Mi chiamo Regina Helena Scavone Posvolsky, sono brasiliana, nata a San Paolo e fiera della mia ascendenza italiana. Il primo membro della famiglia Scavone, della quale io sono una discendente, arrivò in Brasile nel 1886 proveniente da Tito, comune italiano della provincia di Potenza, Basilicata. È trascorso poco più di un secolo e mezzo dall’arrivo in terra brasiliana del mio trisavolo e sapendo che tramandare oralmente le memorie non è il modo più efficace per perpetuare la storia della famiglia, ho deciso di scrivere un libro sui miei ascendenti paterni. A tal fine sono ricorsa ad innumerevoli fonti che vanno dai documenti religiosi archiviati nelle parrocchie e nelle diocesi, alle ricerche realizzate presso gli uffici anagrafici, passando attraverso la collezione dei periodici (giornali, riviste, almanacchi) disponibili nella Emeroteca Digitale e non meno importanti siti genealogici quali, Portale Antenati e Family Search. Senza dimenticare l’importanza che i familiari più anziani rappresentano in questo contesto, mi sono resa disponibile ad ascoltarli ed interrogarli sul loro lontano passato, ho rivisto fotografie e ho visitato i luoghi che fecero parte della vita dei miei antenati. Il riscatto della nostra storia familiare è un viaggio personale alla ricerca della propria identità ed esige impegno, determinazione e soprattutto passione. La città di Tito dell’Ottocento, periodo su cui ho concentrato le mie ricerche, si è rivelata un piccolo villaggio formato da nuclei familiari costituiti da determinate famiglie, i cui cognomi nei registri di nascita, matrimonio e morte, si ripetono spesso. Ancora oggi a Tito il cognome Scavone è tra i più diffusi. È facile concludere che molti matrimoni avvenissero tra membri della stessa famiglia e che quando ciò non avveniva si trattava di matrimoni tra famiglie che mantenevano rapporti, ciò dava origine ad una estesa rete di parenti che garantiva mutuo supporto nei vari momenti della vita.
Il mio trisavolo, Gerardo Scavone, figlio di Vitonicola Laviero Scavone e Caterina Maria Agnesa Laurino, si sposò il 3 luglio 1847 con Angiolina Salvia, figlia di Gerardo Salvia e Giuseppa Giosa, entrambi nati a Tito. La coppia di contadini ebbe sette figli dei quali sembra che solo Laviero Salvatore abbia raggiunto l’età adulta. La mia trisavola, Angiolina Salvia, morì intorno al 1865. Rimasto vedovo, Gerardo Scavone (41 anni), si risposò con Rosina Giosa (27 anni). La coppia ebbe tre figli ma solo Carlo raggiunse la maturità.
Nel dicembre del 1886, a 62 anni, Gerardo e la sua seconda moglie, Rosina Giosa e il figlio Carlo, sbarcarono a Rio de Janeiro e di lì, furono inviati alla Hospedaria dos Imigrantes, struttura localizzata in San Paolo, nella quale restarono per un breve periodo.
Viene da chiedersi cosa fu che spinse un uomo di 62 anni a lasciare la sua patria, ad allontanarsi da parenti e amici, a rompere con tutto quello che gli dava una qualche sensazione di sicurezza, protezione e conforto emotivo, per stabilirsi in un altro Paese. Fu coraggio o disperazione? In realtà fu la scarsità di terra, la fame e la miseria. Dall’altro lato, le notizie che arrivavano dall’estero parlavano di un Paese dell’America del sud in cui la terra era abbondante, il suolo fertile e il clima gradevole, dove qualunque cosa si piantasse cresceva rigogliosa e nel quale cercavano agricoltori per lavorare la terra. La possibilità di acquisire terre e prosperare, attirarono una generazione di italiani scontenti della vita che avevano. Fu così che a milioni lasciarono l’Italia e tra loro, la famiglia Scavone.
Differentemente dalla maggioranza degli immigranti che si dirigevano verso l’interno del Paese al fine di lavorare nell’agricoltura, il mio trisavolo Gerardo, sua moglie e il figlio, si stabilirono in San Paolo decisi ad abbandonare la vita contadina. Desideravano attività urbane, commerciali o artigianali.
Il mio bisnonno, Laviero Salvatore Scavone, figlio di Gerardo Scavone e Angiolina Salvia, nato l’11 novembre 1848 a Tito, fu battezzato il giorno 17 novembre, data in cui si festeggiava il giorno di San Laviero martire, patrono e protettore della città e, in suo omaggio, ne ricevette il nome.
Nel 1871, Laviero Salvatore, conosciuto semplicemente come Salvatore, si sposò con la sorella della sua matrigna, una giovane di nome Filomena Giosa. La coppia ebbe quattro figli. Solo Angiolina sopravvisse. Filomena morì nel 1880, tre mesi dopo la nascita del quarto figlio, il quale morì pochi mesi dopo. La vedovanza precoce colpì il mio bisnonno, così come era avvenuto con il mio trisavolo, Gerardo e il padre di quest’ultimo, Vitonicola Laviero.
Nel 1885 Salvatore si risposò con Concetta Caprio (Tito, 23/10/1863 – San Paolo, 30/05/1948), figlia di Antonio Caprio, proveniente da Marsico Nuovo e di Lucia Di Giurni, anch’essa di Tito. La coppia ebbe sette figli: Gerardo, Lucia, Antonio (mio nonno), Elvira e Francesco Michele, nati a Tito; José e Geraldo nati a San Paolo. I figli Gerardo, Lucia ed Elvira morirono a Tito all’età di un anno circa.
Di fronte ad uno scenario di assoluta miseria e attratto dalla figura del padre che già si trovava a San Paolo, Salvatore decise di emigrare. La possibilità di poter contare sull’aiuto paterno per la ricerca di un lavoro e di un alloggio gli diede il coraggio di prendere la difficile decisione.
Laviero Salvatore partì il 12 marzo 1895 da Genova, a bordo della nave Rosario, lasciando i figli e la moglie Concetta che era in stato interessante.
Con il marito in Brasile, Concetta sentiva la famiglia incompleta e, trascorsi 5 anni, l’umile contadina e i figli: Antonio (10 anni) e Francesco Michele (quattro anni), che il padre ancora non conosceva, partirono da Genova a bordo della nave Sempione. Sbarcarono in Brasile il 14 marzo del 1900. Finalmente la famiglia era al completo, si stabilirono in San Paolo, nel quartiere Consolação.
Così come a Tito, anche in terra brasiliana mantennero una estesa rete di relazioni formata da parenti e conterranei. In tali relazioni prevaleva un sistema di mutua assistenza basato sulla solidarietà e la reciprocità. Non era raro che l’aiuto fosse anche di natura economica. Di regola abitavano tutti molto vicini, a volte nella stessa via o a pochi isolati di distanza e si facevano visita con frequenza.
La famiglia visse unita poco più di sei anni. Laviero Salvatore morì il 2 maggio 1906 a seguito delle lesioni provocate dal calcio di un cavallo. Lasciò la moglie Concetta (42 anni) e i figli Antonio (17 anni), Francesco Michele (10 anni), José (5 anni) e Geraldo (due anni).
Furono tempi difficili, Concetta dipendeva dai guadagni del marito e dovette andare a lavorare come lavandaia. Non si risposò. Anziana e con problemi cognitivi, sognava di imbarcarsi su una nave diretta In Italia. Desiderava reincontrare familiari e amici, camminare per le vie che un tempo frequentava. La mia bisnonna morì senza riuscire a realizzare il suo grande sogno. Penso che forse sia stato meglio così. La Tito di mezzo secolo prima, quella che conosceva la mia bisnonna, non esisteva più.
La coppia di contadini Laviero Salvatore Scavone e Concetta Caprio aspettava l’arrivo del terzo figlio. Mio nonno, Antonio, nacque mercoledì 24 aprile 1889 nella casa dei suoi genitori, in via Municipio, a Tito.
Il ragazzino, di carnagione scura e occhi verdi, lasciò la città poco prima di compiere undici anni. Degli innumerevoli ricordi che albergavano nella sua memoria rimasero il sinistro ululare dei lupi al calare della notte e la fontana pubblica, costruita nel 1869 in Piazza del Seggio, proprio nel cuore della città, dove il nonno fissò la sua memoria.
Dopo la morte del padre, Antonio divenne il capofamiglia. Al lato della madre, Concetta Caprio, lavorò ostinatamente per far fronte alle necessità familiari. Nel 1912, alla ricerca di orizzonti più promettenti, si recò a Rosario, in Argentina. Non riuscendo ad adattarsi, tornò a San Paolo.
Il nonno era un uomo umile, un calzolaio che aveva studiato poco, aveva una piccola bottega nel cortile di casa nella quale riparava e confezionava calzature. Nel 1921, all’età di 31 anni, si sposò con Maria Natividade Azurem (1900 – 1977), un’orfana cresciuta ed educata in un orfanatrofio gestito dalla Santa Casa de Misericórdia de São Paulo, dove ricevette un’educazione estremamente religiosa e conservatrice. All’orfanotrofio, oltre alle materie tradizionali, apprese vari mestieri manuali quali taglio e cucito, crochet, tricot, ricamo, mestieri che le permisero di contribuire alla rendita familiare.
La coppia ebbe quattro figli: Salvador, Maria José, Carlos ed Helio (mio padre).
Si sposarono tutti ma solo Carlos ed Helio ebbero discendenti.
Antonio Scavone morì nel 1958 senza mai essere tornato a Tito, ma i suoi racconti resistettero al tempo.
Nel 1992 i miei genitori, Helio e Sylvia, andarono a Tito. Papà voleva vedere da vicino quei luoghi che tante volte erano stati descritti dal suo defunto padre, in particolare la fontana di Tito, il ricordo più emblematico di mio nonno. Camminò per le strade strette e sinuose appropriandosi di quell’ambiente. Osservò l’organizzazione dello spazio, le antiche case allineate lato a lato, le facciate preservate e i portoni ad arco. Visitò le chiese, i pochi monumenti storici e il cimitero in cui giacevano i suoi antenati. Quando finalmente pose gli occhi sull’antica fontana, tutto quello che suo padre gli aveva raccontato su Tito divenne realtà.
Nel 2014 io e mio marito, Cassio Posvolsky, andammo a Tito. Arrivammo in un pomeriggio nuvoloso. Soffiava un venticello freddo. Ci addentrammo nella città attraverso Via Vittorio Emanuele. In quel momento smisi di essere il copilota di mio marito. Volevo solo osservare il paesaggio, fissare nei miei occhi le immagini che si succedevano nella misura in cui l’auto avanzava. In fondo alla strada, quando vidi la fontana, un solo pensiero si formò nella mia mente: “sono arrivata alla casa
di mio nonno!” È nei ricordi del passato che affermiamo la nostra identità.
La storia del ramo familiare al quale appartengo è costituita in maniera preponderante da persone umili, contadini, analfabeti. Arrivarono in Brasile spinti dalla fame, dalla miseria e qui si stabilirono. Non fecero fortuna, ma prosperarono. Ci hanno lasciato un’eredità di coraggio, fede, speranza, valori etici e morali che guidano le nostre vite. Devo a loro la mia esistenza.