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HomeStorie di famiglia

Archives : Storie

Ritratto di Raffaele Soldano in età giovanile

E’ importante precisare che al momento della ricerca di mio nonno non avevo nessun tipo di informazione, nemmeno il suo nome, solo la presunzione che fosse italiano e nient’altro, con i miei genitori non ho legami per più di 20 anni, per i quali l’odissea è stata un lancio di una moneta. Il 16 giugno 2021 ho iniziato il percorso verso l’ignoto, mobilitato da una strana sensazione come scrivere un messaggio in una bottiglia e lanciarlo in mare sperando che un giorno lontano qualcuno si metterà in contatto. Il primo passo è stato richiedere l’atto di nascita di mio padre Leopoldo. Il 23 giugno ricevo il primo segno, il nome di mio nonno era RAFAEL.

Il 6 luglio mi sono svegliato presto e ho iniziato a indagare su come ottenere quell’informazione, e navigando su internet ho consultato il sito www.cognomix.it e ho scoperto che il cognome Soldano era registrato a Salerno, Sant’Angelo a Fasanella, Baronissi e Battipaglia. Casualmente ho iniziato a cercare Sant’Angelo a Fasanella nel sito antenati.cultura.gov.it  e miracolosamente ho trovato il certificato di nascita, il terzo segno.

Ritratto di Raffaele Soldano in età anziana

Con questa motivazione, il 24 giugno ho richiesto il certificato di matrimonio dei miei nonni, Rafael e Rosa, il 5 luglio ho ricevuto il secondo segno, Rafael è decisamente italiano nato in provincia di Salerno. L’emozione mi ha scosso, mio ​​nonno, le mie radici erano già definite, ora dovevo reperire il certificato di nascita di Rafael.

È stato un momento magico, molto emozionante, mobilitato da tanti segni, ho cominciato ad assorbire informazioni su Sant’Angelo, ho immaginato l’infanzia di mio nonno. Sant’Angelo a Fasanella è un paese magico, ogni volta mi sono sentito parte di quel luogo da sogno. Mi chiedevo, ci saranno dei parenti stretti? Con la meraviglia della tecnologia, perché senza questo strumento tutta questa storia sarebbe stata impossibile, ho individuato in paese un gruppo che promuove attività culturali e turistiche sulle reti, ho lasciato un messaggio il 7 luglio 2021.

Il giorno successivo appare il quarto segno, ricevo questo messaggio totalmente inaspettato:

“Salve buongiorno. Grazie per avermi contattato Le farò avere notizie, ho parlato con la mia mamma ed in realtà saremmo proprio noi ,vostri parenti perché la mia nonna di chiamava Soldano Barbara Marianna le lascio il recapito della mia mamma e cercheremo di metterci in contatto, io mi chiamo Luigi Marino, sono anche su Facebook. Mia mamma si chiama Livia Scala e questo è il suo numero. Tuo nonno alla fine era il fratello di mia nonna”.

Non potevo credere a quello che stava succedendo, improvvisamente sono apparsi nella mia vita, mio nonno, i miei cugini, i miei nipoti, l’emozione mi ha travolto, il destino o la casualità, era un sogno diventato realtà. In 22 giorni ho ritrovato la mia famiglia, le mie radici e la mia vita si è riempita di colori e di magia.

Ritratto recente di Livia Scala

Conoscere mia cugina Livia, ha creato il ponte con i miei antenati e con la mia bella famiglia italiana suscitando forti emozioni.

Senza tempo da perdere, e con l’emozione alle stelle, abbiamo iniziato con Livia a mettere insieme uno straordinario albero genealogico, pensando che da un giorno all’altro la vita mi desse l’opportunità di ritrovarli.

E in quella magica ricerca sono comparsi i miei zii Mena, María, Ninno, Ciccio, Raffaele e Antonio, i miei cugini Livia, Mary, Luigi, María Cristina, Roberta, Letizia, Simona, Raffaele, Michele, Franca, Emiliana, Virginia, Verónica , Vicky , Roberta, i miei nipoti Luigi, Carmencita, Giuseppe (Pepito).

Tutti mi hanno accolto con un amore come se il tempo non fosse passato, non so spiegare a parole cosa provo per ciascuno di loro, chiedo solo a Dio di permettermi di viaggiare molto presto per sciogliermi in un abbraccio infinito.

I discendenti della famiglia Soldano puntano su Sant’Angelo a Fasanella, luogo che dal 1700 ospitò gran parte delle generazioni.

« La famiglia è come i rami di un albero, alcuni prendono direzioni diverse, ma le radici sono sempre le stesse ». Come gli alberi ancorati alle loro radici, sostenuti e nutriti, sono nutrito dalla mia storia, dal mio paese Sant’Angelo a Fasanella, dai miei antenati. Da lì cresco, da lì vengo, prendo e apprezzo tutto ciò che ho. Riconosco la mia origine, sento la mia terra, senza evitare ciò che mi terrorizza. Dimenticare e negare non è altro che tagliare le proprie radici con la forza che danno. Se li taglio, chi sono? Da dove vengo? dove sto andando? Cerco di sentirli per trovare dove sono io, per coltivare i rami, quelli che oggi sbocciano.

Dopo 50 anni ho ritrovato la mia origine, la mia città, e la dico così, anche se non la conosco personalmente, perché mi sento come se fossi cresciuto lì, perché sento di avere legami sentimentali per tutta la vita, con persone che mi danno amore e che hanno cambiato la mia vita per sempre. La magia della ricerca delle radici ha a che fare con la storia passata, ma soprattutto con il legame con il presente e il futuro. È vero che il passato ci dà identità, ma non definisce chi siamo oggi.

Non siamo il nostro passato ma quello che abbiamo fatto e stiamo facendo per migliorarlo, andare avanti e ricostruirci. Questo atteggiamento è ciò che ci definisce, quello che mostra chi siamo veramente e quello che ci accompagnerà per tutta la vita. Solo il nostro presente può definirci, è nel momento presente che le nostre azioni ei nostri pensieri determinano chi siamo. Siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo, senza memoria non esistiamo e senza responsabilità potremmo non meritare di esistere.

CONCLUSIONE

Grazie al portale Antenati ho potuto scoprire mio nonno, i miei antenati e incontrare la mia famiglia, senza di te questo viaggio non sarebbe stato possibile, ti porto per sempre nel mio cuore.

I figli del bisnonno Cesare di Padergnone. Al centro Stefano Sommadossi

Mi chiamo Gianfranco Sommadossi e vivo a Vicenza. Sono nato a Bassano del Grappa, «la città dei signori e delle torri »* , nel 1935 e nel Borgo Angarano, nella zona destra del Brenta, al di là del Ponte Vecchio anche detto Ponte degli Alpini.

Fu una domanda dei figli di mio fratello “ Ma noi chi siamo?”. Sinceramente non me lo chiesi mai, ho conosciuto il nonno e la nonna paterni, trentini. Conoscevo il nonno materno bresciano. La nonna materna era veronese, non la conobbi. Il papà aveva due fratelli e una sorella. La mamma era figlia unica. Fino ad allora non mi ero interessato e quella domanda fece aprire un cassettino della memoria.

«Finché viviamo, dobbiamo continuare ad apprendere. Non accadrà mai che sapremo troppo, ma che non sapremo mai abbastanza. Nulla può darci più gioia del conoscere chi siamo, chi eravamo, chi saremo; e a nessun altro piacere potremo comparare quello che proviamo mentre apprendiamo…»** .

Via dedicata ai Somadòs a Ranzo, frazione di Vallelaghi (TN)

Quella domanda a cui non avevo saputo dare risposta aveva toccato il mio amor proprio e stuzzicata la curiosità. Ero in pensione perché non dedicarmi a una ricerca sugli antenati e grazie a documenti conservati dai miei genitori incominciai a scavare nel passato. La scoperta che ha scombussolato le mie certezze, fu un’annotazione di mio padre in un vecchio libro dove aveva scritto che il nostro cognome Sommadossi è l’italianizzazione di un soprannome trentino Somados, ma non aveva annotato il cognome da cui derivava.

Anche Lui la notizia l’avrà sentita da qualcuno in famiglia, ma tutto era finito nel dimenticatoio. Tra i libri di mio padre trovai un’annotazione il titolo era un testo di Dante Olivieri “I Cognomi della Venezia Euganea“ , forse anche papà si chiedeva perché questo soprannome ci è stato assegnato e cercava una risposta, che ho trovato grazie a Ettore Parisi, oggi conosciuto come “Archivio della memoria della valle dei laghi” in Trentino.

Per conoscere la genealogia dei Sommadossi prima del 1825 devo ringraziare Ettore questo prezioso ricercatore genealogico di Ranzo la cui mamma era una Sommadossi. Le sue indicazioni, le sue ricerche la sua disponibilità mi hanno spinto ad approfondire sui cognomi sui soprannomi di quegli avi a cui appartengo anche io e risalire le undici generazioni che mancavano alla mia genealogia. Il primo quarto si era fermato nel 1500 in una contrada delle Giudicarie esteriori. In quel borgo antico chiamato Ranzo passaggio obbligato tra il Banale la Valle dell’Adige e il Sarca, dove c’è una via dedicata ai Somados. I Gendroni: ecco chi sono i Sommadossi. I Gendroni appaiono nella storia della famiglia nel XIV secolo. Il loro nome è scritto nei registri parrocchiali della pieve di Ranzo. Nell’atto di matrimonio tra Pietro ed Elena oltre al cognome Gendroni, Ettore Parisi trova scritto detto el Somados.

Nessuno avrebbe pensato che questo soprannome diventava con il tempo il cognome di una numerosa progenie. Anzi produrrà anch’esso tanti soprannomi. Pietro Gendroni detto il Somados potremmo definirlo il capostipite dei Sommadossi, nel 1564 nella chiesa di Ranzo aveva sposato Elena anche lei una Gendroni. Avranno tre figli. Domenica 1565 Simone nel 1568 e Maria Domenica nel 1570. Simone continuerà la discendenza dei Somados, delle figlie Maria e Domenica non si anno notizie.

Quando Ettore Parisi mi confermò che le sue ricerche sui Sommadossi lo avevano condotto nel 1500 e che il precursore si chiamava Domenico Gendroni o cercato di inoltrarmi più in la nel tempo. I registri parrocchiali si fermavano al (1530 circa) la consultazione di documenti storici, accenni a campagne militari che citassero i Gendronl non mi dettero alcuna informazione utile. Dei Gendroni prima del 1500 buio totale. Le radici della mia famiglia iniziavano nel XIV secolo. Grazie a Ettore avevo aperto la strada per dare quella risposta che non conoscevo ricostruendo il primo quarto. Ma la soddisfazione della scoperta mi spinse oltre, aprendone altre.

Famiglia Vaona: seduti Francesco e Alice Vaona, la bambina è la mamma dell’autore

Questa volta non furono i nipoti. Mi trovavo nella sala d’attesa del mio dentista, un appassionato cicloturista. Nel cestino dei giornali mi capitò tra le mani la rivista, “Lessinia tra malghe, contrade e memorie” una rivista curata da Anna Solati ricercatrice veronese. Sfogliando le pagine all’interno trovai un articolo in cui Si parlava di Breonio, comune della Lessinia, nome strano, mi incuriosì, e continuai a leggere. Nella sesta riga lessi due nomi: Vaona e Zivelongo e una data 920 d.C. fu spontaneo, esultare ad alta voce: Stai a vedere che ho scoperto le origini degli avi di mia madre!!! Non ricordo di che anno fosse la pubblicazione, ma è passato del tempo. La lettura della notizia che un nobile veronese otteneva dal primo re d’Italia Berengario I, per il figlio Bertello la Corte di Breonio di cui facevano parte le dipendenze dei Vaona e dei Zivelongo mi aveva incuriosito. Forse fu l’impulso di cercare le radici della famiglia di mia nonna materna, anche Lei una Vaona e che può vantare undici secoli di storia e che da allora mantiene lo stesso cognome. La curiosità di scoprire e il desiderio di approfondire le mie origini, mi portò a cercare. Questa volta non c’era Ettore, ma utilizzai i suoi consigli. Cominciai a costruire la genealogia di questa ramificatissima progenie che dovrebbe sfociare nella ricostruzione della storia di un altro quarto della mia ascendenza. E’ risaputo che la prima cosa da fare è avere qualche idea magari da chi lo ha fatto prima di te.

1943, da destra Gianfranco Sommadossi con il fratello e la madre vestiti alla Marinara

Il consiglio di Ettore fu di andare di persona negli archivi delle parrocchie, avendo già qualche indizio sulle cose da cercare. Sapevo cosa cercare, ma non sapevo come. Quando conobbi il Dot. Francesco Coati, archivista volontario della parrocchia dl San Pietro in Marano di Valpolicella, non immaginavo cosa fosse un archivio parrocchiale. La prima cosa che imparai fu la presenza dei quatto libri “canonici” Gli Stati delle Anime, il registro dei Matrimoni, dei Battesimi e dei Morti.

Il primo dei libri che mi consigliò di sfogliare fu lo stato d’anime, una sorta di censimento, in cui il parroco oltre che annotare la vita spirituale delle suo gregge, compilava e aggiornava il resoconto degli avvenimenti accaduti, date, lo stato di famiglia, nonni, genitori, figli, nuore, nipoti, il censo delle famiglie (tutte le persone conviventi che di fatto non erano parenti di sangue, ma che vivevano con la famiglia) i trasferimenti e molte informazioni utili alla ricerca delle origini, alla ricostruzione della storia famigliare. E questo è stato un altro passo per risalire la storia degli antenati che è diventata sempre più ampia attraverso la ricerca di documenti che testimoniano i modi di vita, i luoghi dove essi hanno vissuto e dove hanno contribuito a sviluppare la vita comunitaria. Poi gli altri tre non meno interessanti Matrimoni, Nati e i Morti.

Battesimo del padre dell’autore, Cesare Giovanni Sommadossi

Difficoltà, tante che non le elenco, ma ne è valsa e ne vale la pena. La difficoltà maggiore per me fu la lettura di questi documenti redatti in lingua latina con una grafia da penna d’oca. Le complicazioni che questo ha comportato per me con il tempo sono diventate superabili. C’è un altro aspetto da evidenziare la rarefazione degli archivisti Volontari nelle parrocchie che custodiscono un patrimonio archivistico inestimabile, Chiuso negli armadi. Questo purtroppo complica la ricerca. Nel 2021 una scoperta: leggendo un articolo di Paola Calaprisco su l’Adige quotidiano veronese “ i propri antenati a portata di clic ” Un progetto degli Archivi di Stato in collaborazione con Family Search mi ha permesso di scoprire la presenza dei Vaona nei comuni veronesi. Mi riferisco alla prima stesura, quella che con un clic appariva l’elenco dei comuni della provincia. Importante per uno come me che del veronese ne conosceva s1 e no una decina.

All’età di 87 anni avere la possibilità, attraverso il proprio computer, di cercare e di conoscere le proprie radici è una soddisfazione impagabile e affascinante. Il mio più grande desiderio è quello che questo progetto vada sempre migliorando con la possibilità di trovare sempre più documenti di stato civile accessibili online anche con la sinergia di più istituti come gli Archivi di Stato, gli archivi storici dei Comuni e le parrocchie afferenti alla diocesi di Verona.

Ricostruire l’onomastica degli ascendenti mi ha aperto la strada alla conoscenza delle radici della famiglia ciò non ha significato realizzare un elenco di nomi, date e località ma qualche cosa di più. Perché amici, questi sono parte dei mattoni che mi sono serviti per costruite la storia dei miei avi e quei mattoni li ho trovati anche nel Portale Antenati del nostro Archivio di Stato.

Gianfranco Sommadossi un ragazzo di una volta.

Note
*Definizione della città di Bassano del Grappa dello scrittore Paolo Malaguti, tratto dal romanzo “Sul Grappa dopo la vittoria” edito da Santi Quaranta nel 2009;

**Pensiero del medico e filosofo Guglielmo Grataroli del XVI sec.

Battesimo di Lucia Cupo-Doll del 18.04.1965

Mi chiamo Lucia, sono nata il 13 febbraio 1965 a Kaiserslautern in Germania e lavoro all’interno dell’Università in qualità di tutor degli studenti. Mio padre, Angelo Cupo, è nato nel 1936 a Palomonte in provincia di Salerno ed è arrivato in Germania nel 1960. Figlio di Carmine Cupo e Carmela Antico. Mio padre è morto il 26 dicembre 2021. La famiglia di mio padre viveva di agricoltura. Nel 1957, mio padre partì per la prima volta per il nord Italia, vicino a Bologna, a Forlì, dove continuò a dedicarsi all’agricoltura per un po’ di tempo. Spinto dal desiderio di cambiare vita e tipo di lavoro, nel 1959 si spostò in Francia, vicino a Strasburgo, dove trovò un lavoro come operaio.

Poco tempo dopo é tornato in Italia. Ma la vita in Italia era molto dura. Lui è partito di nuovo, ma questa volta accompagnato da due parenti verso la Germania. Una azienda aveva bisogno di lavoratori richiesti in una fabbrica.  La ditta chiamata « Heger-Guss » di Enkenbach (una piccola città vicino a Kaiserslautern) era alla ricerca di manodopera a basso costo dall’estero. Quindi per questo motivo mio padre andò in Germania con i parenti. Hanno viaggiato due giorni: A causa del ritardo di un treno precedente hanno perso la coincidenza e l’ultimo treno che li doveva portare a Enkenbach.

A causa di ritardi dei treni, non ha potuto incontrare il caposquadra. Di conseguenza, trovandosi con pochi soldi in tasca, trascorsero la notte nella stazione ferroviaria. Dopo non aveva i soldi per continuare a viaggiare verso la azienda. Con poca conoscenza della lingua tedesca hanno provato a parlare con l’uomo della biglietteria. Gli chiesero di chiamare il caposquadra in Enkenbach, per dire, che erano ancora a Mannheim. Fortunatamente, li ha aiutati a continuare il loro viaggio verso Enkenbach.

Prima volta in Italia al Passo del San Gottardo

Ci fu un’ispezione sanitaria da parte della impresa. Volevano assicurarsi che non avessero portato malattie dall’Italia. Alloggiavano in una caserma vicino alla fonderia. Due anni dopo, Angelo cercò ‘lavoro in una cava. Ma pure questo non gli piaceva. In cava il lavoro era ancora più duro che in fabbrica. Nel 1963 passò a lavorare come operaio in un’impresa si chiamava « Papierschmidt » a Kaiserslautern e poi in un’altra azienda “Guswerk” a Kaiserslautern. Ma, tutti questi lavori non erano divertenti per lui. Probabilmente il lavoro al chiuso non faceva per lui.  Successivamente trovò il lavoro che gli piaceva veramente: fare l’operaio per l’azienda produttrice di bevande « Koch ». Rimase lì per 13 anni, giorno dopo giorno, riforniva i clienti di bevande. E poi ha ottenuto la patente di guida dell’autobus e finalmente ha trovato il lavoro che gli piaceva ancora di più. Finché non ha ottenuto un posto di autista di autobus con gli americani: lo divertiva, portava i bambini a scuola e li riportava a casa. Cosi ha trovato il post che faceva per lui – ha accompagnato gli scolari a scuola fino al suo pensionamento.

Negli anni Sessanta ha incontrato Ruth, la mia cara mamma. Si sono incontrati mentre ballavano. C’era un posto chiamato “Olympia” a Kaiserslautern in Germania. Le serate danzanti erano sempre organizzate lì. Tutti gli italiani di Kaiserslautern erano lì. Si sposò con la mia mamma l’11 luglio 1963. Ricordo che ci andavamo sempre da bambini. Nelle vicinanze c’era anche un parco con autoscontro e struttura per arrampicata; quindi, noi giocavamo sempre li, dopo una passeggiata. Per la prima volta mio padre per raggiungere l’Italia andò al Passo del San Gottardo in Svizzera. Hanno impiegato 3 giorni per il viaggio.  Durate la stagione estiva accadeva il classico esodo degli italiani emigranti in Germania per far visita alle famiglie lasciate in Italia. Questo accadeva specialmente nel mese di agosto. Le famiglie ospitanti erano quasi sempre i loro stessi parenti finché erano in vita. Come la nostra famiglia. La casa dei miei nonni era in Campania. Per arrivare a casa, mio nonno era venuto a prendere noi e le nostre valige con il suo asino. La strada per la sua casa non era asfaltata, quindi abbiamo parcheggiato l’auto dal fratello di mia nonna e ci sono venuti a prendere li.

Atto di nascita di Carmine Cupo, 11.06.1910

Io mi ricordo bene di Palomonte provincia di Salerno. Ogni anno io e la mia famiglia siamo venuti per quattro settimane in Italia. Mi dispiace non parlare bene l’italiano. Con me mio padre ha sempre parlato in tedesco. È veramente un peccato, anche perché quando ero piccola non ero capace di capire cosa dicessero i miei nonni in Italia. Ho iniziato solo da qualche anno con lo studio dell’italiano.

Mi ricordo, anche i miei nonni e anche i miei zii hanno lasciato sempre il letto matrimoniale ai miei genitori. Per noi figli ogni anno era un viaggio nel passato. Da quando sono venuta a Palomonte, fino dal 1980, mi è sempre sembrato strano che in casa di mio nonno non ci fosse un bagno. Per me era molto curioso, così come era strano non avere acqua o farsi il bagno senza acqua calda!

Anche io mi sento una palomontese, nonostante non sia nata lì. Ammetto di tornare a Palomonte per riscoprirlo, ma anche per conoscere meglio come vive oggi la gente rispetto al passato. Un giorno, chi lo sa, forse verrò vivere a Palomonte, se ne avrò la possibilità. Senza bagno, senza il comfort della Germania. A quel tempo lo odiavo, ma oggi, se ci ripenso, è stato un periodo molto bello. Allora non sapevo parlare la lingua italiana ma ero sempre interessata a imparare ogni anno nuove parole. I primi giorni in Italia erano sempre un po’ strani, io mi sentivo straniera. Ma poi io mi sentivo a casa. Mia zia mi chiamava sempre per aiutare a fare qualcosa. Lei sapeva che mi piaceva tutto e provava ad insegnarmi.  Noi bambini dormivamo insieme in una camera. Dopo 2 notti stavamo sempre scherzando al buio con i nostri cugini e nostra zia ci ha sempre avvertito di dormire. Mi ricordo che mia cugina mi ha insegnato il nome “tartaruga”. Il giorno prima era venuto un altro parente – il figlio del mio padrino di battesimo – a casa nostra con una macchina. Poi mi hanno detto che questa era una tartaruga. Ho trovato questa parola nel mio dizionario italiano – tedesco che avevo sempre con me.

Lucia Cupo-Doll con il padre e i suoi figli

Da quando ho memoria sono sempre stata interessata alla ricerca familiare, ero affascinata nell’apprendere che mia nonna aveva così tanti fratelli.

Qualche anno fa ho trovato un documento in quelli è scritto tutti i nomi e le date di nascita di molti parenti. Con questo documento ho iniziato a cercare altra informazione. Ma è stato molto difficile. Mia zia mi ha dato i nomi non corretti, ogni persona aveva un soprannome che mi ha reso tutto più difficile.

Il 23 novembre 1980 – il terremoto in Campania – fu un momento terribile anche per noi in Germania. Dal momento che la rete telefonica e Internet non erano così avanzate come lo sono oggi, abbiamo dovuto aspettare qualche giorno per avere notizie da mio zio che erano tutti vivi.

Dopo la morte della mia cara mamma ho iniziato a scrivere un libro della famiglia e fra poco faccio inizierò a scriverlo in italiano e inglese.

Pasquale Bruno

Fin da piccolo tutti i fine settimana, si scendeva a Napoli a trovare i nostri parenti. Erano giornate intense in case molto piccole ove nel caos e nella semplicità trascorrevano del meraviglioso tempo insieme. Quando si andava a casa di Nonna Elena, la mamma di papà, c’era la solita visione di una cornice, con una foto in bianco e nero di un “uomo misterioso dai baffi neri”.

Quell’uomo era mio nonno Pasquale deceduto prematuramente di cui sapevo poco. Grazie al foglio matricolare inviatomi dall’ex archivio militare di Napoli, posso leggere i fatti realmente accaduti sulla sua vita militare. Nonno Pasquale, classe 1917, nasce a Soccavo, cresce con i suoi genitori, papà Giovanni, mamma Enrichetta, e le due sorelle Francesca e Rachele. Il 09 Giugno del 1938 viene chiamato alle armi per la ferma annuale presso il corpo della Regia Aereonautica Italiana e il 12/10/1938 viene inserito nel 7° Stormo presso l’aeroporto di Campo della Promessa ove svolgerà mansioni del suo grado di aviere. Il 30/05/1942 parte per la Grecia via terra da Imperia ed arriva sino ad Atene ed il 28 Luglio si imbarca per l’isola di Creta, ove sbarcherà a Candia. Nonno rimarrà lì per più di un anno, svolgendo compiti di presidio e controllo sino al famoso 8/09/1943 giorno dell’Armistizio. Anche a Creta i soldati italiani, da essere alleati, diventarono nemici dei Nazisti. Nonno e i suoi compagni furono ammassati in capannoni per lunghi periodi e trattati con disprezzo. Rimase prigioniero in Grecia sino all’7/12/1944. La sfortuna è solo all’inizio, di fatti viene liberato dalle truppe Inglesi ed internato in Egitto al Campo 305 P.O.W. (prisoner of war 305). Il campo era sotto la giurisdizione degli inglesi, erano stati internati prigionieri italiani provenienti nella quasi totalità dal fronte dell’Africa Settentrionale. Chiamato anche “Fascist Criminal Camp”, si trovava in pieno deserto egiziano, tra il Cairo ed Alessandria, ed era diviso in 38 « recinti ». Ogni recinto era costituito da un gruppo di 50 tende. Un « quadrato infernale » di sabbia rovente dove erano accatastati migliaia di uomini, tormentati dal caldo, dalla sete, dalla fame, dai pidocchi e, non ultime, dall’inerzia e dalla disperazione. Il campo allestito presso la città di Ismailia considerato “criminal camp” era destinato ai prigionieri di guerra “non collaboratori”, quindi si presume che nonno come tanti altri prigionieri italiani per la sua dignità di combattente fedele ai propri ideali rifiutò la collaborazione col nemico. Trascorsero anni difficili superati con dignità e orgogliosa dedizione ai propri ideali e alla nostra Bandiera. A Maggio 1945 si concluse il conflitto ma i “non collaboratori” furono gli ultimi ad essere rimpatriati: ciò avvenne a Luglio del 1946 un anno e un mese dopo la fine delle ostilità. Arrivato a Napoli il 22 Luglio 1946, nonno viene inviato in congedo illimitato, è il 27/09/1946.

UNA STORIA BELLISSIMA

Nonno come accadeva all’ora, prima ancora di partire per la guerra, si sposò molto giovane con una ragazza, purtroppo, o per fortuna al rientro dalla guerra, dopo tutti quegli anni fuori, scoprì che la moglie non era rimasta ad aspettarlo a casa ma anzi, si era addirittura rifatta una vita. Oggi si parlerebbe di tradimento, all’epoca fu uno choc, nonno Pasquale abbandonò quella donna e, si innamorò di una bella ragazza molto più giovane di lui che si chiamava Elena, mia nonna!

Tra i due scoppiò l’amore e subito andarono a vivere insieme, in via Risorgimento, da questo amore nacquero 7 figli: Giovanni, Vincenzo, Enrichetta, mio padre Antonio, Annamaria, Patrizia ed infine Rosaria. Tutto procede per il meglio ma c’è un cruccio che tormenta nonno. Essendo stato sposato e non esistendo il divorzio, non si vedeva riconosciuto l’unione con la sua Elena, non erano una coppia e cosa ben peggiore i loro figli risultavano “illegittimi”. Succede però che Il 1/12/1970 i Radicali, il Partito socialista, il PCI e il Partito Liberale approvarono la legge sul divorzio. Appena saputo che il divorzio era legge, nonno fu tra i primi in Italia, ad ottenere davanti al giudice lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio. Finalmente a Marzo del 1972 potette sposare in Comune la sua Elena e diventarono ufficialmente “Marito e Moglie”. Da questa unione civile mutò anche lo status dei loro figli che finalmente e formalmente, presero immediatamente il cognome del padre, Bruno e videro riconosciuti i loro diritti. Il destino è beffardo, appena raggiunto il suo grande sogno, ottenuta la condizione che tanto auspicava, l’11 Novembre 1972 un ictus fulminante se lo porta via all’età di 55 anni, lasciando improvvisamente un grande vuoto tra i suoi cari.

Giorno della prima comunione dei figli di Pasquale e Elena (da sinistra, Giovanni, Vincenzo e Annamaria)

CONCLUSIONI

Nonno la sua vita l’ha vissuta purtroppo in parte, mi dispiace non aver avuto la fortuna di ascoltare qualche suo racconto. Un messaggio potente adesso mi rimarrà dentro ed è quello che mio nonno, nonostante la scomparsa improvvisa, ha lasciato ai suoi figli e a tutta la famiglia un forte senso di dignità.

Matrimonio a Tobbiana di Vasco Cecconi e Lorena Piccini, 3 aprile 1948, genitori di Saverio Cecconi

La mia ricerca parte da storie di tanti anni fa, storie tramandate e sentite in casa, in famiglia, racconti quasi sussurrati a me e ai miei fratelli dal mio babbo nel corso della sua vita; storie non sempre facili da raccontare, ma intense e vere; storie che hanno segnato profondamente tutta la mia famiglia.
Mi chiamo Saverio Cecconi, sono nato e vivo a Prato e queste sono le storie della mia famiglia, che ho provato a documentare con la ricerca in archivio.

È il 1935. Il regime fascista promuove la campagna nazionale “Oro per la patria”. I Cecconi, contadini di un podere a Casale, frazione della piana pratese, non hanno niente di valore da consegnare all’incaricato locale, tranne un vecchio registro di conti della tenuta, un tempo di proprietà della cittadina comunità domenicana di San Vincenzo. Mio nonno decide di donare questo quaderno, così prezioso per la famiglia, perché al suo interno, si dice, ci sono annotazioni di mano di Caterina de’ Ricci (1522 – 1590), santa mistica domenicana, che ha vissuto tutta la sua esperienza religiosa proprio nel citato monastero e alla quale da sempre i pratesi sono devoti.

Mi metto alla ricerca di una possibile ricevuta che attesti la consegna del documento e sfoglio i sei grossi volumi attestanti le consegne di preziosi della campagna fascista tenuti dall’allora Cassa di Risparmio di Prato e oggi conservati presso l’Archivio Storico Diocesano di Prato: purtroppo, lo spoglio non ha esito positivo. Il territorio di Casale presenta poche ricevute rispetto al numero della popolazione. La fine del registro di Santa Caterina de’ Ricci rimane nebulosa.

AS Prato, Comune di Prato, 592, s.n., Descrizione dei fuochi e delle bocche della città e del contado, 1642, registrazione relativa a Domenico Cecconi e famiglia

Nel frattempo mi appassiono alla ricerca e decido di conoscere meglio le mie radici, i Cecconi. Sono in pensione: ho del tempo da dedicare a questo nuovo interesse. Nello stesso Archivio Diocesano comincio a consultare gli Stati delle anime della parrocchia di Casale, per verificare la presenza della famiglia, nello scorrere delle generazioni, su questo territorio. Senza troppe difficoltà riesco a documentare come i Cecconi siano qui attestati ininterrottamente dal 1683. La prima famiglia rintracciata è quella di Francesco di Domenico Cecconi, grazie allo Stato delle anime della parrocchia di S. Biagio a Casale del 1683. Sempre scorrendo gli Stati delle anime noto anche che i Cecconi hanno lavorato in vari poderi; fra questi ce n’è uno tenuto ininterrottamente dai miei antenati dal 1721 al 1816, all’inizio di proprietà delle monache di San Vincenzo e, conseguentemente alla soppressione degli inizi del XIX secolo, passato in mano ai frati conventuali.

E prima? Decido allora di fare un salto in Archivio di Stato a Prato: qui, quasi per caso, in una filza seicentesca della comunità di Prato mi imbatto in un elenco delle bocche, divise per popolo del 1642.

Trovo quello che cerco e anche di più. Domenico Cecconi, con 18 persone a carico, è lavoratore dei Ceppi.

AS Prato, Casa pia dei Ceppi, 462, cc. 238v – 239, Allogagioni segnato B, 1570-1585, il podere tenuto da Gabriello di Francesco Cecconi

Questa informazione è fondamentale per proseguire e arricchire la mia ricerca familiare, consentendomi di avere dettagli inaspettati e di superare i limiti cronologici legati ai documenti tradizionalmente usati per la ricerca genealogica. I Ceppi sono un’istituzione territoriale di assistenza, nata dalla fusione cinquecentesca di due enti medievali, il Ceppo Vecchio, fondato da Monte di Turingo Pugliesi nel 1282, e il Ceppo Nuovo, voluto da Francesco di Marco Datini nel 1410. Questa istituzione ha una grande patrimonio fondiario, che dà in locazione.

La documentazione prodotta da quest’ente è ancora oggi custodita proprio a Palazzo Datini, sede dell’Archivio di Stato di Prato. Grazie ai contratti di allogagione ricostruisco il lungo rapporto di fiducia tra i Ceppi e i miei antenati, che gestiscono dagli inizi del Cinquecento loro proprietà, dislocate nella campagna posta a sud-ovest della città: Paperino, Sant’Ippolito in Piazzanese, Galciana, Iolo, Casale, Tavola.

Decido di consultare i registri dei battesimi, matrimoni e morti di queste parrocchie, conservati stavolta in Archivio Diocesano a Pistoia. L’albero genealogico che riesco a tracciare presenta più di 300 nominativi, a partire dal 1483.

Nel completare e consegnare la storia della mia famiglia non voglio, né posso tralasciare un ultimo tassello, grave e doloroso, quasi appena accennato e sempre con pena e pudore ancora una volta dal babbo.

Archivio Storico Diocesano, Prato, Fondo Fantaccini, fascicolo 880, Memorie di monsignor Fantaccini, Lettera di mons. Fantaccini al parroco di Tobbiana del 28 giugno 1944

Si tratta di un grave episodio accaduto alla sorella di mio padre nel 1944, a Tobbiana di Prato, in località Goraccia, dove i Cecconi gestiscono un podere. Mia zia Iolanda è una bella ragazza, poco più che ventenne, conosciuta da tutti in paese per il suo impegno costante tra le fila dell’Azione Cattolica in parrocchia. È ben nota anche la sua vocazione religiosa: entrata per probandato tra le benedettine di San Clemente, durante i mesi più drammatici dello svolgersi della guerra, torna a casa, a Tobbiana, ritenuta rifugio più sicuro nei confronti del monastero cittadino. Qui, invece, è vittima di una tentata violenza da parte di militari nazi-fascisti. I soldati tengono sotto la minaccia delle armi tutta la famiglia; la ragazza, da sola, riesce a difendersi, ad impedire lo stupro. Le conseguenze sono drammatiche: picchiata a sangue e quasi ridotta in fin di vita, è costretta a un lungo ricovero. Le cure sono molteplici e costose, sostenute totalmente dai familiari, che spendono tutto il patrimonio messo da parte: una cospicua somma, destinata in prima istanza proprio per comprare il podere da loro lavorato. L’acquisto sarà solo rimandato; Iolanda, ristabilitasi, prende i voti religiosi prima tra le Spigolatrici della Chiesa, poi nella Pro Verbo di monsignor Danilo Aiazzi. Zia Iolanda custodirà per tutta la vita con grande dignità e riservatezza la disgrazia accadutale e le sofferenze sopportate.

Archivio Storico Diocesano, Prato, Fondo Fantaccini, fascicolo 880, Memorie di monsignor Fantaccini, Lettera di don Martino Mati, parroco di Tobbiana, a mons. Fantaccini al parroco di Tobbiana del 1° luglio 1944

Anche su quest’evento ho voluto indagare e provare a rintracciare documentazione storica. Nell’Archivio Diocesano di Prato ho trovato il resoconto dell’episodio di “eroismo e crudeltà” redatto per la curia dall’allora parroco di Tobbiana, come pure, nel fondo Fantaccini, tutta la corrispondenza in merito all’accaduto tra il prelato e il comando tedesco e l’invio di informazioni da parte di monsignor Fantaccini al parroco di Tobbiana.

Ancora, nel fondo Aldo Petri, presso la cittadina Biblioteca Lazzerini, si ricorda come nel primo anniversario della fine della guerra mia zia sia stata insignita, assieme ad altri, di “attestato di eroismo”. Si chiariscono i non detti del babbo, comprendo, ora più che mai, scelte e decisioni familiari e quanto queste decisioni abbiano voluto tutelare me e i miei fratelli; la stima, già grande, per zia Iolanda diventa infinita!

La famiglia Cecconi oggi

Ora è arrivato il momento di consegnare la storia della famiglia Cecconi a mio figlio, ai miei fratelli e alle loro famiglie, perché solo con la consapevolezza del nostro passato, possiamo comprendere al meglio il presente e guardare fiduciosi al futuro.

 

 

 

 

 

 

Ritratto di matrimonio, 23 gennaio 1941

It was in August 2019 that my father and I decided to begin researching our family history.  We had both read a news article that stated one only needed to prove bloodline to become an Italian citizen.  We entered the journey like two boys looking for treasure and hoping to find on the other end a red Italian passport that would link us to a history of our lives of which neither of us was truly aware.

As a child growing up in southern California, I always heard stories of our family being from Abruzzo. This sounded to me like a far-off distant land.  My grandmother (Maria Isabella Jaqubino) would use small Italian phrases to this day I cannot remember.  But somehow, I was always proud of my Italian heritage, even though I really knew nothing about it – aside from my last name – Tomassi.  A name that, because of the Italian spelling, had surely been changed or misspelled when my ancestors arrived in America – more likely something along the lines of Tommasi or Tommassini.  I went through my life accepting that my name was the result of a disinterested customs agent, tired and blurry-eyed from the hundreds of immigrants that passed through Ellis Island each day early in the 20th century.

In 1994, my wife and I were fortunate enough to be stationed with the U.S. Air Force at Aviano Air Base in northern Italy.  I had secret dreams of finding relatives and learning about my family.  However, as a naive young man in my late twenties, I left Italy four years later not speaking the language at all and no further along in my casual pursuit of family history.

Years passed by as they do,  my grandmother died and with her much of the knowledge of where our family originated.  When my father and I both read this article in 2019, it opened a new excitement and thirst for knowledge that sent me spiraling into the internet for days and weeks in search of our ancestors.

Because I live in Germany and my father in Florida, I researched deep into the night with him on a video teleconference.  We were using an account my mother created years ago with ancestry.com for her own research and we started adding people we knew into our family tree.  It was at that point I discovered the Portal of Ancestors at http://antenati.cultura.gov.it/.

Through this portal I discovered my great grandfather (Antonio Michael Tomassi) married his wife (Anna Francis Incorvati) in Chicago, Illinois, 17 Apr 1911, and the marriage was registered with the Parrocchia Santa Maria Assunta in Amaseno, Frosinone, Lazio, Italy.

Through Facebook, I was able to contact the parish priest, Don Italo Cardarilli, who personally sent me images of the marriage certificate and of Antonio’s baptism record. This unbelievable stroke of luck and kindness from Don Cardarilli, led me to find Antonio’s parents who were from Fagnano Alto, L’Aquila, Abruzzo, Italy.

Bingo.  I found the connection to Abruzzo my grandmother always talked about and I continued to dig deeper with my research.  Suddenly it wasn’t an unknown place far from comprehension, it became real and somehow reachable.  Unfortunately the Portal of Ancestors currently doesn’t have digitized files for Lazio (hopefully it will someday soon), but the files for L’Aquila abound.  As I delved deeper into the archives, I discovered ancestors I never knew existed.  Antonio’s parents (Angelo Giovanni Tomassi and Vittoria Di Fabio); Angelo’s parents (Emido Tomassi and Anna Vincenza Bernardi); Emidio’s parents (Giuseppe Tomassi and Domenica Chiodi); and Giuseppe’s parents (Domenico Tomassi and Ascenza Elisabetta Presutti) – all the way back to 1727!Along the way I discovered relatives from every branch of our family tree using the Portal of Ancestors – Atenati.  I’ve learned to decipher Italian birth certificates, marriage certificates and death certificates.  I’ve studied the beautiful, alluring scroll of old Italian script.  I recognized that an “s” can sometimes be mistaken for an “f”.  And I also recognized that my last name did not in 1902 when Antonio stepped off that ship in New York City.  It was either by luck or by sheer perseverance of Antonio to ensure the name was spelled correctly.

Particolare dell’atto di battesimo di Antonio Michael Tomassi, 29 dicembre 1882

My research has taken me to places I never expected or imagined.  I expanded my research to assist my mother with her family history.  Together we have linked her family to the Colonial days of America and well beyond to Wales and England from the 1400’s.  I’ve also started researching my wife’s history in Germany.  I’ve discovered images of her grandfathers who were victims of corrupt governments and forced to fight in two World Wars.

I could go on for hours describing the finds and treasures I have found conducting research of my family history in what I believe to be three different branches – Italy on my father’s side; America and England on my mother’s side; and Germany on my wife’s side.

Atto di matrimonio, 23 aprile 1911

But this story is about Italy.  About how my family name has remained intact for nearly 300 years from a small hamlet in Abruzzo, to a village in Lazio and finally to America.  This story is about how Atenati helped me connect to Don Cardarilli and how his kindness unlocked the names allowing me to find greater riches within our family history.

I have reconnected with aunts and uncles who remember family names and relatives and I continue to fill in holes in our family tree.  I have connected with people who I believe to be relatives in Amaseno and long for the day I am able to visit there and walk the streets and paths my great grandfather walked.I don’t know if Domenico Tomassi was the first Tomassi. I don’t know why he born in Fagnano Alto in 1727.  I don’t know who his parents are or where they came from.  I don’t know why Antonio decided to move from Fagnano Alto to Amaseno some time around the turn of the century that later led him to settle in Chicago and raise a family there. His son (John Joseph Tomassi), the grandfather I never had the honor to meet, died before I was born.  But he started a family and continued a name that lives through my sons, my brother’s children and so many other aunts, uncles, cousins, sisters and brothers that carry the Tomassi name.

My father has an appointment at the Italian Consulate in Miami, Florida, in February 2022 to have his paperwork checked to start his path to Italian citizenship.  It’s a dream of his that I’m eager to help him achieve, because in 2027, exactly 300 years after the birth of Domenico Tomassi, I hope to do the same thing – become Italian, seven generations later.

Antonietta Scopelliti, madre dell’autrice

La mia passione per la genealogia è nata dalla sofferenza. Dalla sofferenza di mia mamma Antonietta strappata alla sua città – Reggio Calabria – e ai suoi affetti e dalla mia sofferenza di bambina cresciuta senza poter contare sull’affetto dei nonni, senza potersi confrontare con le proprie radici.

Mia mamma leniva la sofferenza raccontandoci della sua infanzia e della sua città, descrivendone i colori, la luce abbagliante, i profumi di mare e di gelsomino, il sapore delle arance e delle annone rubate sugli alberi.  Il suo racconto proseguiva con la descrizione di mia nonna, affacciata al balcone sullo stretto a controllare l’Etna, la sua paura dei terremoti, l’amore per i cavalli, e poi di mio nonno bambino segnato dal dolore per la perdita della mamma morta di anemia dopo un parto gemellare (li ho poi trovati nei registri di stato civile quei due bambini morti piccolini di cui nessuno ricordava più il nome). E poi ancora il bisnonno dai capelli rossi e dagli occhi azzurri, alto come un vichingo, retaggio della dominazione normanna, e gli altri bisnonni di cui si sapeva solo che erano braccianti impegnati nella raccolta e lavorazione del bergamotto da inviare a Parigi per produrre i profumi.

Ed era sempre sofferenza quella di mio padre Diego che, a differenza di mia madre, non raccontava niente della sua famiglia, ma teneva stretto nel cuore il ricordo di suo padre, morto giovane per un incidente sul lavoro proprio sotto casa, dopo aver superato indenne le due Guerre mondiali e le fatiche degli anni di lavoro in Africa. E anche il suo silenzio, al pari dei racconti di mia mamma, mi costringeva a cercare per sapere…

Nell’adolescenza ho finalmente visto Reggio Calabria e quella luce e quei profumi, così diversi dal grigiore della città di Bergamo e la magnifica vista sullo stretto, mi sono rimasti per sempre nella mente. Il desiderio di risalire indietro nel tempo per conoscere le persone che mi avevano preceduto, per sapere come erano e come vivevano si è fatto più forte e ho incominciato a raccogliere le poche fotografie rimaste, i fogli matricolari con l’indicazione delle caratteristiche fisiche dei miei nonni, i ricordi dei parenti.

La vita ha voluto che lavorassi per molti anni negli uffici di stato civile della mia città acquisendo quelle abilità necessarie per decifrare le informazioni dei registri e dei documenti antichi. La digitalizzazione dei documenti di stato civile del portale ANTENATI e dei registri parrocchiali della diocesi di Reggio mi ha permesso di ricostruire la storia della mia famiglia fino alla fine del 1500, perché a saperli leggere i registri antichi dicono molto di più di date e nomi. Raccontano di sofferenze, di gioie, di cambiamenti, raccontano delle guerre, dei terremoti devastanti, delle emigrazioni.

Infine, come ultimo tassello della mia ricerca, l’analisi del DNA che ha confermato la forte componente mediterranea della mia famiglia, aggiungendo una notevole componente mediorientale e, in piccola parte, asiatica e nord-europea permettendo di andare ancora più indietro nella conoscenza del viaggio che i miei antenati hanno compiuto per arrivare in Calabria.

Spero di lasciare alle mie figlie (entrambe con i capelli rossi proprio come il mio bisnonno) la consapevolezza delle proprie radici e la conoscenza degli uomini e delle donne che le hanno precedute perché raccolgano il testimone nella grande staffetta della vita.

Diego Scopelliti, padre dell’autrice
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Saverio Scopelliti, nonno dell’autrice

My paternal grandmother, Erminia Imbriano, has always been a mystery to me.   She is my namesake and I’ve always been curious about her especially since I knew very little about her.  She died very young, shortly after getting married and having two children, my father Guglielmo and my aunt Filomena. When my father spoke of her, he remembered her as if he were describing a dream sequence in a Federico Fellini film. He was six years old when she passed and he recalled a shadow, a surreal outline of a woman without distinct characteristics; he had trouble remembering her image. To this day, I’ve never even been able to find her photograph.
Ritratto di Antonio Maria Gioino con la divisa da bersagliere nella prima guerra mondiale
Erminia was born in 1906 in Sant’Angelo Dei Lombardi in the Avellino province.  I knew she lost her entire family and married my grandfather, Antonio Gioino. She relocated to Lioni where she lived the rest of her life. My journey began in 2019 before I knew that the infamous virus, Covid-19, would ravage the US. We have 4% of the world’s population with 25% of Covid-19 cases. The New York and New Jersey areas were hit the hardest in March of 2020. We were confined to our homes in mid- March and not being able to go about daily life, I finally decided to continue digging into my grandmother’s background. I became aware of the website Antenati through a message board on Ancestry.com. Antenati guided me in finding the story of my grandmother’s short life.  It was more tragic and heart-wrenching than I could ever have imagined. In the beginning of my research efforts, I found so much joy and happiness with the first few records I discovered. I found Erminia Imbriano’s birth record which documented her parent’s names; I never heard them before. Her father, Francescoantonio and her mother Angela Venezia who were my great-grandparents. Knowing their names, I searched for records of other children born in Sant’Angelo in that time period. I found records of four other daughters; they were my grandmother’s sisters. I was overtaken with joy on a late night in 2019 knowing that my grandmother had a large family who loved her. My happiness turned to sadness and sorrow as I continued to search through Antenati records.  I found that in November of 1918, when Erminia was 12 years old she lost her entire immediate family. The records sadly document that her mother, Angela Venezia (age 42) died first.  Then came her sister, Felicia (age 22), then Maria Michela (age 18), then Filomena (age 10), then Ernestina (age 14). The last person to pass was my great grandfather Francescoantonio Imbriano (age 45). It’s as if he waited until everyone was taken care of before he passed himself. In total, twelve people from the Imbriano family died in November 1918 in the small mountain town of Sant’Angelo dei Lombardi. I am still searching to identify the remaining Imbriano family and how they were related to my grandmother. about her.  She died very young, shortly after getting married and having two children, my father Guglielmo and my aunt Filomena. When my father spoke of her, he remembered her as if he were describing a dream sequence in a Federico Fellini film. He was six years old when she passed and he recalled a shadow, a surreal outline of a woman without distinct characteristics; he had trouble remembering her image. To this day, I’ve never even been able to find her photograph.
Ritratto di Guglielmo Gioino
In 2019, the term “Covid-19” did not exist. I began to research pandemics that occurred in that same period and narrowed it down to two options- the Spanish Flu or the malaria pandemic.  I suspected that it was the Spanish Flu because malaria was mostly present on the coastlines of Italy. The province of Avellino is located in the mountainous regions of central Italy. My father always mentioned that mosquitos were rarely seen in Avellino, unlike the mosquitoes that he experienced in Montevideo, Uruguay and in later the US.  It was more probable that it was the Spanish Flu since it was brought back by soldiers of WWI without therapeutic measures available. I also knew that quinine was used to treat malaria. My father passed away in 2004 and any information he was able to share with me was forever lost. In April of 2019, my 96-year-old uncle fell ill and I visited him and my aunt Filomena (Erminia’s daughter) in the hospital. I shared with my aunt what I had discovered using Antenati records. She was very surprised and moved that I was able to find such dated information. I told her I was still searching for the reason my grandmother died so young. To my surprise and shock, she reluctantly whispered “La Spagnola” when no one was looking and revealed the long-held family secret. La Spagnola is the Italian translation for the Spanish Flu. I had an awakening of sorts and thought about the time period that both my father and aunt lived through. In 1918, the Spanish Flu was met with suspicion and panic. It was viewed as the Black Death and a great plague inflicted on whole families, small towns, an entire country and the world. People must have looked to explain their helpless predicament based on the their deeply ingrained religious culture. Catholicism has a way of identifying sins and perhaps it was considered a great punishment inflicted on a whole family. Those beliefs were sure to have impacted my father and aunt into the 1940s as they were coming of age. My aunt is 94 years old, and I believe these beliefs are still ingrained in her consciousness. I understood perfectly why she never told anyone this secret. I did not know there was another secret she would later reveal. My grandfather, Antonio Gioino and grandmother Erminia were married in 1921. The Antenati marriage record indicates that Erminia was 16 years old, when in fact she was 15. The family story is that she had great wealth as she had inherited all of her family’s assets at a young age. In 1921, her family was fearful that she could be kidnapped and decided that the best option for her safety would be to get married. She married my grandfather and moved from S’Angelo Dei Lombardi to Lioni and her dowry included the purchase of one of the best homes in the center of town. A beautiful home with great rooms, a grand staircase and a stained -glass skylight window. She was chauffeured to Lioni in a beautiful car and she was so young that many of the neighbors thought she was part of the bridal party instead of being the bride. I do not understand why I was never able to find a picture of her. It is very likely pictures of her wedding were taken since she had the financial means. Having lost all of her family at age 12 and moving to another town must have been very frightening to her, but what was about to transpire was truly tragic. Her first daughter, Filomena was born in 1926, followed by her son Guglielmo (my father) in 1928. I look very much like my father in physical appearance, but also in personality traits such as my love for school, history and science. In 1933, her third child, Angiola was born, but she died when she was a few months old in May 1933. I never knew the existence of this child. Filomena looks very much like my grandfather Antonio and I can guess that my father looked just like my grandmother. She became very ill and was hospitalized in Naples for a period of time. My father told me that when she came back home to Lioni, she was confined to her bedroom and he could see his mother by looking through a keyhole. He was not allowed in the bedroom to be near her. I can’t imagine what it would feel like not to be able to hold your own children or not to be held by your mother. On August 10, 1934 she lost her battle with “a terrible illness”. Her death has always been a mystery. I discussed my findings with my Aunt Filomena, and she was finally willing to tell me why she died. She whispered out of the side of her mouth the cause of her death: “Tuberculosis”. The last family secret about Erminia Imbriano had been revealed to me almost 90 years after her death; a death which must have carried such negative stigma and shame in her time. Now it signifies, bravery, strength, endurance, courage and sacrifice to me. I never knew or understood how negatively the Spanish Flu impacted my grandmother’s life and how lucky I am to be alive in the age of Covid-19. I have not found a photograph of her, but I have a clue, or perhaps it’s just wishful thinking, that when I look in the mirror, I see my grandmother, Erminia Imbriano. Note: The descendants of Antonio Gioino and Erminia Imbriano currently reside in New Jersey, USA. There are currently nineteen descendants.
Ritratto di Ermelinda Brudi

Il mio nome è Patrizia, penso che per capire a pieno quello che siamo sia necessario sapere ciò che eravamo. Oltre al cognome che si tramanda di padre in figlio (il mio è Mantovani) si tramandano i tratti somatici, il carattere, le abilità; il nostro DNA porta scritto quello dei nostri antenati, in noi c’è un po’ di tutti loro. La mia gente ha vissuto in piccoli paesi della bassa Lombardia, al confine con l’Emilia ed il Veneto. Queste sono terre di agricoltura di campi da zappare e coltivare. Le case piccole di solito con due stanze, arredate con pochi ed essenziali mobili in legno, la stufa a legna per cucinare e scaldarsi; l’elettricità non c’era, si usavano lampade ad olio e candele. Il gabinetto era situato in un capanno di legno fuori poco distante dall’abitazione. La dieta era povera si mangiavano zuppe di patate e fagioli ‘al tucin ‘con l’immancabile polenta.

Ritratto di Gaetano Mantovani

Il consumo di carne era poco frequente, qualche salume arricchiva la cena. Nel mese di Dicembre, quando veniva ucciso il maiale, si facevano salumi per tutto l’anno ed era una festa per tutta la comunità. D’estate la dieta era più varia. Si mangiavano i frutti dell’orto che tutte le famiglie coltivavano, le uova del pollaio e si consumava molto pesce che veniva pescato nelle ricche acque dei canali e dal grande fiume Po. Il bucato si faceva in un paiolo sul fuoco e nelle “ suioli ” mastelle metalliche che venivano usate anche per fare il bagno. Nel paiolo veniva messa acqua con un pezzo di sapone di Marsiglia e della cenere, il tutto veniva fatto bollire e poi vi ci si immergeva il bucato. Nei rigidi inverni le braci della stufa venivano utilizzate, messe in padelline per riscaldare il letto con il “Prete “. All’imbrunire nelle sere d’estate dopo cena, ci si ritrovava tra vicini di casa tutti fuori, grandi e piccoli, a conversare, raccontarsi storie, a fare “ filò “. Si formavano grandi gruppi, o piccoli gruppetti, come le donne che rammendavano o ricamavano in circolo attorno alla luce fioca delle lampade. Gli spostamenti avvenivano per lo più in bicicletta o su carretti trainati da cavalli o da asini. Le strade principali erano ghiaiate, solo le piazze erano di ciottolato. I miei antenati erano povera gente, braccianti agricoli al servizio di possidenti e bovari ”buar” addetti alla cura della stalla e del bestiame. Ho sempre avuto un legame famigliare forte e le vicende singolari di famiglia si tramandano da generazioni. Vi racconto alcune vicende famigliari tramandate fino a me.

Atto di nascita di Ermelinda Brudi, 1876

Ermelinda Brudi e Gaetano Mantovani, i miei trisnonni, dei quali ho trovato sul sito Antenati l’atto di matrimonio e l’atto di nascita di lei, risalendo così ai miei quadrisavoli, Ottaviano Giuseppe Budri e la moglie Carolina Piva e Cova Modesta con Angelo Mantovani dei quali nessuno aveva memoria.

Ermelinda e Gaetano sposi il 15 maggio del 1900 erano braccianti agricoli, abitavano in una piccola casa con un orto ed un pollaio abitato da sette/ otto galline che probabilmente rappresentavano tutta la loro ricchezza, ed erano un sostentamento importante per tutta la famiglia. I ladri, tutti gli anni in inverno, mettevano in difficoltà la famiglia, rubando tutte le galline. Gaetano ed Ermelinda, in occasione delle feste Natalizie, si recavano a fare visita alle varie famiglie dei parenti di lui a Bergantino (RO), suo paese natale. Ogni famiglia che veniva a conoscenza del furto subito, gli faceva dono di una gallina e così al ritorno a casa a Poggio Rusco avevano ripopolato il pollaio.

Un’ altra vicenda tramandata riguarda la nascita di uno dei loro cinque figli. A settembre era il tempo della mietitura del gran turco. Ermelinda e Gaetano lavoravano nei campi. Il lavoro era frenetico. Ermelinda, al nono mese di gravidanza, dopo pranzo non si sente molto bene, avvisa suo marito e si incammina verso casa. Sulla lunga strada ghiaiata, Ermelinda riconosce i dolori del parto. Man mano che proseguiva, i dolori si facevano più forti. Sola ed esausta, si adagiò su di un cumulo di ghiaia al margine della strada per prendere fiato. Un passante con un carretto si fermò per soccorrerla. Il signore si offrì di accompagnarla a casa, ma quel bimbo aveva fretta di affacciarsi al mondo e quel passante si improvvisò allevatrice ed aiutò Ermelinda a dare alla luce il suo bambino. Quel bambino era mio bis nonno Italo. Un giorno, il ventenne Italo, tornando in licenza da militare, e percorrendo la strada che portava a casa sua, chiese un passaggio ad un anziano signore che conduceva un carretto. Il signore lo fece salire e cominciarono a dialogare. Italo aveva voglia di sentire discorrere nel suo dialetto. Ad un certo punto quel signore gli disse “ set bagaet tanti an fa chi propria chi o dat na man a na dona a far nasar so fiol” (sai ragazzo , tanti anni fa proprio in questo punto, ho aiutato una donna a partorire suo figlio).  Italo sentì un brivido e disse “Alora vu a si Bruno”  (allora lei è il signor Bruno, nome di fantasia perché negli anni è andato perso il nome). Il signore sussultò, lo guardo e con aria sorpresa e chiese come facesse a saper il suo nome. Italo ribattè  “perché cal putin a sera mi!”  (perché quel bimbo ero io).

Ritratto di Bice Trazzi, 1922-1925

Italo, bracciante agricolo, si sposò con Bice Trazzi; sarta e donna di casa. Di lei si conoscono i nomi dei genitori: Saule Trazzi  e Angela Benfatti . Cercando sul sito Antenati nella sezione “Trova i nomi”, ho trovato l’atto di nascita di Saule  e quello dei suoi sette fratelli. Inoltre, ho trovato anche il nome dei loro genitori: Erminio del 1852 e Generosa Panazza . Se chiudo gli occhi, li vedo di domenica nella loro casa, tutti seduti a tavola; quei due giovani ed i loro otto bambini. I miei bis nonni Italo e Bice, che ho avuto l’onore di conoscere, hanno avuto tre figlie ed un figlio maschio mio nonno, Silvano Mantovani. Con mio nonno ho avuto un rapporto speciale, di simbiosi, di intesa. E’ stato il mio nonno del cuore, quello preferito. Silvano, nato nel 1926 , ha frequentato la scuola fino alla quinta elementare poi ha cominciato a lavorare nei campi. Con il nascere delle industrie, lavorò come operaio nello zuccherificio del suo paese, Sermide. Si sposò nel 1948 con Lina. Le sue grandi passioni: la pesca ed il ballo liscio. Silvano se ne è andato nel 1992,  quando io ero appena diventata maggiorenne. Ha lasciato sola la nonna Lina Saccomandi  figlia di Giovanni Lino e Lea Roncati. Lina, di origine ferrarese nata a Pilastri, mondina da sempre. Lina lavoratrice instancabile, tagliatrice di canapa industriale, faceva grandi fascine e poi a piedi nudi immergeva le fascine nei maceri, in modo che la lavorazione per ottenere corde e fibre per realizzare sedie fosse più semplice. Questo faticoso lavoro era svolto soprattutto da donne per risparmiare sulla manodopera, in quanto le donne costavano il 20-30 % in meno del salario di un uomo.

Matrimonio di Vittorio Bianchi e Erta Vertuani, 1947

Delle origini di mia nonna Lina ho trovate pochissime informazioni ma continuerò a cercare. Dai miei nonni è nato un solo figlio, mio padre Franco 1950 che, come da tradizione, porta anche il nome di suo nonno Italo. Franco Italo, mio padre, barbiere dall’età di quattordici anni, si trasferì a Milano per maggiori opportunità lavorative. Franco si sposa cinquanta anni fa con Marisa Bianchi  1953 di Sermide (MN) figlia di Vittorio e Erta Vertuani. I due vissero a Milano per dieci anni, lui barbiere e lei operaia. In quegli anni, nascemmo io e mio fratello Andrea. Nel 1980 tutti tornammo a Sermide, paese natale dei miei genitori, per riunire la famiglia ai nonni. La mia ricerca, oltre alla mia curiosità, è stata anche incentivata da un diario trovato in un cassetto scritto da mio nonno Vittorio, dove raccontava brevemente la sua vita. Vittorio Bianchi nacque nel 1921 a Sermide (MN.) Frequentò la scuola fino alla quinta elementare e, a tredici anni, iniziò a lavorare come custode di vitelli. Partì per il militare e poi scoppiò subito la guerra. Così fu mandato in Africa, “ sotto le bombe” come diceva lui. Fu fatto prigioniero in Algeria e portato in America, dove raccontava che, allo sbarco, le persone si affollavano al porto, per vedere l’arrivo degli Italiani; perché si diceva avessero la coda. Nei suoi racconti puntualizzava ch’ erano loro gli strambi.. diceva: “  mangiano il gran turco che noi diamo come cibo alle galline”. Tornato a Napoli dopo cinque anni in America , vi rimase altri cinque anni come prigioniero di guerra. Liberato con il tempo tornò a casa; tutto ai suoi occhi era cambiato, chiedendo trovò la casa dove abitava la sua famiglia, cosi dalla strada vide il padre che……..
lo lascio leggere direttamente dalle sue parole…

 

Il primo da sinistra è Carmelo Monteleone

La lingua italiana non ha un termine che possa esprimere il concetto di nostalgia per qualcosa o qualcuno che non si è mai conosciuto, o un luogo che non si è mai visitato. Dobbiamo allora cercare la ricchezza di altre lingue lontane e difficili, come il finlandese kaukokaipuu o il giapponese natsukashii che evoca qualcosa di bello e lontano. Quest’emozione vagamente irrazionale che infrange le barriere dello spazio e del tempo da sempre mi lega a mio nonno Carmelo, lasciando che percepisca come ricordi quei frammenti di vita ormai lontana che ho ricostruito negli anni dai racconti familiari e dalle ricerche genealogiche. Se sono nata in un preciso luogo è proprio grazie a te che tanti anni prima lo avevi scelto per formare la tua famiglia, là dove esigenze di lavoro ti avevano portato, lontano dalla tua famiglia di origine. Un’altra coppia forestiera avrebbe scelto quella stessa cittadina del Lazio subito dopo la guerra ma la tua breve esistenza si era già tragicamente spenta.
Era esattamente il 26 novembre del 1900 quando nascevi tu, centoventi anni fa, a Patti in provincia di Messina, quinto figlio di Antonino (di Giuseppe e Angela Rottino) e Concetta Furnari (di Antonino e Angela di Nardo), in quella via dietro il Castello che oggi ha nome via Magretti e che nella mia visita a Patti di tre anni fa, come attirata da forze invisibili, casualmente mi portò a scegliere il mio albergo proprio in quella via.
Della tua infanzia pattese non so nulla purtroppo, né conosco i motivi che intorno al 1904 spinsero la tua famiglia a trasferirsi nella vicina Sant’Agata di Militello dove nacquero i tuoi fratelli Salvatore e Antonino. Qui avrai frequentato la scuola e da qui giovanissimo hai scelto quale sarebbe stata la tua carriera: a 18 anni ti sei arruolato nei Carabinieri Reali, mi chiedo ancora quale scuola allievi Carabinieri avrai frequentato, ho ancora lacune in questo primo periodo della tua vita ma presto avrò le tue lettere, preziosi documenti che ho studiato riga per riga per ricostruire la carriera, i luoghi in cui hai vissuto, le persone che sono entrate nella tua vita e tanto care sono state per te che avevi una parola affettuosa per tutti. Dal 1929 al 1934 ti ritrovo così già ben avviato nel tuo lavoro, ti stai facendo onore nel grado di appuntato, ormai vivi a Roma ma non so esattamente da quando, provo a immaginare come doveva essere il tuo lavoro nella Roma fascista: eri già lì nel 1924, a indagare sul caso Matteotti? Chissà, me lo sono chiesta tante volte e con un po’ di pazienza lo scoprirò.
Cosa succede dunque in questi cinque anni per farti scrivere quasi una lettera al giorno e descrivere le tue giornate? Semplice, ti sei innamorato di Benedetta, che chiami semplicemente Bettina. Ti ingegni in ogni modo per non farle sentire troppo la nostalgia inevitabile di quel rapporto a distanza, tu a Roma e lei in Sicilia ad aspettarti ad ogni licenza, su di lei concentri le tue attenzioni, la tieni un po’ sulla corda con una vena di gelosia, le scrivi frasi spiritose per farla ridere un po’ ma poi diventi dolce e appassionato. Con quest’altalena di emozioni ma con l’incrollabile fede nell’amore eterno che le giuri e che mai tradirai passeranno gli anni del vostro fidanzamento per arrivare infine a quel 1 dicembre 1934 in cui pronuncerete il fatidico sì nella vostra Sant’Agata di Militello e dal giorno successivo sarete nella vostra nuova casa a Civita Castellana: per mettere su famiglia ci voleva più tranquillità ed il delicato incarico che svolgevi a Roma era poco compatibile con questo desiderio.
Saranno i vostri anni più belli, quelli che vedranno la nascita dei vostri figli, Antonio (mio padre) che nella migliore tradizione siciliana porta il nome di entrambi i suoi nonni, e Franco. Ma sui giorni belli, tanto sospirati, passerà presto una nuvola nera: l’Italia entra in guerra nel giugno del 1940, hai ormai quasi 40 anni, una famiglia, due figli, il tuo lavoro in provincia, per un soffio avevi scampato la chiamata alle armi in occasione della prima guerra mondiale e forse all’inizio ti culli un po’ nella speranza che magari anche stavolta riesci a evitare la guerra, in fondo non sei più giovanissimo per la vita in trincea.

Il secondo da sinistra è Carmelo Monteleone

La guerra è iniziata ma per il momento sembra lontana, su altri fronti, non ci tocca ancora ma tu comunque non abbassi la guardia: i primi ricordi di bambino di mio padre sono legati ad una grande mappa che sembra tenessi in casa e sulla quale segnavi l’avanzare dei vari fronti e le alterne sorti dei combattenti. Poi la situazione precipita, da una lettera si intuisce che sei stato richiamato e in breve tempo ti ritrovi al fronte a scrivere a casa, è il 1942. Non puoi scrivere dove sei ma chi legge lo sa, in una lettera datata agosto del 1943 sei appena rientrato da una licenza e scrivi che il tuo rientro al fronte si è svolto senza difficoltà, la nostalgia della famiglia si fa sentire fortissima ma il tono è rassicurante. In Italia meno di un mese prima era caduto il fascismo e Mussolini era stato arrestato, quasi sicuramente eri a conoscenza della situazione difficile che stava attraversando il nostro paese e dell’incertezza totale che regnava sui vari fronti nei quali erano impegnate le nostre forze armate. Sarei pronta a scommetterci che nella tua mente sempre attiva tu un piano B magari lo stati già elaborando ma la prontezza di spirito non è bastata, a te come alle migliaia di IMI che nelle prime ore dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943 sono caduti prigionieri dei tedeschi.
Fu l’alba del 9 settembre che ti vide catturato nei pressi di Pristina, nell’allora Albania (oggi Kossovo) ed anche allora, sul treno che ti portava in Germania, su un elegante biglietto da visita con il tuo nome, stilasti una lista di nomi (quasi sicuramente tuoi commilitoni che con te hanno condiviso quel triste viaggio) e con l’incerta grafia di chi non conosce il tedesco tentasti più volte di scrivere Witzendorf, prima destinazione e campo di smistamento verso altri campi più propriamente di lavoro.
Nello Stalag in cui ti mandano continui a scrivere, mentre cerchi di rassicurare la famiglia sul tuo stato di salute domandi apertamente perché le tue lettere non ricevono risposta e temi il peggio per chi è rimasto a casa. Già, ma casa dov’è adesso che l’Italia è invasa dai tedeschi? Dove sono tua moglie ed i tuoi figli, saranno tornati in Sicilia? I dubbi ti torturano.
E’ il giorno di Natale del 1944, alla mensa hanno servito il pranzo che per quel giorno sembra essere appena più commestibile del solito; tornato nella baracca, la nostalgia di casa ti fa prendere in mano la penna ancora una volta e scrivi rivolgendoti direttamente ai tuoi figli.
La tragedia che ti ha strappato per sempre all’affetto dei tuoi cari avviene il 21 febbraio del 1945, nella fabbrica di munizioni vicino Oranienbaum (Munitionsanstalt Kapen), un sito ben nascosto nel folto della Foresta Nera, vicino al fiume Elba. Solo pochi giorni prima Dresda, distante circa 170 chilometri, era stata quasi rasa al suolo in uno dei più devastanti bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il fronte orientale stava per cedere definitivamente sotto i colpi inferti dall’avanzata sovietica, i primi campi di concentramento in quell’area furono liberati già nel mese di aprile e fa rabbia, proprio tanta rabbia, che per poco più di due mesi non si sia potuto scrivere un lieto fine per questa storia.
Nel dopoguerra la Germania orientale, come noto, cadde sotto l’influenza sovietica; l’ex- fabbrica di munizioni per l’esercito, come molte aziende compromesse con il regime nazista e lo sforzo bellico, fu riconvertita in un’industria chimica, la Chemiewerk. Con la caduta del muro e la riunificazione delle due Germanie il sito fu abbandonato e solo in anni recenti bonificato per essere poi inglobato nel più ampio progetto della Riserva Naturale denominata Biosphärenreservat Mittlere Elbe.

 

Si invita a leggere anche l’approfondimento sulle ricerche della storia di famiglia di Roberta Monteleone.

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