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HomeStorie di famigliaPatrizia Mantovani

Autore: Patrizia Mantovani

Ritratto di Ermelinda Brudi

Il mio nome è Patrizia, penso che per capire a pieno quello che siamo sia necessario sapere ciò che eravamo. Oltre al cognome che si tramanda di padre in figlio (il mio è Mantovani) si tramandano i tratti somatici, il carattere, le abilità; il nostro DNA porta scritto quello dei nostri antenati, in noi c’è un po’ di tutti loro. La mia gente ha vissuto in piccoli paesi della bassa Lombardia, al confine con l’Emilia ed il Veneto. Queste sono terre di agricoltura di campi da zappare e coltivare. Le case piccole di solito con due stanze, arredate con pochi ed essenziali mobili in legno, la stufa a legna per cucinare e scaldarsi; l’elettricità non c’era, si usavano lampade ad olio e candele. Il gabinetto era situato in un capanno di legno fuori poco distante dall’abitazione. La dieta era povera si mangiavano zuppe di patate e fagioli ‘al tucin ‘con l’immancabile polenta.

Ritratto di Gaetano Mantovani

Il consumo di carne era poco frequente, qualche salume arricchiva la cena. Nel mese di Dicembre, quando veniva ucciso il maiale, si facevano salumi per tutto l’anno ed era una festa per tutta la comunità. D’estate la dieta era più varia. Si mangiavano i frutti dell’orto che tutte le famiglie coltivavano, le uova del pollaio e si consumava molto pesce che veniva pescato nelle ricche acque dei canali e dal grande fiume Po. Il bucato si faceva in un paiolo sul fuoco e nelle “ suioli ” mastelle metalliche che venivano usate anche per fare il bagno. Nel paiolo veniva messa acqua con un pezzo di sapone di Marsiglia e della cenere, il tutto veniva fatto bollire e poi vi ci si immergeva il bucato. Nei rigidi inverni le braci della stufa venivano utilizzate, messe in padelline per riscaldare il letto con il “Prete “. All’imbrunire nelle sere d’estate dopo cena, ci si ritrovava tra vicini di casa tutti fuori, grandi e piccoli, a conversare, raccontarsi storie, a fare “ filò “. Si formavano grandi gruppi, o piccoli gruppetti, come le donne che rammendavano o ricamavano in circolo attorno alla luce fioca delle lampade. Gli spostamenti avvenivano per lo più in bicicletta o su carretti trainati da cavalli o da asini. Le strade principali erano ghiaiate, solo le piazze erano di ciottolato. I miei antenati erano povera gente, braccianti agricoli al servizio di possidenti e bovari ”buar” addetti alla cura della stalla e del bestiame. Ho sempre avuto un legame famigliare forte e le vicende singolari di famiglia si tramandano da generazioni. Vi racconto alcune vicende famigliari tramandate fino a me.

Atto di nascita di Ermelinda Brudi, 1876

Ermelinda Brudi e Gaetano Mantovani, i miei trisnonni, dei quali ho trovato sul sito Antenati l’atto di matrimonio e l’atto di nascita di lei, risalendo così ai miei quadrisavoli, Ottaviano Giuseppe Budri e la moglie Carolina Piva e Cova Modesta con Angelo Mantovani dei quali nessuno aveva memoria.

Ermelinda e Gaetano sposi il 15 maggio del 1900 erano braccianti agricoli, abitavano in una piccola casa con un orto ed un pollaio abitato da sette/ otto galline che probabilmente rappresentavano tutta la loro ricchezza, ed erano un sostentamento importante per tutta la famiglia. I ladri, tutti gli anni in inverno, mettevano in difficoltà la famiglia, rubando tutte le galline. Gaetano ed Ermelinda, in occasione delle feste Natalizie, si recavano a fare visita alle varie famiglie dei parenti di lui a Bergantino (RO), suo paese natale. Ogni famiglia che veniva a conoscenza del furto subito, gli faceva dono di una gallina e così al ritorno a casa a Poggio Rusco avevano ripopolato il pollaio.

Un’ altra vicenda tramandata riguarda la nascita di uno dei loro cinque figli. A settembre era il tempo della mietitura del gran turco. Ermelinda e Gaetano lavoravano nei campi. Il lavoro era frenetico. Ermelinda, al nono mese di gravidanza, dopo pranzo non si sente molto bene, avvisa suo marito e si incammina verso casa. Sulla lunga strada ghiaiata, Ermelinda riconosce i dolori del parto. Man mano che proseguiva, i dolori si facevano più forti. Sola ed esausta, si adagiò su di un cumulo di ghiaia al margine della strada per prendere fiato. Un passante con un carretto si fermò per soccorrerla. Il signore si offrì di accompagnarla a casa, ma quel bimbo aveva fretta di affacciarsi al mondo e quel passante si improvvisò allevatrice ed aiutò Ermelinda a dare alla luce il suo bambino. Quel bambino era mio bis nonno Italo. Un giorno, il ventenne Italo, tornando in licenza da militare, e percorrendo la strada che portava a casa sua, chiese un passaggio ad un anziano signore che conduceva un carretto. Il signore lo fece salire e cominciarono a dialogare. Italo aveva voglia di sentire discorrere nel suo dialetto. Ad un certo punto quel signore gli disse “ set bagaet tanti an fa chi propria chi o dat na man a na dona a far nasar so fiol” (sai ragazzo , tanti anni fa proprio in questo punto, ho aiutato una donna a partorire suo figlio).  Italo sentì un brivido e disse “Alora vu a si Bruno”  (allora lei è il signor Bruno, nome di fantasia perché negli anni è andato perso il nome). Il signore sussultò, lo guardo e con aria sorpresa e chiese come facesse a saper il suo nome. Italo ribattè  “perché cal putin a sera mi!”  (perché quel bimbo ero io).

Ritratto di Bice Trazzi, 1922-1925

Italo, bracciante agricolo, si sposò con Bice Trazzi; sarta e donna di casa. Di lei si conoscono i nomi dei genitori: Saule Trazzi  e Angela Benfatti . Cercando sul sito Antenati nella sezione “Trova i nomi”, ho trovato l’atto di nascita di Saule  e quello dei suoi sette fratelli. Inoltre, ho trovato anche il nome dei loro genitori: Erminio del 1852 e Generosa Panazza . Se chiudo gli occhi, li vedo di domenica nella loro casa, tutti seduti a tavola; quei due giovani ed i loro otto bambini. I miei bis nonni Italo e Bice, che ho avuto l’onore di conoscere, hanno avuto tre figlie ed un figlio maschio mio nonno, Silvano Mantovani. Con mio nonno ho avuto un rapporto speciale, di simbiosi, di intesa. E’ stato il mio nonno del cuore, quello preferito. Silvano, nato nel 1926 , ha frequentato la scuola fino alla quinta elementare poi ha cominciato a lavorare nei campi. Con il nascere delle industrie, lavorò come operaio nello zuccherificio del suo paese, Sermide. Si sposò nel 1948 con Lina. Le sue grandi passioni: la pesca ed il ballo liscio. Silvano se ne è andato nel 1992,  quando io ero appena diventata maggiorenne. Ha lasciato sola la nonna Lina Saccomandi  figlia di Giovanni Lino e Lea Roncati. Lina, di origine ferrarese nata a Pilastri, mondina da sempre. Lina lavoratrice instancabile, tagliatrice di canapa industriale, faceva grandi fascine e poi a piedi nudi immergeva le fascine nei maceri, in modo che la lavorazione per ottenere corde e fibre per realizzare sedie fosse più semplice. Questo faticoso lavoro era svolto soprattutto da donne per risparmiare sulla manodopera, in quanto le donne costavano il 20-30 % in meno del salario di un uomo.

Matrimonio di Vittorio Bianchi e Erta Vertuani, 1947

Delle origini di mia nonna Lina ho trovate pochissime informazioni ma continuerò a cercare. Dai miei nonni è nato un solo figlio, mio padre Franco 1950 che, come da tradizione, porta anche il nome di suo nonno Italo. Franco Italo, mio padre, barbiere dall’età di quattordici anni, si trasferì a Milano per maggiori opportunità lavorative. Franco si sposa cinquanta anni fa con Marisa Bianchi  1953 di Sermide (MN) figlia di Vittorio e Erta Vertuani. I due vissero a Milano per dieci anni, lui barbiere e lei operaia. In quegli anni, nascemmo io e mio fratello Andrea. Nel 1980 tutti tornammo a Sermide, paese natale dei miei genitori, per riunire la famiglia ai nonni. La mia ricerca, oltre alla mia curiosità, è stata anche incentivata da un diario trovato in un cassetto scritto da mio nonno Vittorio, dove raccontava brevemente la sua vita. Vittorio Bianchi nacque nel 1921 a Sermide (MN.) Frequentò la scuola fino alla quinta elementare e, a tredici anni, iniziò a lavorare come custode di vitelli. Partì per il militare e poi scoppiò subito la guerra. Così fu mandato in Africa, “ sotto le bombe” come diceva lui. Fu fatto prigioniero in Algeria e portato in America, dove raccontava che, allo sbarco, le persone si affollavano al porto, per vedere l’arrivo degli Italiani; perché si diceva avessero la coda. Nei suoi racconti puntualizzava ch’ erano loro gli strambi.. diceva: “  mangiano il gran turco che noi diamo come cibo alle galline”. Tornato a Napoli dopo cinque anni in America , vi rimase altri cinque anni come prigioniero di guerra. Liberato con il tempo tornò a casa; tutto ai suoi occhi era cambiato, chiedendo trovò la casa dove abitava la sua famiglia, cosi dalla strada vide il padre che……..
lo lascio leggere direttamente dalle sue parole…

 

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