Una follia durata sette anni.
Il padre di Anna Maria, Agostino Scotto di Marco, detto il “Comandante”, capitano di corvetta presso la marina militare, come si evince dalle pubblicazioni rintracciate sul portale Antenati dell’Archivio di Stato di Brindisi, era la terza volta nella sua carriera che aveva come destinazione Brindisi. Aveva conosciuto parecchia gente del posto e gli era fraterno amico il figlio del Notaio Foscarini che, in ogni suo ritorno, lo cercava subito per trascorrere le ore libere dal servizio con lui mettendolo a giorno delle ultime novità: matrimoni, nascite, morti. Aveva un bel fisico asciutto ed era sempre vestito in maniera impeccabile sia in divisa che in borghese. Era un giovane Capitano di Corvetta molto ricercato dalle signore specialmente per il gioco del bridge al Circolo della Marina, tanto che, spesse volte, la sera doveva rifare la barba, che era nerissima e folta, per essere perfetto al tavolo da gioco.
Una sera dei primi mesi del ’33, i due amici passeggiavano per il lungomare Regina Margherita di Brindisi quando il Comandante notò due signore che procedevano in senso opposto e si meravigliò, data la serata gelida e ventosa, del loro procedere lento dovuto probabilmente all’andatura della signora anziana. Era questa una persona che dimostrava una settantina d’anni; con un lungo vestito nero che sfiorava il selciato, calzava sulla fronte un cappello sempre nero di velluto. Il Comandante notò lo sfavillio di due brillanti alle orecchie mentre, nell’insieme, la figura della signora era piuttosto dimessa. Non altrettanto quella della giovane figlia che apparve subito di una bellezza folgorante. Vestiva un cappotto di sartoria bordò e affondava il viso nel collo di astrakan per ripararsi dal vento.
La signora anziana era la signora Eleonora vedova del Dottore Barnaba, la ragazza l’ultima figlia della signora che molto colpì il Comandante tanto che chiese al Foscarini di informarsi perché forse potrebbe andare bene per lui. Nell’ultima destinazione precedente, a Messina, “aveva cercato moglie” e quasi concluso con una signorina di buona famiglia di quella città. Poi non se ne era fatto più niente ma Agostino, valutando la sua età, era entrato nell’ordine di idee di “mettere su famiglia”. Ora perché non a Brindisi? Conosceva, era conosciuto e stimato, quindi si poteva tentare.
Un mesetto dopo quella sera ventosa, di pomeriggio, ci fu la richiesta formale “per essere ricevuto, insieme al suo amico Foscarini, in casa Barnaba e chiedere in sposa la figlia Maria.” La signora Eleonora si riservò un pò di tempo per pensarci e, intanto, scrisse una lunga lettera, e non la solita cartolina postale settimanale, allo zio Angiolino, suo fratello prete, Cameriere Segreto di Sua Santità, per chiedere informazioni sul Comandante Agostino Scotto di Marco.
Seguì il fidanzamento e solo qualche stralcio qua e là è stato trovato per ricostruire quei mesi di vita di Maria e Agostino che pure dovettero essere ricchi di emozioni. Certamente, la giovane Maria fu affascinata dalle imprese del comandante, giri del mondo, imbarchi e scuole di Guerra anche fuori del Mediterraneo, campagne idrografiche e poi la grande guerra del 15–18 combattuta giovanissimo, la rovinosa caduta con il “Caproni” nel cielo di Restinco con relativa frattura della colonna vertebrale e degenza ospedaliera di un anno nell’Hotel Internazionale di Brindisi adibito ad ospedale per i casi più gravi.
A proposito di quel periodo, la madre di Anna Maria, Maria Barnaba, le raccontava un aneddoto capitato il quell’estate del ’33 in cui scoprì che Agostino aveva quasi quarant’anni e pensò che quasi quindici anni di differenza fra un uomo e una donna non erano importanti rispetto alla possibilità di vivere finalmente una vita libera di città in città lungo la penisola! Così iniziarono i preparativi per il matrimonio nella tarda estate del ’33 .
Le sarte di Bologna prepararono il corredo personale e l’abito da sposa. Il corredo da casa fu rinfrescato e ammirato da Elvira, la sorella di Agostino, che portò un costume tradizionale da procidana che la sposa Maria avrebbe indossato alla prima festa dei Misteri nell’isola in coincidenza con la Settimana Santa. Nel filo dei ricordi in un piccolo album di fotografie che porta la dicitura “Matrimonio di Agostino e Maria” rigorosamente in bianco e nero, posavano i genitori di Anna Maria in quel lontano 28 Dicembre 1933. Lo sposo, in grande uniforme, con sciarpa, sciabola e cordelline, sfoggiava le numerose medaglie accumulate nella carriera. Spiccava la medaglia di bronzo, la Croce di guerra, quella dell’Ordine Mauriziano e tante altre che erediterà il suo figlio maggiore. Era bello il papà di Anna Maria!
Maria era la classica sposa degli anni trenta: quante ragazze sfoggiarono una cuffietta di fiori d’arancio in quegli anni, quanti abiti morbidi nella scollatura e nella silhouette, aveva visto Anna Maria nelle foto d’epoca. Splendido il fascio di rose bianche che Maria reggeva in mano. Il fotografo aveva posizionato, inoltre, una corbeille fiorita ai suoi piedi vicino ad una delle sedie del salotto buono. C’era la sua futura cuginetta Elena che reggeva la nuvola di velo da sposa. Anna Maria ricordava bene questa mite cugina che aveva seguito le orme della zia Elvira che adorava. Era molto riservata Elena e quel nome lo porterà la sorellina di Anna Maria che si spegnerà neonata nel ’38.
Anche nella foto scattata all’Hotel Internazionale è presente la piccola damigella davanti alla zia, dopo la cerimonia: è tanto simile alla sua zietta che ne sembra la figlia! Sfilano in questa foto a partire dalla sinistra della foto il giovane Foscarini, il marito di una cugina di sua madre e famiglia con i due figli piccoli che Anna Maria ricorda già vecchi. Le tre amiche care, una cugina di Mesagne, la zia Elvira, la cugina Elena, la nonna Eleonora, gli sposi, la signora Maria Merolla, le cugine Palmina e Fausta d’Erchia di Monopoli, l’Arciprete zio Florindo, il dottor Merolla. I coniugi Merolla, erano grandi amici della famiglia dello sposo, dai quali passavano l’intera estate a Procida per “passare le acque ischitane”. Napoletani veraci, pare conducessero una vita molto brillante nella loro città. La signora, appare qui in foto, carica di gioielli; porta appuntate sull’abito di velluto ben due spille e diventerà molto amica di Maria che sentirà come una seconda mamma.
Dall’album dei ricordi, spunta quella della “Puparella“: è Anna Maria Scotto di Marco, la loro figlia e soprattutto mia madre.
Queste foto sono nitide, raccontano di vita, di avvenimenti, di persone che sono passate mentre le suppellettili, gli oggetti, mobili sopravvivono. Di loro rimane solo il ricordo, ma per quanto ancora?
Un attimo rispetto all’eternità, rispetto a questi quattro miliardi e mezzo di anni, da quando quel Sole continua a sorgere perfettamente ad Est nell’Equinozio di Autunno, un attimo del “Tempo dell’Uomo.”
Periodo Pratese tra la prima metà del 1500 alla prima metà del 1700
I libri dei battesimi cinquecenteschi di S. Pietro a Iolo fanno supporre che il ceppo primigenio dei Bettazzi, fosse collocato nella località Casale da cui si espanse nel territorio delimitato in rosso. Nelle prime generazioni, i nomi ricorrenti erano Bartolomeo e Bernardo in due linee separate, ma ambedue convergenti a Casale. Il mio capostipite è Bartolomeo Bettazzi nato intorno al 1530. Il figlio Alessandro, che ebbe Domenico lo troviamo a Vergaio . Antonio figlio di Domenico si trasferì a Montemurlo e sposò Maria Cirri, Il loro figlio Bartolomeo sopravvisse alla epidemia di peste del 1620. Giovanni, figlio di Bartolomeo sposa Margareta Filippi di S. Giusto Piazzanese. La famiglia nel 1683 è presente a Galciana e dal 1700 a S. Maria in Capezzana. Giovanni probabilmente non era contadino avendo affittato “una casa con villa” come riportato dallo stato delle anime del 1698. Intorno al 1700 i Bettazzi del contado furono ammessi alla cittadinanza Pratese e quindi potevano aspirare a cariche pubbliche. Luigi, figlio di Giovanni si trasferì, intorno al 1720 in S. Giusto in Piazzanese. Pellegrino di Luigi, forse al seguito di qualche nobile, si trasferì a Siena tra il 1740 ed il 1760.
Periodo senese dalla prima metà del 1700 al 1850
Pellegrino è il primo Bettazzi che sicuramente è vissuto in Siena dal 1764 come attesta la registrazione del battesimo della figlia M. Francesca. Lo stesso documento riporta la cittadinanza Pratese di Pellegrino permettendomi di risalire al periodo pratese. Pellegrino aveva un congiunto, probabilmente coetaneo, di nome Bernardo che rinchiuse Teresa, figlia naturale, nel convento della Madonna in Siena facendole prendere i voti religiosi. Nel 1767 la professione dichiarata di Pellegrino era servitore e cuoco ma successivamente diventa carajolo (fabbricante di carri). La moglie, Giovanna Masi è indicata come incannatrice di seta e filatrice a rocca. La prima residenza senese fu nella pieve di S. Giovanni Battista, successivamente in S. Martino. Nel 1790 scoppia la Rivoluzione Francese ed in seguito le guerre napoleoniche. In questo periodo la famiglia doveva aver raggiunto uno stato di benessere poiché nei primi anni del 1800 acquistò una casa in Via Costa dell’Abbadia. Giovanni di Pellegrino segue la professione del padre, sposa Maria Annunziata Baldesi di professione calzettaia. La famiglia Baldesi doveva appartenere all’alta borghesia senese poichè i nobili Orazio e Ferdinando Ballati Nerli, Flavio Chigi e Ansano Zondadari furono padrini di battesimo del padre e degli zii. Pirro, ultimo nato della coppia, prosegue la professione di carrozzaio, sposa Caterina Bruni, tessitrice di panni.
Da Siena a Livorno
Giovanni figlio di Pirro, Inizia a fare il carajolo, poi entra nelle Ferrovie come manovale successivamente manutentore ed infine impiegato e pensionato. Si sposa, con la senese Adele Vannini di professione tessitrice. Probabilmente per lavoro a Livorno, tra il 1886 ed il 1888, Giovanni si innamora ed è ricambiato dalla livornese Maria Luisa Berzolese (Versolesi). Maria Luisa aveva sposato, in gioventù, Egisto di professione vetturino. Le cose non dovevano andare bene se Egisto emigrò in Francia dal 1885 al 1887.
Da Livorno a Roma e la nascita dei Vessi
Nel 1888 Giovanni e Maria Luisa sono a Roma. Nel 1889 nasce Guido, che non possono riconoscere essendo conviventi, per cui gli impongono il cognome di Vessi e lo adottano. Nel 1892, sempre a Roma hanno un altro figlio Armando. Nel 1893 viene inaugurata la stazione ferroviaria di Bagni di Lucca dove Giovanni si trasferirà con la nuova famiglia e presterà servizio per diversi anni (foto 2). A Livorno Egisto ha una compagna da cui nasce una figlia. Volendo emigrare, con la compagna e la figlia, deve riconoscerla. I rapporti tra i Maria Luisa ed Egisto devono essere stati civili poiché Maria Luisa riconosce come sua la figlia di Egisto e gliela affida. Nel 1894 Egisto è in Brasile, alle immigrazione dichiarò di essere celibe ma muore pochi anni dopo. Essendo celibe non viene comunicata la morte al Consolato italiano per cui Maria Luisa non seppe mai di essere diventata vedova. Nel 1906 la famiglia è a Roma dove Guido fa il servizio di leva. Richiamato nella guerra 1915-1918 lavora nelle retrovie nel genio automobilistico. Nel 1909 Guido sposa Marianna Di Pietropoaolo che muore nel 1913. Poco prima della fine della I guerra mondiale Guido sposa Zaira de Dominicis. Nei primi anni ‘20 Guido apre una officina di riparazione di motori diesel. Successivamente amplia la propria attività in altri settori. Guido e Zaira non avendo figli si prendono cura di Lidia, nipote di Zaira, rimasta orfana. Lidia avrà un figlio Guido che gestirà un chiosco di fiori sul lungotevere, verrà assassinato ed il corpo gettato nel Tevere. Ignoti gli esecutori ed il movente. Nel 1943 Guido Vessi si innamora, e poi sposerà la fidentina Bice Mambriani che abitava nella “porta accanto”. Guido e Bice sono i miei genitori.
Ringraziamenti
Gli archivi online del Portale Antenati del Ministro cultura
Elena Bertelli, Ezio Papa – Stato Civile Comune di Livorno
Don Aldo Lettieri, Daniela Liberatori – Archivio arcivescovile di Siena
Orlando Papei – Il palio.org
Filippo Pozzi – Stato civile Comune di Siena
Claudio Bartalozzi – Archivio storico comune di Siena
Virginia Barni – Archivio di Stato di Prato
Monica Cecchi – Archivio vescovile di Prato
Don Claudio Ticconi – Parrocchia S Matteo in Nave di Lucca
Carlotta Lenzi – Archivio Vescovile di Pistoia
Un quadro macchiaiolo con cavalli al pascolo, semplicemente firmato “Giulia” dalla mia bisnonna materna, è stato la molla che mi ha lanciato nella ricerca genealogica. Volendo annotare dietro la tela il cognome dell’autrice e non quello del marito, ho telefonato all’anagrafe di Fiesole; mi hanno detto che si chiamava Pellegrini e che era pisana. Obiettivo raggiunto, poteva finire tutto qui, con una lieve picconata alla fiorentinità garantitami da mio padre. Già la sapevo incrinata da sua mamma valdarnese, che mi aveva cresciuto in via Masaccio, e dalla mitica bisnonna Giannina Aliboni (con la ò aperta), livornese di Antignano, al secolo Maria Giovanna. Morta suicida per essersi fatta e mangiata – lei diabetica ma ottima cuoca – un intero latte alla portoghese di sei uova, una sera che era stata lasciata sola in casa.
Tanti fatterelli di questo genere mi frullavano in testa insistentemente in una camera dell’ospedale Don Gnocchi mentre cercavo di riprendermi da un grave incidente di percorso, qualche anno fa. Tra un tentativo e l’altro di fuga in pigiama, mi misi ad annotarli sul portatile così come me li ricordavo; illudendomi che a mia figlia avrebbero potuto interessare, caso mai ci avessi lasciato le penne. Erano pieni di errori, ovviamente, per quanto riguardava date e parentele, perché scritti con niente sottomano da poter controllare e con la testa in stato semi-confusionale per la batosta. Comunque, ignoravo bellamente di trovarmi in quel preciso momento al centro del soppresso comune di Caselline e Torri, in parte divenuto poi Scandicci: questo lo realizzo adesso dal Portale Antenati. Ebbene proprio lì i miei avi paterni erano stati contadini per generazioni: parrocchia di San Martino alla Palma, per la precisione. Un ameno borgo collinare che casualmente da anni attraverso, ogni tanto, quando la Firenze Pisa-Livorno è intasata in modo grave. Giocondo Baccetti, di Luigi, classe 1829, padre di almeno quattro figli morti entro l’anno di età e infine del buon Adolfo, quest’ultimo insufficiente a mantenere da solo la tradizione mezzadrile. Inurbandosi al momento giusto, trova un impiego statale nel caos della dipartita di Firenze capitale. Custode in un museo e marito (per chissà quale congiuntura) della ghiotta e stizzosa bisnonna livornese. Lui invece mitissimo, dopo il pensionamento si dedicò a quotidiane passeggiate in campagna, da cui tornava a casa tutti i giorni stremato. Scommetto che andava verso San Martino alla Palma, ma da via Passavanti era un bel camminare.
Altro universo quello degli Aliboni di Antignano, frazione delle dimensioni ottimali per elargire non troppo di rado qualche soddisfazione sul Portale. Gli uomini quasi tutti marinai oppure scalpellini, che facevano a pezzi la panchina del Tirreniano lungo la costa di Calafuria, per la costruzione dei palazzi livornesi (Andrea, babbo della Giannina, era tra costoro). Le donne invece tutte lavandaie, suppongo al servizio delle famiglie della Livorno bene. Doveva esistere, nella zona, un “botro” con acqua particolarmente copiosa e pulita. Tante le famiglie Aliboni ad Antignano, che per orizzontarmi ho dovuto ricopiarle dal censimento del 1841 dentro a un file Excel; il mio ramo è risultato quello di Valente, nato prima del 1740. Grande sorpresa avervi trovato direttamente collegato il “tenente castellano” del paese: Girolamo Mariani, classe 1777, di nazionalità còrsa. Nonno materno di Andrea, era a capo dell’ultimo drappello di cavalleggeri granducali alloggiati nel castello costruito ai tempi di Cosimo I. Mariani e Maestracci erano le famiglie corse immigrate, strettamente imparentate tra loro, sulle quali non dispero di riuscire a trovare più precisi collegamenti con l’isola di origine.
Tornando alla quiete dell’entroterra toscano, sempre dal lato paterno c’è mia nonna Tea Niccolini (ma si firmava Théa per vezzo), un tesoro di donna nata a Terranuova Bracciolini nel 1898. Essendo dicembrina, trovava ragionevole ringiovanirsi di qualche settimana dichiarando un anno solare in meno. Ma anche così, le sarebbe rimasto addosso il puzzo d’Ottocento (sua la definizione), quindi con disinvoltura di anni se ne levava due. Donna a suo modo moderna, mediocre ai fornelli ma provetta nel crawl, che aveva imparato da giovane nell’acqua fangosa dell’Arno. Si diplomò all’Accademia di Belle Arti e per la vita si dette alla miniatura, sotto la guida di sua zia Maria Niccolini che aveva fatto da apri-pista a Firenze trent’anni prima. Erano rispettivamente figlia e sorella di Giovanni: un fornaio del 1870 che tradì una dinastia di poveri calzolai vissuti per almeno cinque generazioni al riparo delle mura terranuovesi, fin da un altro Giovanni del primo Settecento. ‘Piciullo’ il loro soprannome, tramandato di padre in figlio qualsiasi fosse il vero nome (spesso: Tito). Ma è la mamma della Tea che ora interessa, su cui io sapevo pochissimo perché morì giovane: Pia, dei Franciolini di piazza Santa Felicita, finora l’unico pezzo genuinamente fiorentino di questa storia. Penso che fossero loro ad ospitare Tea negli anni dell’Accademia, e da ciò il legame con suo zio Raffaello Franciolini. Proprio zio non era ma quasi, a quanto vedo rovistando nel Portale. Estroso personaggio, commerciante di cappelli e chincaglierie, si fece costruire dal Coppedè la palazzina liberty sull’angolo di via Giotto, casa e laboratorio. Sposò una Borrani nipote dell’omonimo pittore (ma non quella che piaceva a lui, la sorella Elettra) e la portò a vivere in via della Cernaia accanto ai Pineider… e qui inizierebbe un altro immenso groviglio di parentele acquisite che non saprei a parole come gestire.
Cerco quindi di chiudere il cerchio con la mia famiglia materna: da una parte il nonno Mario Paoletti, chimico nelle industrie tessili di Prato ma soprattutto eccellente fotografo. Figlio di Flaminio, ispettore scolastico giunto a Firenze da una famiglia contadina della campagna pisana, zona di San Benedetto a Settimo nei pressi di Cascina. Anche nel suo caso, fu per attrazione della meteora di Firenze capitale? Sui registri di San Benedetto risalgo indietro zoppicando per un paio di generazioni, poi ci sono problemi di archiviazione dei files che non ho ancora capito come affrontare.
Su mia nonna Fiorenza (nonna Enza o zia Flò, a seconda dei punti di vista) incombe invece una famigliona di quelle toste: i Frascani, originari di San Casciano Val di Pesa. Con una serie di notai, giudici e camerlenghi, ti fanno arrivare senza batter ciglio fino a un Bartolomeo di Filippo, di metà Seicento. Con Francesco vi fu l’immigrazione a Firenze, dopo la laurea in Medicina a Pisa nel 1815. Residenza: nell’allora via del Cocomero, accanto all’omonimo teatro (il Niccolini di oggi). “Medico in Firenze popolarissimo”, lo definì Ferdinando Martini, fu assiduamente al lazzeretto fiorentino durante l’epidemia di tifo del 1817 e durante quelle di colera del 1835 e 1855 (Paoli 1874, Cenno biografico del dott. Francesco Frascani letto davanti al feretro nella cattedrale fiorentina il 5 febbraio 1874). Padre di prole numerosa e altrettanto prolifica, ebbe per moglie dapprima la pisana Eleonora Pellegrini, poi una modista di via Calzaioli, alla cui ultima figlia, Clementina Frascani, fece sposare il figlio del fratello di Eleonora, Giuseppe Pellegrini. Con buona pace delle regole sulla consanguineità, visto che ne nacque Giulia, da cui questa storia è partita: futura moglie di Gino, nipote diretto dello stesso Francesco e di Eleonora in quanto figlio di Ranieri Frascani (smooth operator di giorno alle Dogane, ma di sera attore “amabile e disinvolto” al Cocomero). Gino Frascani fu un bravo ostetrico, come suo cugino Vittorio, noto sindaco di Pisa e massone omaggiato anche del nome di una via nel quartiere di Pisanova. Gino invece è stato recentemente riesumato alle cronache non per le proprie doti mediche (suo l’opuscolo intitolato “Donna, partorirai senza dolore”), né per aver costruito l’ospedale ginecologico per ragazze madri del Salviatino, ormai fatiscente nelle esilaranti riprese del cult “Amici miei” di Monicelli. Bensì per aver ospitato decine di ebrei in fuga nella sua Villa Primavera, come si apprende dal blog di Richard Brook/Bruch.
Ancora memore della bontà del latte appena munto dalle ultime discendenti dell’esercito di mucche con cui Gino cinquant’anni prima alimentava i pargoli del suo ospedalino, non mi resta che ringraziare Carole Vaillant, lontana parente francese di cui ignoravo l’esistenza, spuntata all’improvviso dai meandri di Geneanet. Con grande pazienza aveva già ricostruito buona parte della saga dei Frascani. E’ lei che mi ha fatto conoscere il Portale Antenati e quello dei battesimi di Santa Maria del Fiore.
Tante foto in bianco e nero, un cognome non comunissimo nella mia area di residenza e un programma scolastico del 1872-73 del mio trisavolo alimentarono la mia curiosità nello scoprire quali fossero le origini della mia famiglia. Cominciai dai registri dell’archivio comunale di San Vittore del Lazio (FR), paese d’origine di mio nonno. Il mio bisnonno Vittore nato nel 1883 a San Vittore del Lazio, dopo aver prestato servizio nella prima guerra mondiale ed essersi sposato con Giuseppina Coia di Cerasuolo, emigrò in Scozia dove aprì una serie di locali ancora oggi esistenti tra Glasgow e Millport, per poi tornare in Italia con mio nonno e i fratelli (tutti nati in Scozia) nel ’43, nel corso della guerra.
Suo padre (mio trisavolo) Bernardo Bonaventura, nato sempre a San Vittore del Lazio nel 1846, era un insegnante di scuola elementare di cui conservo ancora il succitato programma scolastico del 1872-73; si sposò molto tardi, a 45 anni, con Giuseppa Giampaoli, sanvittorese nata da Domenico Antonio Giampaoli (della cui provenienza non sono riuscito a trovare ulteriori notizie) e Carolina Verona (famiglia attestata a San Vittore dal XVIII secolo e con una serie di membri esercitanti la professione di “dottori fisici”, tra cui in ordine Tommaso Verona nato nel 1837, il padre Giovan Angelo nel 1827 e il nonno Luca).
Il mio quadrisavolo si chiamava Vittore e nacque nel 1809, sposando nel 1829 Laura Saroli sempre di San Vittore. Dai processetti matrimoniali presenti sul portale Antenati ho potuto constatare la sua professione: possidente terriero. Ciò si incrocia con quanto tramandato dalle storie di famiglia, secondo cui Vittore avrebbe rifornito le scuderie del Re Ferdinando II di cavalli.
Dai registri battesimali di San Vittore del Lazio emergeva poi il nome del padre di Vittore, Francesco Bonaventura, nato nel 1785 e sposato con Lucia Ferraro, di una famiglia napoletana. Il padre di Francesco era un notaio e, a ben vedere, fu il primo a nascere a San Vittore del Lazio. Difatti dai registri di battesimo, Andrea Vittore Bonaventura, nato nel 1761, si dice figlio di Romualdo Bonaventura da Gaeta (LT). Andrea Vittore, rispetto quanto emerso poi dai processetti matrimoniali presenti sul portale Antenati, sposò Maria Giuseppa Vittiglio di Cassino (al tempo ancora nominata San Germano), città dove si trasferì con il fratello Benedetto “pittore” ed esercitò la professione di notaio. Sempre dai processetti di Antenati è emersa recentemente anche la data della sua morte: 11 settembre 1801, sepolto nel cimitero di Sant’Antonio da Padova a Cassino.
Del padre Romoaldo ancora poche informazioni sono emerse: nei processetti matrimoniali di Antenati era allegato il suo atto di morte del 14 agosto 1787 nella chiesa dell’Annunziata di Cassino. Qui viene ripetuta e confermata la sua provenienza gaetana e l’approssimativa età di morte, 55 anni; pertanto la nascita di Romoaldo andrà posta intorno al 1732. Sappiamo ancora poco sulla sua professione e sulle motivazioni che lo spinsero a spostarsi nel Basso Lazio, sebbene indizi possano derivare dalla qualifica di “Magnificus” ripetuta in tutti i documenti che lo riguardano. Spero di poter proseguire e approfondire la ricerca presso gli archivi gaetani per ottenere ulteriori risposte.
Ringrazio il portale Antenati per avermi dato la possibilità di precisare la mia ricerca e condividere la storia dei dei miei studi, nella speranza che possa risultare proficuo e di incoraggiamento per altri che vogliano ripetere lo stesso percorso.
Fino ad oggi sapevo ben poco sull’esperienza di mio nonno Antonio durante la Seconda Guerra Mondiale. La curiosità di saperne di più sulla sua storia l’ho sempre avuta, ma soltanto adesso che sono vicino ai 40 anni ho sentito il bisogno di mettermi sulle sue tracce per saperne qualcosa di più.
Grazie al foglio matricolare inviatomi dall’ex archivio militare di Napoli, posso leggere i fatti realmente accaduti sulla sua vita militare. Nonno Antonio, classe 1916, nasce a Soccavo, in Via Contieri n. 11, questa è la casa dove cresce con i suoi genitori, papà Giovanni, mamma Anna, ed il fratello Vincenzo e la sorella Maria. Nonno Antonio sposa nonna Lucia e da coniugato si trasferisce prima in affitto in Via Paolo Grimaldi e poi definitivamente con tutta la famiglia nella casa da lui costruita in Via Verdolino. Il 09 Aprile 1940 viene incorporato al 48° Reggimento Fanteria “Bari” che raggiungerà sempre nella città pugliese il 07 Maggio 1940 per poi diventare la 47° Divisione Bari. Dopo un periodo di addestramento s’imbarca per l’Albania il 28 Ottobre 1940 dal porto di Taranto ed il 02 Novembre 1940 sbarca a Valona in Albania.
Uno dei più sanguinosi sacrifici dell’esercito italiano nel corso della Seconda Guerra Mondiale si compie proprio in Albania, sulla quota 731 di Monastero, si trova a circa 20 chilometri a nord di Kleisoura. La quota 731 dopo una furiosa lotta viene conquistata dall’Italia, ma la reazione nemica si manifesta in modo talmente violenta che risulta impossibile mantenerla e deve essere abbandonata, soprattutto a causa del quasi totale annientamento degli occupanti italiani: nonno Antonio fu ferito gravemente ad un occhio da una scheggia di una bomba o granata il 13 Marzo 1940 sul fronte greco. Fu subito portato all’ospedale da campo di Berati, città che si trova lungo il confine in Albania. All’ospedale ci rimase circa un mese fino a quando non fu imbarcato dal porto di Valona per far rientro in Italia a Taranto con la nave ospedale Gradisca.
La lesione non lasciava nessuna forma di garanzia per la sua salute, il 31 Agosto 1941 il comando militare lo colloca in congedo assoluto e gli assegna la 7° Categoria di invalidità (alterazione organica ed irreparabile di un occhio, che ne riduce l’acutezza visiva fra 1/50 e 3/50 della normale).
Nonno finalmente non lascerà più la sua casa in Via Verdolino a Soccavo, e dal matrimonio con la sua Lucia sono nati otto meravigliosi figli: Giovanni, Vincenzo, Anna, Mario, Ciro, Assunta, Luigi ed infine mia mamma Pasqualina.
L’incontro con Zio Vincenzo
Durante la mia attività di ricerca vengo a scoprire che il fratello di mio nonno Antonio, Zio Vincenzo, più piccolo di 8 anni è ancora in vita!
Per me tale notizia è una bomba, in quanto solo immaginare di vederlo mi sembrava quasi poter pensare di parlare con mio nonno.
Ho dovuto attendere molto, c’è stata la pandemia legata al Covid, ma alla fine ce l’ho fatta, il giorno 6 novembre del 2021 sono riuscito a incontrare Zio Vincenzo.
Grazie all’aiuto di mia Zia Anna, che mi ha fatto da gancio, un sabato mattina piovoso sono sceso a Napoli e ci siamo recati a casa del fratello di mio Nonno Antonio: l’incontro è stato breve ma ha superato ogni aspettativa.
Zio Vincenzo è una persona fantastica, a 97 anni è quasi completamente autonomo, si aiuta con un bastone per camminare, si prepara da mangiare da solo, ultimamente esce un po’ di meno per ovvi motivi ma parlare con lui è stata un’esperienza magnifica perché ho avuto il piacere di apprezzare la sua memoria di ferro.
Zio Vincenzo, mi accenna che durante la Seconda Guerra Mondiale, ha prestato servizio a Roma a Castel Gandolfo in una fureria militare, mi racconta nel dettaglio un bombardamento improvviso avvenuto una mattina da parte dell’aviazione tedesca per colpire il sito militare italiano dei castelli.
Di nonno Antonio mi dice solo che era un bravo fratello, un buono e che fu ferito gravemente in guerra portandone i segni per il resto della sua vita.
Poi i racconti si spostano all’improvviso sul loro papà, il mio bisnonno Giovanni, mi fa vedere una sua foto e le medaglie, mi racconta che anche lui è stato un sopravvissuto della “Grande Guerra”, la Prima Guerra Mondiale. Mi disse che il mio Bisnonno, in quel dramma visse diverse sventure, su tutte, l’assenza di cibo e acqua, ma in particolare si trovò anche nella tragica decisione in cui ci si imbatteva per sopravvivere e cioè nel dover sparare a un soldato nemico pur consapevole che sotto quella divisa c’era un uomo come te.
Mi racconta inoltre che lui porta il nome Vincenzo, in onore del fratello del padre Giovanni, che da eroe perse la vita in combattimento e fu addirittura premiato al valor militare. La famiglia era orgogliosa di questo figlio caduto in guerra, purtroppo Zio Vincenzo mi disse che di questa vicenda sapeva ben poco e gli avrebbe fatto piacere conoscere la vera storia.
Ci salutiamo con la promessa di rivederci presto e che mi sarei messo subito alla ricerca di informazioni su questo “Vincenzo” per regalargli più dettagli possibili.
Dopo mille ricerche, telefonate, e-mail, a distanza di mesi, ricevo con mia immensa gioia le informazioni che cercavo sul mio antenato direttamente dal Ministero della Difesa:
“Minopoli Vincenzo, di Antonio, nato a Soccavo (NA), il 4 gennaio 1886 – Soldato effettivo del 133° Reggimento Fanteria – è deceduto il 2 luglio 1916, a seguito di ferite riportate in combattimento, nell’Ospedaletto da campo 110… Ii Soldato Vincenzo MINOPOLI risulta sepolto nel loculo n. 7884 dello stesso Sacrario Militare di ASIAGO con i dati anagrafici errati (cognome “Minaggi” anziché “MINOPOLI”). Per quanto precede, questo Commissariato Generale ha dato mandato alla Direzione del Sacrario Militare di Asiago di provvedere alla correzione del dato anagrafico errato, nei tempi imposti dal relativo iter amministrativo.”
Inoltre, cercando in altri archivi ho trovato le motivazioni per cui gli è stata riconosciuta la medaglia al valore.
Pazzesco! Sono riuscito a conoscere, la sua data di nascita, la battaglia ove eroicamente perse la vita, il cimitero ove tutt’oggi è sepolto e soprattutto a seguito della mia segnalazione verrà rettificata la lapide con il suo cognome corretto, Minopoli.
Il tutto iniziato da una chiacchierata con Zio Vincenzo e dal suo forte desiderio di avvicinarsi anche lui alla sua storia e origini.
Purtroppo, non ho fatto in tempo a tornare con queste meravigliose informazioni da Zio Vincenzo, per aggiornarlo su chi era questo suo Zio eroico da cui ha ereditato il nome. Con enorme dolore egli ci ha lasciati nel mese di Febbraio 2022.
Quell’incontro rimarrà per me un momento magnifico di congiunzione diretta con le mie radici e con la storia della mia famiglia.
Mi chiamo Alberto Del Fra, vivo a Roma, ho il desiderio di lasciare ai miei figli e ai miei nipoti memoria dei nostri antenati, coloro che ci hanno trasmesso ciò che fa di noi ciò che siamo oggi.
Un anno fa ho avuto notizia da un mio amico dell’esistenza del Portale Antenati e da quel momento mi sono buttato a capofitto in un’avventura che giudico entusiasmante.
Il Portale mi ha fatto entrare in un mondo lontano, del quale avevo conoscenza solo dai libri di storia.
Com’è noto, la storia si avvale di documenti, attraverso i quali si ricostruiscono gli avvenimenti. Così è stato per me spulciando le iscrizioni di nascite, morti e matrimoni dei miei avi. Documenti in apparenza freddi e burocratici, che in realtà mi hanno fatto scoprire storie di caduta e di riscatto, liete e drammatiche dei miei avi, insieme al contesto generale nel quale essi sono vissuti.
Il paese d’origine dei Del Fra, per quanto ne sapevo, era Vasto (un paese del Chietino) in Abruzzo, quello della famiglia De Mauro di mia madre era Manfredonia in Puglia. Dalla conoscenza dei nomi dei miei nonni paterni, ho cominciato a cercare notizie negli archivi anagrafici di Vasto, ciò mi ha aperto un mondo. Ho trovato i miei bisnonni e poi i trisavoli, i quadrisavoli, i pentavoli, alcuni esavoli.
Credo di aver spulciato migliaia di documenti e al di là delle notizie trovate sui miei avi, mi si è presentato un quadro generale dei centri rurali del meridione, coerente con quanto narrato dai libri di storia.
I nostri avi maschi erano in gran parte braccianti, chiamati bracciali e contadini analfabeti, come si evince dalla dichiarazione dell’ufficiale anagrafico in calce a quasi tutti i documenti.
C’erano anche alcuni artigiani (calzolai, barbieri, sarti etc.), anch’essi spesso analfabeti, e pochissime persone abbienti, che avevano diritto al titolo di don nei documenti anagrafici.
Le ave erano invece casalinghe, tessitrici, cucitrici, anche contadine. Le mogli dei don avevano diritto al titolo di donna.
Nei matrimoni erano necessari i consensi dei padri degli sposi o, in caso di morte degli stessi, dei nonni paterni. Solo se morti anch’essi, il consenso veniva dato dalle madri. Un chiaro indizio di sistema patriarcale.
Impressionante la mortalità infantile: i registri dei morti sono colmi di nomi di bambini di pochi anni e talvolta di pochi giorni. Questo portava a un fenomeno curioso: la ripetizione dei nomi. Per esempio nasceva un bambino di nome Francesco che moriva presto. Il successivo nato veniva chiamato di nuovo Francesco. In vari casi ho trovato ben tre fratelli con lo stesso nome. Tra l’altro ho scoperto una cosa che probabilmente nemmeno mio padre sapeva: era il secondo Ettore della famiglia.
Evidentemente le scarse condizioni igienico/sanitarie e la mancanza di farmaci efficaci facilitavano la mortalità infantile.
Ovviamente anche l’indice di natalità era altissimo. Non era raro arrivare a un numero di figli in doppia cifra, fenomeno presente anche tra i miei avi.
Piuttosto rimarchevole era il fenomeno dei trovatelli, indicati come proietti. Chi li presentava all’ufficiale anagrafico era spesso la levatrice del paese.
C’era anche qualche ragazza che presentava un proprio figlio naturale, scegliendo coraggiosamente di allevare un figlio in una società che l’avrebbe tenuta al margine.
Un caso di questo genere capitò anche tra i miei antenati e merita un racconto. Una certa Carolina Di Guglielmo, cucitrice, ha una figlia naturale che chiama Maria alla quale insegna il suo mestiere. Probabilmente Maria non poteva essere considerata un buon partito. Un mio bisnonno Giovan Battista Del Fra, calzolaio, mestiere ereditato dal nonno paterno, lascia il suo luogo di nascita Tufo (un paese dell’Aquilano), il vero luogo d’origine dei Del Fra, per trasferirsi a Vasto. Compie un trasferimento inusuale per quei tempi, data la distanza ragguardevole tra le due località. Pure lui ha un marchio disonorevole: è figlio di un contrabbandiere ucciso dalle guardie doganali.
L’unione di queste due persone sfortunate porta a una famiglia che vive dignitosamente. Evidentemente Maria è una brava cucitrice e Giovanbattista un valente calzolaio, come si desume dalla firma in calce all’atto del matrimonio non era analfabeta, visto che danno una buona condizione ai figli maschi, in particolare a mio nonno Pasquale.
Pasquale infatti mette su una caffetteria e riesce a far diplomare tutti i figli maschi e a laurearne uno. Naturalmente le figlie femmine non sono messe nelle stesse condizioni. Queste ultime notizie provengono da una conoscenza diretta dei miei zii.
In definitiva quella dei Del Fra è una storia di riscatto a lieto fine.
Per quanto riguarda le vicende dei De Mauro la famiglia di mia madre. Già nella prima metà del ‘700 sono padroni di mulini a Manfredonia. Si capisce che la loro fortuna va crescendo col tempo. Evidentemente, pur non essendo don, erano considerati dei buoni partiti, si uniscono con varie famiglie di don, quella dei Rizzi di Manfredonia e quelle dei Garamone e dei Rosati, provenienti da altri paesi della Puglia.
Un personaggio che merita una menzione particolare è Pietro Rizzi (1814-1897), farmacista di Manfredonia, mio trisavolo, personaggio di cui spesso mi parlava mia madre. Egli per un periodo doveva darsi alla latitanza poiché giudicato sovversivo dal regime borbonico. Questo però non gli impedirà di tornare spesso di nascosto a casa, mettendo regolarmente incinta sua moglie, sposata pochi mesi prima dalla nascita del primogenito.
Pietro Rizzi fu assolto in tribunale. Pare che una testimonianza a carico di Pietro sia quella del curato del paese, che racconta di discorsi sovversivi fatti dal trisavolo nella sua farmacia. L’avvocato dice all’usciere di far entrare il parroco. L’usciere torna dicendo che il prete alla sua chiamata non ha risposto. E allora è gioco facile per l’avvocato: Signor giudice, come può il parroco affermare di aver udito discorsi sovversivi se è sordo?
Poi, però, come testimoniano i documenti anagrafici, avviene la diaspora dei De Mauro da Manfredonia. Ci sono degli atti di nascita e di morte che li riguardano in altri paesi della Puglia, ma non sarebbero stati sufficienti a farmi avere un quadro comprensibile, se non avessi conosciuto direttamente da mia madre i fatti essenziali. Il mio bisnonno Francesco Paolo De Mauro avalla per un amico una cambiale di importo notevolissimo. L’amico non la onora e il bisnonno deve vendere tutto, compreso il palazzo in cui abita, trasferendosi a Cerignola. Il figlio Leonida, elettrotecnico, per trovare lavoro emigra a Milano con i figli tra cui mia madre.
Seguono purtroppo sciagure di tutti i tipi. Muoiono in rapida successione Leonida (di spagnola), mentre la moglie Nunzia e tutti i fratelli e le sorelle di mia madre, moriranno a causa di varie malattie. Mia madre a Milano incontra mio padre, trasferitosi là da Vasto come bancario. Pensate che io non ho mai conosciuto un parente di mia madre.
Alla fine ho individuato 59 cognomi diversi dei miei avi.
A proposito di cognomi, va osservato che talvolta cambiano col passare del tempo. Per esempio all’inizio trovo il cognome Del Frà e non Del Fra, in genere nella prima metà del secolo XIX i Di o i Del all’inizio dei cognomi sono scritti con la minuscola, poi l’uso cambia. Analogamente di Mauro è diventato De Mauro, di Guglielmo si è mutato in De Guglielmo. Sovente cambiano le finali dei cognomi: per esempio Annecchino che muta in Annecchini.
Lo stesso succede per i nomi: una Rosanna all’atto di nascita diventa Rosaria al matrimonio e alla morte. Il Giovan Battista già ricordato, al matrimonio è Giovanni, alla morte Giovanni Battista.
Forse perché le nascite e le morti venivano trascritte avvalendosi solo di testimonianze orali di persone spesso analfabete che parlavano in dialetto, con conseguente possibilità di equivoci con l’ufficiale anagrafico.
Poiché la mia ricerca mi ha portato a consultare una miriade di registri anagrafici di vari paesi dell’Abruzzo e della Puglia, ho potuto osservare come in ogni località si ripetano sempre gli stessi cognomi, differenti però da paese a paese. Un fatto che testimonia come quelle comunità fossero piuttosto chiuse, con rari spostamenti o comunque limitati a località vicine. Il nostro Francesco Del Fra, con il trasferimento da Tufo a Vasto, è l’eccezione che conferma la regola.
Questa mancanza quasi totale di mobilità mi ha senz’altro facilitato il compito: quasi tutti i miei antenati sono nati, si sono sposati e sono morti nello stesso posto. In tal caso è bastato quindi scorrere i registri di una sola località per ricostruire la loro storia.
Dall’inizio del ‘900 in poi una tale ricerca sarebbe molto più complicata: per esempio mio padre e i suoi fratelli si sono tutti allontanati dal luogo di origine, andando ad abitare in grandi centri. Termino con l’auspicio che il progetto del Portale continui ad essere alimentato con la pubblicazione di nuovi registri e con un ringraziamento di cuore a tutti coloro che vi collaborano.
Mi chiamo Gianfranco Sommadossi e vivo a Vicenza. Sono nato a Bassano del Grappa, «la città dei signori e delle torri »* , nel 1935 e nel Borgo Angarano, nella zona destra del Brenta, al di là del Ponte Vecchio anche detto Ponte degli Alpini.
Fu una domanda dei figli di mio fratello “ Ma noi chi siamo?”. Sinceramente non me lo chiesi mai, ho conosciuto il nonno e la nonna paterni, trentini. Conoscevo il nonno materno bresciano. La nonna materna era veronese, non la conobbi. Il papà aveva due fratelli e una sorella. La mamma era figlia unica. Fino ad allora non mi ero interessato e quella domanda fece aprire un cassettino della memoria.
«Finché viviamo, dobbiamo continuare ad apprendere. Non accadrà mai che sapremo troppo, ma che non sapremo mai abbastanza. Nulla può darci più gioia del conoscere chi siamo, chi eravamo, chi saremo; e a nessun altro piacere potremo comparare quello che proviamo mentre apprendiamo…»** .
Quella domanda a cui non avevo saputo dare risposta aveva toccato il mio amor proprio e stuzzicata la curiosità. Ero in pensione perché non dedicarmi a una ricerca sugli antenati e grazie a documenti conservati dai miei genitori incominciai a scavare nel passato. La scoperta che ha scombussolato le mie certezze, fu un’annotazione di mio padre in un vecchio libro dove aveva scritto che il nostro cognome Sommadossi è l’italianizzazione di un soprannome trentino Somados, ma non aveva annotato il cognome da cui derivava.
Anche Lui la notizia l’avrà sentita da qualcuno in famiglia, ma tutto era finito nel dimenticatoio. Tra i libri di mio padre trovai un’annotazione il titolo era un testo di Dante Olivieri “I Cognomi della Venezia Euganea“ , forse anche papà si chiedeva perché questo soprannome ci è stato assegnato e cercava una risposta, che ho trovato grazie a Ettore Parisi, oggi conosciuto come “Archivio della memoria della valle dei laghi” in Trentino.
Per conoscere la genealogia dei Sommadossi prima del 1825 devo ringraziare Ettore questo prezioso ricercatore genealogico di Ranzo la cui mamma era una Sommadossi. Le sue indicazioni, le sue ricerche la sua disponibilità mi hanno spinto ad approfondire sui cognomi sui soprannomi di quegli avi a cui appartengo anche io e risalire le undici generazioni che mancavano alla mia genealogia. Il primo quarto si era fermato nel 1500 in una contrada delle Giudicarie esteriori. In quel borgo antico chiamato Ranzo passaggio obbligato tra il Banale la Valle dell’Adige e il Sarca, dove c’è una via dedicata ai Somados. I Gendroni: ecco chi sono i Sommadossi. I Gendroni appaiono nella storia della famiglia nel XIV secolo. Il loro nome è scritto nei registri parrocchiali della pieve di Ranzo. Nell’atto di matrimonio tra Pietro ed Elena oltre al cognome Gendroni, Ettore Parisi trova scritto detto el Somados.
Nessuno avrebbe pensato che questo soprannome diventava con il tempo il cognome di una numerosa progenie. Anzi produrrà anch’esso tanti soprannomi. Pietro Gendroni detto il Somados potremmo definirlo il capostipite dei Sommadossi, nel 1564 nella chiesa di Ranzo aveva sposato Elena anche lei una Gendroni. Avranno tre figli. Domenica 1565 Simone nel 1568 e Maria Domenica nel 1570. Simone continuerà la discendenza dei Somados, delle figlie Maria e Domenica non si anno notizie.
Quando Ettore Parisi mi confermò che le sue ricerche sui Sommadossi lo avevano condotto nel 1500 e che il precursore si chiamava Domenico Gendroni o cercato di inoltrarmi più in la nel tempo. I registri parrocchiali si fermavano al (1530 circa) la consultazione di documenti storici, accenni a campagne militari che citassero i Gendronl non mi dettero alcuna informazione utile. Dei Gendroni prima del 1500 buio totale. Le radici della mia famiglia iniziavano nel XIV secolo. Grazie a Ettore avevo aperto la strada per dare quella risposta che non conoscevo ricostruendo il primo quarto. Ma la soddisfazione della scoperta mi spinse oltre, aprendone altre.
Questa volta non furono i nipoti. Mi trovavo nella sala d’attesa del mio dentista, un appassionato cicloturista. Nel cestino dei giornali mi capitò tra le mani la rivista, “Lessinia tra malghe, contrade e memorie” una rivista curata da Anna Solati ricercatrice veronese. Sfogliando le pagine all’interno trovai un articolo in cui Si parlava di Breonio, comune della Lessinia, nome strano, mi incuriosì, e continuai a leggere. Nella sesta riga lessi due nomi: Vaona e Zivelongo e una data 920 d.C. fu spontaneo, esultare ad alta voce: Stai a vedere che ho scoperto le origini degli avi di mia madre!!! Non ricordo di che anno fosse la pubblicazione, ma è passato del tempo. La lettura della notizia che un nobile veronese otteneva dal primo re d’Italia Berengario I, per il figlio Bertello la Corte di Breonio di cui facevano parte le dipendenze dei Vaona e dei Zivelongo mi aveva incuriosito. Forse fu l’impulso di cercare le radici della famiglia di mia nonna materna, anche Lei una Vaona e che può vantare undici secoli di storia e che da allora mantiene lo stesso cognome. La curiosità di scoprire e il desiderio di approfondire le mie origini, mi portò a cercare. Questa volta non c’era Ettore, ma utilizzai i suoi consigli. Cominciai a costruire la genealogia di questa ramificatissima progenie che dovrebbe sfociare nella ricostruzione della storia di un altro quarto della mia ascendenza. E’ risaputo che la prima cosa da fare è avere qualche idea magari da chi lo ha fatto prima di te.
Il consiglio di Ettore fu di andare di persona negli archivi delle parrocchie, avendo già qualche indizio sulle cose da cercare. Sapevo cosa cercare, ma non sapevo come. Quando conobbi il Dot. Francesco Coati, archivista volontario della parrocchia dl San Pietro in Marano di Valpolicella, non immaginavo cosa fosse un archivio parrocchiale. La prima cosa che imparai fu la presenza dei quatto libri “canonici” Gli Stati delle Anime, il registro dei Matrimoni, dei Battesimi e dei Morti.
Il primo dei libri che mi consigliò di sfogliare fu lo stato d’anime, una sorta di censimento, in cui il parroco oltre che annotare la vita spirituale delle suo gregge, compilava e aggiornava il resoconto degli avvenimenti accaduti, date, lo stato di famiglia, nonni, genitori, figli, nuore, nipoti, il censo delle famiglie (tutte le persone conviventi che di fatto non erano parenti di sangue, ma che vivevano con la famiglia) i trasferimenti e molte informazioni utili alla ricerca delle origini, alla ricostruzione della storia famigliare. E questo è stato un altro passo per risalire la storia degli antenati che è diventata sempre più ampia attraverso la ricerca di documenti che testimoniano i modi di vita, i luoghi dove essi hanno vissuto e dove hanno contribuito a sviluppare la vita comunitaria. Poi gli altri tre non meno interessanti Matrimoni, Nati e i Morti.
Difficoltà, tante che non le elenco, ma ne è valsa e ne vale la pena. La difficoltà maggiore per me fu la lettura di questi documenti redatti in lingua latina con una grafia da penna d’oca. Le complicazioni che questo ha comportato per me con il tempo sono diventate superabili. C’è un altro aspetto da evidenziare la rarefazione degli archivisti Volontari nelle parrocchie che custodiscono un patrimonio archivistico inestimabile, Chiuso negli armadi. Questo purtroppo complica la ricerca. Nel 2021 una scoperta: leggendo un articolo di Paola Calaprisco su l’Adige quotidiano veronese “ i propri antenati a portata di clic ” Un progetto degli Archivi di Stato in collaborazione con Family Search mi ha permesso di scoprire la presenza dei Vaona nei comuni veronesi. Mi riferisco alla prima stesura, quella che con un clic appariva l’elenco dei comuni della provincia. Importante per uno come me che del veronese ne conosceva s1 e no una decina.
All’età di 87 anni avere la possibilità, attraverso il proprio computer, di cercare e di conoscere le proprie radici è una soddisfazione impagabile e affascinante. Il mio più grande desiderio è quello che questo progetto vada sempre migliorando con la possibilità di trovare sempre più documenti di stato civile accessibili online anche con la sinergia di più istituti come gli Archivi di Stato, gli archivi storici dei Comuni e le parrocchie afferenti alla diocesi di Verona.
Ricostruire l’onomastica degli ascendenti mi ha aperto la strada alla conoscenza delle radici della famiglia ciò non ha significato realizzare un elenco di nomi, date e località ma qualche cosa di più. Perché amici, questi sono parte dei mattoni che mi sono serviti per costruite la storia dei miei avi e quei mattoni li ho trovati anche nel Portale Antenati del nostro Archivio di Stato.
Gianfranco Sommadossi un ragazzo di una volta.
Note
*Definizione della città di Bassano del Grappa dello scrittore Paolo Malaguti, tratto dal romanzo “Sul Grappa dopo la vittoria” edito da Santi Quaranta nel 2009;
**Pensiero del medico e filosofo Guglielmo Grataroli del XVI sec.
Fin da piccolo tutti i fine settimana, si scendeva a Napoli a trovare i nostri parenti. Erano giornate intense in case molto piccole ove nel caos e nella semplicità trascorrevano del meraviglioso tempo insieme. Quando si andava a casa di Nonna Elena, la mamma di papà, c’era la solita visione di una cornice, con una foto in bianco e nero di un “uomo misterioso dai baffi neri”.
Quell’uomo era mio nonno Pasquale deceduto prematuramente di cui sapevo poco. Grazie al foglio matricolare inviatomi dall’ex archivio militare di Napoli, posso leggere i fatti realmente accaduti sulla sua vita militare. Nonno Pasquale, classe 1917, nasce a Soccavo, cresce con i suoi genitori, papà Giovanni, mamma Enrichetta, e le due sorelle Francesca e Rachele. Il 09 Giugno del 1938 viene chiamato alle armi per la ferma annuale presso il corpo della Regia Aereonautica Italiana e il 12/10/1938 viene inserito nel 7° Stormo presso l’aeroporto di Campo della Promessa ove svolgerà mansioni del suo grado di aviere. Il 30/05/1942 parte per la Grecia via terra da Imperia ed arriva sino ad Atene ed il 28 Luglio si imbarca per l’isola di Creta, ove sbarcherà a Candia. Nonno rimarrà lì per più di un anno, svolgendo compiti di presidio e controllo sino al famoso 8/09/1943 giorno dell’Armistizio. Anche a Creta i soldati italiani, da essere alleati, diventarono nemici dei Nazisti. Nonno e i suoi compagni furono ammassati in capannoni per lunghi periodi e trattati con disprezzo. Rimase prigioniero in Grecia sino all’7/12/1944. La sfortuna è solo all’inizio, di fatti viene liberato dalle truppe Inglesi ed internato in Egitto al Campo 305 P.O.W. (prisoner of war 305). Il campo era sotto la giurisdizione degli inglesi, erano stati internati prigionieri italiani provenienti nella quasi totalità dal fronte dell’Africa Settentrionale. Chiamato anche “Fascist Criminal Camp”, si trovava in pieno deserto egiziano, tra il Cairo ed Alessandria, ed era diviso in 38 “recinti”. Ogni recinto era costituito da un gruppo di 50 tende. Un “quadrato infernale” di sabbia rovente dove erano accatastati migliaia di uomini, tormentati dal caldo, dalla sete, dalla fame, dai pidocchi e, non ultime, dall’inerzia e dalla disperazione. Il campo allestito presso la città di Ismailia considerato “criminal camp” era destinato ai prigionieri di guerra “non collaboratori”, quindi si presume che nonno come tanti altri prigionieri italiani per la sua dignità di combattente fedele ai propri ideali rifiutò la collaborazione col nemico. Trascorsero anni difficili superati con dignità e orgogliosa dedizione ai propri ideali e alla nostra Bandiera. A Maggio 1945 si concluse il conflitto ma i “non collaboratori” furono gli ultimi ad essere rimpatriati: ciò avvenne a Luglio del 1946 un anno e un mese dopo la fine delle ostilità. Arrivato a Napoli il 22 Luglio 1946, nonno viene inviato in congedo illimitato, è il 27/09/1946.
UNA STORIA BELLISSIMA
Nonno come accadeva all’ora, prima ancora di partire per la guerra, si sposò molto giovane con una ragazza, purtroppo, o per fortuna al rientro dalla guerra, dopo tutti quegli anni fuori, scoprì che la moglie non era rimasta ad aspettarlo a casa ma anzi, si era addirittura rifatta una vita. Oggi si parlerebbe di tradimento, all’epoca fu uno choc, nonno Pasquale abbandonò quella donna e, si innamorò di una bella ragazza molto più giovane di lui che si chiamava Elena, mia nonna!
Tra i due scoppiò l’amore e subito andarono a vivere insieme, in via Risorgimento, da questo amore nacquero 7 figli: Giovanni, Vincenzo, Enrichetta, mio padre Antonio, Annamaria, Patrizia ed infine Rosaria. Tutto procede per il meglio ma c’è un cruccio che tormenta nonno. Essendo stato sposato e non esistendo il divorzio, non si vedeva riconosciuto l’unione con la sua Elena, non erano una coppia e cosa ben peggiore i loro figli risultavano “illegittimi”. Succede però che Il 1/12/1970 i Radicali, il Partito socialista, il PCI e il Partito Liberale approvarono la legge sul divorzio. Appena saputo che il divorzio era legge, nonno fu tra i primi in Italia, ad ottenere davanti al giudice lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio. Finalmente a Marzo del 1972 potette sposare in Comune la sua Elena e diventarono ufficialmente “Marito e Moglie”. Da questa unione civile mutò anche lo status dei loro figli che finalmente e formalmente, presero immediatamente il cognome del padre, Bruno e videro riconosciuti i loro diritti. Il destino è beffardo, appena raggiunto il suo grande sogno, ottenuta la condizione che tanto auspicava, l’11 Novembre 1972 un ictus fulminante se lo porta via all’età di 55 anni, lasciando improvvisamente un grande vuoto tra i suoi cari.
CONCLUSIONI
Nonno la sua vita l’ha vissuta purtroppo in parte, mi dispiace non aver avuto la fortuna di ascoltare qualche suo racconto. Un messaggio potente adesso mi rimarrà dentro ed è quello che mio nonno, nonostante la scomparsa improvvisa, ha lasciato ai suoi figli e a tutta la famiglia un forte senso di dignità.